Una scrittura che parla all’oggi
Una scrittura che parla all’oggi
di Cristina Tagliaferri
Il romanzo breve dal titolo Esterina fu concepito nei mesi fra il 1940 e il 1941 in una tranquilla caserma della capitale, in via Nomentana, quando un esordiente poeta di nome Libero Bigiaretti (Matelica, 1905 - Roma, 1993), richiamato alle armi, avvertì senza serie ambizioni il desiderio di intraprendere la scrittura di un racconto ispirato al luogo d’origine, un fiorente paese marchigiano a metà strada fra Camerino e Fabriano. La vicenda, inizialmente interessata da una storia di venti pagine, fu poi ampliata, fino a raggiungere la dimensione definitiva. Il libro, corredato di un disegno del pittore Antonio Vangelli, riportato anche nella copertina, fu poi pubblicato nel 1942, nella collezione di ‘Romanzi brevi’ affiancata alla testata «Lettere d’oggi», diretta da Giambattista Vicari. I lusinghieri giudizi critici, per lo più concordi nel riconoscere all’autore lo stile «piano», quasi dimesso, e la ricerca di un equilibrio e di un’eleganza formali riconducibili agli ideali rondisti, lo condurranno a proseguire lungo la strada della narrativa, tanto da meritarsi, dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, l’ambita ‘Penna d’oro’, a riconoscimento della «lunga e feconda carriera» (1982).
Ma i tempi cambiano, le logiche del mercato editoriale anche, e non a tutti gli uomini di penna è dato appartenere al cosiddetto ‘canone letterario’, cioè a quell’insieme di opere e di autori cui una comunità riconosce un valore esemplare, così da poter essere conosciute e trasmesse. Ciò si riflette innanzitutto nel ‘canone scolastico’, influenzando la memoria e le predilezioni letterarie delle diverse generazioni che si susseguono nel corso degli anni. Dunque, se il nome di Libero Bigiaretti è senz’altro noto agli studiosi di settore, offrendo al lavoro critico notevoli spunti d’interesse, altrettanto non si può dire per la comunità odierna dei lettori.
Nato in una famiglia laica, operaia e «variamente socialista», e battezzato con l’audace nome di Libero Spartaco Ribelle, il futuro scrittore si trasferisce a Roma all’età di sei anni, per seguire il padre che nella capitale aveva trovato lavoro come capomoastro, partecipando ai lavori dell’Esposizione Universale con l’incarico di edificare il padiglione relativo alla sua Regione. Frequenta le scuole elementari in via Puglie, una traversa di via Veneto, che negli anni ricorderà come «una strada piccolo-borghese, alla ‘Regina Elena’»; dopodiché, quando durante la guerra deve ritornare a Matelica per motivi famigliari, inizia la media ‘tecnica’, che continua e conclude di nuovo emigrando a Roma.
In un suo ricordo autobiografico, Bigiaretti si definisce
un pessimo scolaro di buona condotta: cioè tranquillo e totalmente indifferente; non capivo e non sapevo assolutamente studiare, sapevo soltanto leggere e interessarmi di cose non richieste dalla scuola: per esempio prendevo lezioni di arabo da un prete libico che mi insegnava anche il latino, inventavo caratteri alfabetici, disegnavo case e villini; da ciò che invece mi veniva insegnato a scuola ero lontano, reso astratto e indifferente da non so quali fantasticherie e precoci innamoramenti.{1}
In questa descrizione è racchiuso in nuce ciò che poi contraddistinguerà il suo fare creativo. La predisposizione per il disegno lo porta infatti, al termine della scuola, a lasciare il lavoro nei cantieri edili, intrapreso sulle orme del padre, per un precoce impiego nella capitale come disegnatore presso vari uffici tecnici. Dopo una breve esperienza come ceramista e decoratore, Libero avrà modo di formarsi presso famose scuole serali come quella delle Arti Oramentali del comune di Roma, diretta dal pittore Antonino Calcagnodoro, dove conosce Mario Mafai e altri artisti importanti dell’epoca. Ottiene da esterno il diploma di Liceo Artistico e mira, senza mai riuscirvi, a conseguire la laurea in Architettura. Nel frattempo germina un altro interesse, quello per la letteratura, che rappresentò per lui
un mezzo di elevazione sociale – anziché la letteratura poteva essere la pittura […]. È stata per me una confusa speranza che si è poi realizzata abbastanza tardi. Non intendo dire speranza di successo, di qualificazione, ma speranza di accogliere dentro di me una ragione, quasi una fede che riempisse il vuoto, l’insensatezza, l’assurdità e la noia avvertite fin da bambino in tutte le altre manifestazioni esistenziali. Sono uscito, scrivendo, da un doloroso senso di irrealtà; ho incominciato a credere a ciò che mi circondava soltanto quando ho tentato di descriverlo; sono stato un ragazzo povero e incolto che non credeva alle versioni della realtà che gli venivano offerte e credeva che tutto fosse una finzione allestita dagli altri. Ho cominciato ad accettare la realtà quando ho imparato a nominarne gli aspetti con il disegno e la scrittura.{2}
Lettore perseverante, Bigiaretti inizia a scrivere versi e prose d’arte, nonché recensioni per riviste minori. Nel 1932 vince il premio ‘Conquiste’ riservato alla poesia, e comincia a frequentare giovani poeti, letterati e giornalisti. L’amicizia con Giorgio Caproni regala un aggiuntivo impulso alla sua vena creativa, tanto da pubblicare i suoi primi testi su quotidiani e riviste come «Meridiano di Roma», «Maestrale» e la «Fiera letteraria». Perfeziona la scrittura poetica grazie alla lettura dei maggiori lirici italiani, da Leopardi a Quasimodo, e solo in un secondo momento si dedica alla prosa, eleggendo a suoi modelli Federigo Tozzi, Vincenzo Cardarelli, Antonio Baldini, Emilio Cecchi: maestri del ‘bello scrivere’ secondo i noti ideali propugnati anni prima dalla rivista «La Ronda». Inizia a frequentare i letterati legati ai Caffè Greco, Aragno, Rosati, Canova, i piccoli teatri e i salotti privati come quello dei coniugi Bellonci, che avevano dato vita al Premio Strega. In tal modo allaccia relazioni significative con i maggiori protagonisti della vita letteraria e artistica della capitale (Giuseppe Ungaretti, Emilio Cecchi, Riccardo Bacchelli, Natalino Sapegno, Vincenzo Cardarelli, Alberto Savinio, Corrado Alvaro, Cesare Zavattini, Libero de Libero, e i pittori Amerigo Bartoli, Antonio Donghi, Carlo Socrate…).
Nel 1936 pubblica la sua prima silloge poetica, Ore e stagioni, che riceve apprezzamenti dai maggiori critici dell’epoca; mentre nel 1940 esce Care ombre, ripresa e sviluppo dei motivi delineati nella prima raccolta: la dimensione del sogno e della memoria; il tempo e lo spazio come limiti imposti all’uomo dal suo essere nella storia; la nostalgia per la perduta fanciullezza legata al ricordo di Matelica. Lo stesso antroponimo attribuito al personaggio di Esterina, è «nome riassuntivo ed emblematico di delicati amori giovanili e di tragedie vissute in anticipo» (L. Bigiaretti, Le stanze, 1976), alludendo in parte all’ispirazione suscitata dalla memoria di quel mitico ‘paese dell’anima’, legata soprattutto al tempo dell’estate, com’è chiaramente palesato dall’incipit del romanzo, che instaura un legame di corrispondenze anche foniche con la nominazione prescelta per il titolo del libro.
A partire da questo suo primo romanzo, l’autore rivela l’interesse per una tematica destinata a non esaurirsi negli anni a venire: quella della sfera dei sentimenti, indagata con estrema lucidità e attitudine introspettiva, con una particolare predilezione per il motivo del disamore. Afferma Bigiaretti:
Disamore per me è lo stato (non sempre avvertito in tempo) di lenta corrosione o di lenta corruzione di un sentimento amoroso. È la situazione che precede il distacco, il voltafaccia, nella quale tra ansie e insofferenze non mancano momenti di grande dolcezza suggeriti astutamente dal rimorso o dal senso di colpa. Spesso il disamore sopraggiunge al modo come all’orizzonte si leva la nebbia, che si mette a cancellare tutto, dapprima lentamente poi con vigore: è la nebbia della noia.{3}
Interrogandosi sulle «ragioni che sono alla base del fallimento delle illusioni, degli slanci e delle esaltazioni», lo scrittore predilige un lessico che indica negazione, dispersione, contrasto. «Disamore», «disincanto», «disinganno», sono termini ricorrenti nelle opere bigiarettiane, volte a denotare una condizione di fallimento, insita nell’essere umano, secondo una visione sostanzialmente pessimistica della realtà.
Esterina è di fatto la storia di un’esperienza sentimentale – dall’innamoramento, all’unione coniugale, alla separazione della coppia – che va progressivamente degradandosi fino al suo disfacimento, rievocata in forma di diario da colui che nella finzione è il marito della protagonista, secondo una struttura a riprese analettiche multiple, dove i fatti sono presentati in una continua scansione temporale, dal presente (corrispondente al ‘qui e ora’ della scrittura delle memorie), al passato (determinato dal ricordo di eventi remoti e avvenimenti recenti). All’io-narrante corrisponde infatti l’io-narrato; il primo commenta e interpreta i fatti e gli stati d’animo vissuti dal secondo, in virtù di una progressiva maturazione interiore, culminante nel passo finale del libro, dominato dal motivo della rinascita e della speranza («Non voglio più continuare a scrivere, e del resto si avvicina il giorno che debbo tornare al mio lavoro, al lavoro vero, che ormai amo»…).
Se il racconto parla di una crisi fra due persone che un tempo furono amanti, come ogni autentica krisis – nell’accezione etimologica – implica il superamento di una condizione difficile culminante in un momento di decisione o di scelta, e quindi di potenziale opportunità, essa si conclude con l’inizio di una fase positiva per il protagonista maschile. Strumento catartico è la scrittura, per mezzo della quale il marito di Esterina, attraverso un percorso à rebours, indugia a lungo sui ricordi e ne ricostruisce il senso, i rapporti e le conseguenze, così da «non doverli più temere». Persino l’immagine della povera donna «lentamente sbiadisce collocandosi nella giusta prospettiva degli anni». Se per lei il percorso patemico ha un esito tragico (lo squilibrio psichico, e infine la morte: una specie di premonizione di ciò che accadrà, dieci anni dopo, alla moglie dello scrittore) per lui sfocia, all’inverso, nel ristabilimento di un equilibrio, a partire dal ritrovato rapporto con la campagna e con gli affetti familiari, in accordo al raggiungimento della pace interiore che gli consente «di ricordare le passate vicende senza provare il dolore di un tempo». Compiutosi il lento processo di elaborazione della sofferenza e del senso di colpa, egli spera di soddisfare un giorno ciò che Esterina fatalmente non ha mai potuto dargli, ossia il desiderio di essere padre, nella «pienezza» della sua «nuova età».
In tale potenziale capacità transformativa, insita in ogni essere umano, donna o uomo che sia, credo risieda l’insegnamento principale di questo romanzo, lungi dall’essere interpretato, all’opposto, in modo riduttivo rischiando di non apprezzarne il significato. Altrettanto interessante è la rappresentazione della psicologia maschile e di quella femminile, delineata nella sua sostanziale diversità. Se i tempi sono nel frattempo decisamente mutati, e con essi le condizioni sociali che hanno comportato cambiamenti epocali negli stili di vita e nella condotta delle persone, con ripercussioni sullo statuto stesso della famiglia e del matrimonio, strutturalmente analoghi rimangono invece i tratti costitutivi del sentire femminile in rapporto a quello maschile, e viceversa. Anche su questo versante, Bigiaretti mostra una spiccata capacità di analisi e di comprensione dell’animo umano.
Così il dramma muliebre, attribuito a una presunta «pazzia» di Esterina e comunque avvolto da un certo alone di mistero («come poteva essere morta? Come poteva in pochi giorni essere precipitata nel male fino a esserne divorata?»), è l’esito di un profondo disagio interiore determinato dalla fragilità della donna che, proiettati i sogni e le speranze nell’unione coniugale, vede infrangersi le sue aspettative anche a causa dell’impossibilità di avere figli. È lei però, a decretare senza incertezze, e anticipando i proponimenti del marito – colpevole poi di averla tradita – la separazione della coppia («Non voglio più stare con te: ho paura di odiarti»), preparandosi al distacco definitivo determinato dalla sua morte nella casa della madre.
Nonostante la vicenda sia narrata esclusivamente secondo l’ottica dell’uomo, assai realistica nella sua finezza descrittiva è la ricostruzione di quel processo – nell’incontro / scontro fra le componenti piscologiche maschili e quelle femminili – che dall’indifferenza e dall’antipatia iniziali, muove dall’amicizia all’innamoramento e all’amore, degenerando infine nella noia e poi nel disamore. L’andamento narrativo – piano, uniforme, quasi al rallentatore – il lessico impiegato e più in generale le scelte linguistiche ascrivibili a una vera e propria «semiotica delle passioni» (modelli letterari di Bigiaretti furono anche scrittori d’oltralpe esemplari in tal senso, come La Bruyère, de Laclos, Stendhal, Flaubert, Proust, Gide) rivelano a questo scopo una cura estrema dei particolari, tradotta in uno stile lucidissimo e razionale.
Nel ripercorrere i primi due anni di matrimonio, vissuti da entrambi i partner nell’illusione che quell’amore simbiotico fosse l’unica cosa a contare, paghi di esso, il marito di Esterina prende coscienza – e solo nell’atto di scrivere, «con la fedele nitidezza della memoria» – di un motivo cruciale: «non ci accorgemmo che già ci insidiava un sospetto di noia, un’ombra di stanchezza». E se la donna, apprezzata (e amata) per «la sua freschezza, la sua sensibilità immediata e schietta, i suoi volubili umori», lentamente volgeva verso un’ineffabile malinconia, generando, talvolta, «momentanei malumori, silenzi penosissimi e densi», fino all’esternazione di un’immotivata gelosia mista a rancore, egli riconduce la propria scontentezza nei confronti della moglie alla sua incapacità di condividere le cose a lui più care, legate alla sfera degli affetti familiari, al passato e all’amata campagna:
piccole cose senza importanza, apparentemente. Ma fu pensando a loro che mi convinsi meglio, quando ragioni ben più gravi vi concorsero, che le nostre vite si allontanavano. Il distacco s’è formato così, a millimetri, fin dai nostri giorni più belli. Non potevo averne coscienza, neppure Esterina aveva coscienza che, pari alle delusioni che io le davo con le mie rievocazioni, una delusione più forte mi veniva da lei. Come potevamo accorgercene, presi dal miracolo di quell’amore che faceva tacere ogni altro più vile sentimento? Pur così parziale, così priva di ogni accordo dei nostri gusti e della nostra educazione, fu una vera passione quella che mi legò a Esterina. Ora so che fu troppo poco anche quel troppo amore.
Quanti lettori potrebbero ricavare analoghe considerazioni rispetto alla propria esperienza sentimentale? Certamente non tutti dispongono di altrettanta capacità di discernimento e onestà introspettiva.
Il tema della maternità mancata è un altro motivo determinante nell’evolversi della vicenda narrata dall’autore. «Offesa nel suo sentimento di donna», Esterina pareva rivendicarsi sul marito come fosse colpevole «di averle rivelato la sua condanna». Di contro alla progressiva cupezza e alla «irritabilissima suscettibilità» della moglie, viceversa l’atteggiamento del marito nei confronti di lei è connotato, prevalentemente, da un termine tipicamente bigiarettiano, indulgenza (persona indulgente è colei che è «benevola», «condiscendente», o che «per mitezza di carattere o per umana comprensione, è naturalmente disposta a perdonare, scusare e compatire, o che in casi particolari punisce con minore severità di quanto potrebbe o dovrebbe»), che insieme al disamore compare già fra le righe di questo primo romanzo. Sia l’uno che l’altro vocabolo saranno esplicitamente contenuti nella titolazione di due libri futuri: Disamore, del 1956 e Le indulgenze, del 1966.
Storie d’intimità, illusioni e tradimenti, lontani dall’inconsueto e dall’eccezionale, ma raccontate senza inutili reticenze come crisi naturali della coppia e dell’uomo adulto. Per questo, oggi più di ieri, estremamente attuali.
La passione si esalta o si modera
secondo che la si confessi
GOETHE