CAPITOLO PRIMOFin dove arriva la mia memoria, mi rammento che ho vissuto ogni anno della mia vita nell’attesa ansiosissima dell’estate. Le altre stagioni non contano per me, e ne considero appena il colore, ne avverto i segni con una trepidazione quasi timorosa; o almeno con un’uggia che mi colma di inquietudine. Soltanto alla prima vampa del sole di giugno mi pare, e un tempo specialmente mi pareva, al tempo di quando ero ragazzo, di incominciare a vivere giorni pieni e memorabili, e che anche il mio corpo s’accordi facilmente, percorso da una febbrile allegria, alle giornate festose dell’estate.
Specialmente da ragazzo, ho detto; e ora non so bene se fosse perché io mi liberavo, alla bella stagione, della prigione della scuola, essendo allora per l’appunto un pessimo scolaro; o se fosse per la contentezza di partire, come usavamo tutti gli anni, per la campagna, al paese di mio padre. E potrei dir mio benché non vi sia nato; perché tornandovi ogni anno io ho imparato a conoscerlo casa per casa, a misurare il progresso del tempo dal mutare e decadere delle fisionomie degli abitanti. E di tutti i luoghi che ho poi veduto non mi sono rimasti negli occhi colori più gentili dell’ocra di certe facciate, del verdolino agro di certe persiane; né alcuno m’è parso, come esso nelle sue stradine sonore, tanto lindo e festevole. Veramente, veduto da lontano, forse pel contrasto che offrono le sue antiche mura con il disteso verdeggiare di una vegetazione ricchissima, con la benignità di una terra variamente mossa, il mio paese è cupo, quasi fosco. Ma da ragazzo erano soltanto i campi a piacermi.
Ogni anno, alla fine di giugno, partivamo per la campagna: la mamma, io, mia sorella Marta. Il babbo, trattenuto in città dai suoi lavori, non vi si fermava che pochi giorni.
Non avevamo, fin quando io ebbi diciott’anni, una casa nostra, in campagna: ma quella che tenevamo in affitto dai contadini proprietari di un podere era come se lo fosse, ché noi anzi, quando finalmente mio padre poté costruirsi la sua casa buttando ogni risorsa in quella costruzione e nell’acquisto di un pezzetto di terra appena meritevole del recinto che la circondò, la lasciammo malvolentieri e quasi ci dispiacque la nuova dimora. Eppure, a questa, io, più che mia sorella e mia madre, avrei dovuto sentirmi attaccato, poiché lavorai col babbo a progettarla e perfino a costruirla. La nostra casa è a mezza costa di una breve collina coltivata a vigneto: vi si arriva dal paese per una strada in salita, poco agevole per il suo fondo disordinato, ma bellissima per essere d’ambo i lati limitata da alte querce secolari, tanto vicine e fronzute da chiudere la strada sotto una volta spessa che appena lascia filtrare i raggi del sole.
La casa, quale io e mio padre la volemmo, ha un aspetto rustico e insieme nobile, con una calma facciata bene spartita dalle finestre e dal portichetto di ingresso: le camere scialbate, che ebbero dapprima arredi di fortuna, a poco a poco hanno preso una fisionomia più prossima alla nostra ambizione di proprietari: vecchi mobili paesani, alcuni quadri fumosi e quasi indecifrabili hanno contribuito a darle ben presto un’aria sufficientemente antica, come appunto piaceva a mio padre che fosse. È una casa comoda e spaziosa e ora m’accorgo che se quella prima tenuta in fitto andava bene per quando io e Marta eravamo ragazzi, ché si passava il giorno fuori, all’aperto, mescolati con i figli dei contadini con cui avevamo stretto un sodalizio che superava ogni diversità di educazione, la nuova casa si adattava meglio alla nostra età di giovinetti: io diciottenne, ormai preso dalla passione della lettura, e da una facoltà di astrazione e da un calore di fantasia che mi permettevano di nutrire le più gratuite e libere speranze per l’avvenire; Marta di tredici anni che già annunciava, nei primi pudori di fanciulla, il femminile riserbo che ha fatto di lei, donna, una creatura tanto saggia e tranquilla, non potevamo già più permetterci le confidenze, le risse, i giuochi con i nostri coetanei padroni di casa. E, diversamente segnati da una stessa inclinazione al quieto fantasticare, la quale discendeva dal carattere estroso di nostro padre e dalla malinconica timidezza di nostra madre, trovammo dopo qualche tempo l’accordo più perfetto con la nuova casa. Ancora stavamo lungamente all’aperto spingendoci nelle nostre passeggiate fino alle opposte colline, ma, cessata la smania dei giuochi e dei dispetti, perdute le antiche amicizie, parlavamo poco tra noi. Ci piaceva stare insieme, tuttavia, e al ritorno dalle nostre spedizioni ci sedevamo accanto nel portichetto fino a quando la luce del giorno lo consentiva, con un libro ciascuno. Stando così prossimi al cancello di quella che scherzosamente chiamavamo la nostra villa, vedevamo passare dinanzi a noi i pochi contadini che dal colle si recavano al paese o ne tornavano, essendo la strada delle querce l’unica che vi conducesse. Né ci dispiacevano, per quanto presi dalla lettura, quelle rade distrazioni, e volentieri sollevavamo gli occhi dal libro per ricambiare il saluto dei cortesi contadini. Quelli, di costoro, che avevano con noi mag giore dimestichezza, venivano talvolta dopo la cena a passare un’ora da noi e, resi briosi dal vino che la mamma distribuiva, e ne voleva in quelle circostanze anche Marta che di solito non beveva, raccontavano allegre storie incitandosi e schernendosi a vicenda.
Dal portichetto, appunto, una sera di luglio, vidi passare per la prima volta Esterina, sette anni dopo la costruzione della casa.
L’automobile da cui ella discese - una macchinetta che conoscevo per essere l’unica che facesse servizio pubblico in paese - non poteva procedere oltre l’ingresso della nostra casa. Lì difatti terminava l’alberata e la strada, svoltando, si rastremava fino a ridursi a un viottolo che s’arrampicava alla sommità del colle. Insieme con lei uscì dalla macchina, modesta e di scarsa bellezza per quanto la giovinetta era invece trionfante di avvenenza, una donna di poco meno che cinquant’anni: sua madre; poi un uomo che conoscevo molto bene, fattore o capoccia del podere che ha inizio alle spalle del nostro orticello per finire di là dal colle, che scavalca. Quest’ultimo si caricò di una pesante valigia, altra con minor slancio ne prese l’autista.
Tanto bastò, a me e a Marta, per capire che le due donne andavano a prendere possesso della casa del pretore: cioè della casa rossa posta in cima al colle che, abitata un tempo dal pretore del circondario, continuò a chiamarsi così anche quando questi, che era il proprietario del fondo, diventò un alto magistrato.
La casa rossa era assai più vasta della nostra, e più comoda, più bella. Dopo qualche anno di abbandono, i proprietari avevano deciso di affittarla per la villeggiatura. Evidentemente gli affittuari erano le due donne che passando davanti a noi ci avevano con tanta buona grazia salutato.
Se ritorno spesso col mio infaticabile ricordo a quel primo incontro con Esterina, e se anche ora vorrei indugiarmi a descriverlo assai più di quanto comporti la natura di queste memorie, è più che altro, io credo, per convincermi che veramente nulla mi fece presagire, di quell’incontro, gli immediati rapporti e conseguenze; del resto neppure il rivedere la fanciulla nei giorni successivi produsse in me alcun turbamento, se non quello, assai diverso dalla timidezza, alla quale tuttavia assomiglia, che ho sempre provato nel conoscere per la prima volta una donna. Gli anni mi hanno insegnato a non fidarmi dell’euforico benessere che mi danno le prime parole scambiate con una donna, ma al tempo del mio incontro con Esterina io ero dispostissimo a credere che in me non vi fosse più traccia degli imbarazzanti rossori e degli impacciati mutismi dell’adolescenza: mi ritenevo al contrario capace di affrontare qualsiasi, per quanto armata, civetteria femminile, e le mie poche esperienze mi rendevano abbastanza presuntuoso. Sicché giudicai Esterina perfino troppo giovane e perciò priva di un reale interesse per me, uomo navigato, quale, nella presunzione dei miei venticinque anni, mi ritenevo.
Ricordo che fu proprio Marta a farmi notare la bellezza della fanciulla, insistendo nel lodare le sue qualità, dopo che ebbe scambiato con lei qualche sbadata parola, com se le stesse particolarmente a cuore che io mi interessassi a quella sconosciuta. Ben presto ella non fu più tale: ci voleva poco a far conoscenza nelle condizioni in cui vivevamo; cioè stando in un luogo di campagna dove scarsissime sono le distrazioni, vivendo un’esistenza che anche a persone dei gusti miei e di Marta, per non parlare di mia madre, poteva finire per sembrare uggiosa. Marta fu la prima ad avvicinare Esterina: esse avevano quasi la stessa età, sicché si abbandonarono facilmente alla bella confidenza propria dei coetanei, e d’altra parte Marta - io lo sapevo bene - aveva bisogno di una amicizia. La mia, di fratello, non poteva bastarle, poiché, uscito dall’adolescenza, io l’avevo lasciata ai suoi giuochi e nonostante che le vicende della nostra famiglia avessero reso molto stretti e teneri i nostri vincoli non avevo più sentito la necessità di confidarmi con lei. Si è veramente fratelli soltanto da bambini, dopo è molto difficile liberare l’affetto dal gelo delle distanze di età e di sesso e quasi dalle familiari convenienze. Marta dunque mise in quell’amicizia tutta la sua freschezza di sentimento, ma anche mia madre non tardò a considerare sua amica la signora Paolina, la madre di Esterina: anch’esse come le due ragazze erano coetanee. Io soltanto fui, da principio, com’era giusto, escluso da quell’amicizia.
Erano già lontani, in quell’epoca, i tempi in cui trascorrevo in campagna tre mesi dell’anno. Le mie vacanze si riducevano a una ventina di giorni, quante me ne concedeva l’ufficio nel quale ero impiegato. Ma tante altre cose erano cambiate nella nostra famiglia, e, per me specialmente, tante care abitudini s’erano interrotte. Se io ripercorro con la mente la storia della mia famiglia dal giorno in cui mio padre, dalla cittadina di provincia dove sono nato, si stabilì in città, quando io avevo cinque anni e Marta non aveva ancora imparato a camminare, mi sembra quasi impossibile che si siano avvicendati periodi tanto diversi, condizioni tanto contrastanti. Giacché nel tempo che va dalla mia prima infanzia alla giovinezza noi, dico la mia famiglia, siamo stati poverissimi e ricchi, abbiamo oscillato tra le privazioni e gli agi. Ho cercato di spiegarmi più tardi la singolarità delle nostre vicende, ma per quanto le circostanze che di volta in volta davano l’avvio alle nostre repentine cadute e ai nostri precari splendori mi appaiano sempre abbastanza decisive, di per sé capaci di provocare i mutamenti che ho detto, la vera causa, la legge di essi, deve essere soprattutto nel carattere fantastico di mio padre. Ora soltanto, che già da tempo vado ripetendo a me stesso di non essere più tanto giovane, ora soltanto mi accorgo di somigliargli fino al punto di ripetere nei miei gesti quelli stessi che quasi con spietatezza avevo osservato nel babbo; e mi pare perfino, talvolta, che anche la mia voce, ove io mi affanni ad ascoltarla, ripeta quella di lui; prima m’ero sempre illuso che sì fosse diversissimi: e non ci faceva diversi, oltre all’età, se non la differenza degli ambienti in cui eravamo variamente maturati. La fantasticheria di mio padre potrebbe forse, con più letteraria lusinga, chiamarsi inquietudine spirituale. E certo che egli ha percorso i suoi anni con una volubilità di passioni, con un estro che avrebbero potuto essere il segno di una ambizione nascosta e mai rivelata.
Altri incontri umani, altra nascita, forse, avrebbero fatto di lui un artista. Mio padre nacque invece operaio, e tale restò fino ai vent’anni: fino al tempo in cui la durezza del mestiere e la ristrettezza dell’ambiente natìo lo spinsero a fuggire; fu emigrante, e subito prediletto da una capricciosa fortuna, molto guadagnò, molto perse; tornato in patria, benché poverissimo, non volle più essere operaio, preferì l’ozio con tutte le sue conseguenze (quello e queste mascherati da una vaga e instabile attività politica), alla condizione da cui era fuggito.
Del resto il carattere del suo tempo consentiva certi atteggiamenti che oggi chiameremmo romantici. La sorte gli fu dapprima abbastanza benigna, e poiché aveva compiuto studi che allora erano davvero insoliti in un operaio, e giacché il viaggiare gli aveva dato una sicurezza superiore alla sua età, fu abbastanza facile per lui diventare da muratore assistente edile, poi appaltatore. Come questa attività si incontrò con un’epoca assai propizia, egli conobbe i facili guadagni, ma secondo la sua umana natura non ebbe per il denaro abbastanza amore da impedire che questo gli fuggisse rapidamente come si era fatto raggiungere. Io non voglio far qui la storia minuta di mio padre, che pure tenterebbe qualsiasi scrittore, ma mi pare necessario far capire quanta parte abbia avuto l’ambiente familiare nelle vicende della mia vita. Secondo il giro capriccioso dei suoi affari, mio padre alimentò in me grandi ambizioni e le soffocò, mi insegnò a disprezzare gli agi borghesi e mi abituò ad essi. Tutta la mia educazione conobbe questo ritmo sicché fui avviato agli studi classici e poi a quelli tecnici, fu stabilita come meta della mia giovinezza la laurea di ingegnere; bruscamente, a sedici anni, interruppi gli studi per essere iniziato al mestiere di mio padre; più tardi li ripresi, ancora li interruppi; la laurea di ingegnere, dopo avermi lungamente lusingato, fu poi confinata nel ricordo tra le speranze impossibili.
Troppe volte ho visto piangere mia madre, perché la penna si lasci tentare dal ricordo dei tempi più mi seri: troppe volte ho visto mia sorella Marta impallidire alla suonata del campanello di casa per l’angoscia che entrasserb nuovamente gli uomini che un giorno portarono via tutti i mobili di casa nostra. Ma come non ricordare anche la immensa generosità del babbo, la gioia che egli provava nel farci partecipare, con una prodigalità che faceva tremare mia madre, alle sue repentine fortune?
Fra tanto variare di vicende rimase immutato quasi che ciascuno di noi la custodisse come un necessario simbolo, soltanto l’abitudine di passare l’estate al nostro paese, in campagna. Io e mio padre abbiamo dovuto rinunciare qualche volta, a cagioni del lavoro affannoso cui attendevamo, a compier quel viaggio quasi rituale; la mamma e Marta mai. E la nostra casetta, sorta in tempi che già s’avviavano a seguire un ritmo più ordinato, si salvò sempre dalla minaccia degli usurai e dei creditori.
Nel tempo che io conobbi Esterina le nostre condizioni erano buone: già da alcuni anni avevo un impiego al quale mi andavo affezionando, benché le intense e disordinate letture cui mi ero abbandonato negli anni precedenti sommovessero in me ambizioni troppo vaghe e mutevoli per potersi chiamare vocazione; e mi inducessero a sperare, senza apparenti ragioni, che non avrei passata tutta la vita dietro al tavolo d’ufficio. Anche mio padre lo sperava; fidando nell’antica confidenza ch’io avevo con le fabbriche e gli operai, affrettava nella mente il giorno che avrei potuto decidermi a iniziare la mia fortuna di appaltatore. Era il suo modo di pensare a una vendetta contro la sorte che gli era stata avversa; e forse fu la delusione di non scorgere in me la decisa volontà di lanciarmi negli affari edilizi ad insinuare nel suo affetto per me una perpetua scontentezza.
Non era colpa mia se nelle fantasticherie cui mi abbandonavo le fabbriche e i cantieri entravano ben poco: tutt’al più mi piaceva di lasciarmi lusingare dall’idea di essere capace di disegnare un edificio. La mia vocazione di costruttore si esauriva sul tavolo da disegno. Il resto non mi interessava affatto.