Angolo Romito-2

2151 Parole
— Oh, Signore! Fate che guarisca!... — pregò con sincerità di desiderio. — E’ tanto giovane! E sua madre lo ama così esclusivamente! — soggiunse pensando all’affezione profonda e cieca di sua zia per quel suo primogenito. In quel breve tempo Bianca era riuscita a capire senza sforzo che sua zia adorava il figliuolo in modo da staccarla, per così dire, da tutto e tutti; da soffocarle dentro ogni sentimento di generosità; perfino la giustizia, perfino la compassione. Non destava forse compassione la povera Maria, così affezionata alla madre ed al fratello e così bruscamente buttata in un canto come una cosa inutile, o meglio, come un impiccio? Ella aveva veduta piangere tacitamente la povera fanciullina, e tentare di avvicinarsi al malato, di stringersi alla mamma! Ma la mamma l’aveva mandata fuori di camera, ingiungendole che non tornasse più, che non seccasse. Guai, se il fratello riavendosi, la trovava lì!... — Era l’idolo di suo padre! — si lasciò scappare detto un giorno con Bianca. — Egli la preferiva a Roberto, perchè gli somigliava goccia a goccia, nel fisico come nel morale. E il mio povero figliuolo caro era geloso di quella predilezione. Per questo, prese a vedere di mal’occhio la sorellina. Che se adesso torna in sè e la trova qui, lei, sana, mentre lui sta così male, poveretta me!.... Ed ella, la cocciutella, la sciocchina, dovrebbe capire e star lontana!... La povera piccina avrebbe ben dovuto finire per comprendere!... In tutto quel giorno non s’era lasciata vedere. — Chissà come avrà dovuto lottare col suo cuoricino affettuoso, per non venire!... — pensò Bianca, commossa da subita pietà per la cuginetta, così poco amata dalla madre e dal fratello. Proprio in quella, un lieve fruscìo le fece volgere gli occhi ai piedi del letto. Maria, appena coperta da un succinto gonnellino, i piedi e le gambe nude, la treccia sciolta, il visino pallido come di cera alla luce che lo illuminava, era là ritta, con le manine giunte e gli occhioni lagrimosi. Guardò il fratello con un lungo sguardo di tenerezza e di sgomento, poi stese le braccia a Bianca e si strinse a lei in angoscioso, prepotente bisogno di protezione, di conforto, di simpatia. Bianca sentì contro il suo petto il battito accelerato di quel povero cuoricino di bimba addolorata e spaurita, sentì il suo sforzo per ricacciarsi in gola il singhiozzo, e lì per lì le si svegliò nell’anima un sentimento di tenerezza profonda, quasi materna, per la piccola reietta. Avrebbe voluto tenersela su le ginocchia, accarezzarla, baciarla, confortarla con la sua tenerezza, con la speranza, ma il pensiero della zia che si poteva destare da un momento all’altro, la rese prudente. Portò piccina fino sulla soglia dell’uscio e: — Vai, cara! — le susurrò — non bisogna disobbedire alla mamma. Pensa che io ti voglio bene come una sorella. Sarò la tua sorella grande, vuoi? Oh! l’espressione di quegli occhioni sgranati e tristi a quelle parole!... Bianca non la dimenticò mai. Dicevano sorpresa, riconoscenza, tenerezza!... — Povera piccina! — mormorò, tornando al letto del malato. E nell’angoscia di quel momento si sentì scaldare il cuore di dolcezza indefinibile. Quella fanciullina, era, come lei, sola al mondo, perchè le mancava l’affetto de’ suoi. Ella l’avrebbe amata, protetta, confortata con la simpatia, avrebbe fatto che gli altri la smettessero di trattarla con freddezza, e più non fossero così crudelmente ingiusti verso lei; e, chissà che non fosse riuscita a farla amare! Sedette a’ piedi del letto cogli occhi al malato; a poca distanza dell’ultima finestra, che dava sulla valle, scura dappertutto dove non arrivava la luce della cartiera. Il cielo era tempestato di stelle; ogni tanto, fra lo scrosciare dell’acqua, si sentiva la civetta stridere il suo canto alla notte, e abbaiare i cani a distanza. L’aria afosa durante il giorno spirava fresca e acre dei profumi resinosi. L’orologio della chiesa scoccò dodici tocchi. Era mezzanotte!... già da due ore la zia dormiva, vinta dalla stanchezza e il malato giaceva tranquillo. — Se riposa, domattina andrà meglio! — aveva detto il medico quel giorno. Ed era uscito borbottando: — C’è sempre un santo per i pazzi! Poichè Roberto doveva davvero il suo male a un pazzo ghiribizzo. Sfrenato nell’abuso della libertà, a cui l’indulgenza materna non metteva limite, spinto dall’ozio, spesso anche dalla noia e più spesso ancora dalla spavalderia, che gli agitava il sangue al disfogo d’ogni maniera di stranezze, egli ne faceva una delle sue ogni giorno, seccando gli operai, imbizzarrendo gli animali, tormentando i fanciulli, esponendo se stesso a rischi e pericoli da far accapponare la pelle. Aveva quindici anni finiti e sapeva così poco, che era una pietà. Finchè era vissuto suo padre, aveva dovuto piegarsi a una volontà più forte della sua e stare in collegio. Ma dacchè il povero uomo era morto, egli non aveva più voluto saperne di studi; e col pretesto di essere necessario a casa come reggitore della famiglia, necessità, che egli faceva valere con serietà buffa, aveva detto addio ai libri, e credeva in buona fede di poter sprecare tempo e giovinezza nello scapricciarsi. Nessuno resisteva alle sue ridicole esigenze di padrone. Già due bravi e dignitosi ingegneri, chiamati a dirigere la cartiera, se n’erano andati disgustati ed indignati della sua condotta. Ora da alcuni mesi ne era venuto un altro; giovine abilissimo; ma tanto dignitoso e serio da smorzare nell’animo del monello ogni desiderio, ogni tentativo di sconvenienza e di ribellione. Ad una sua prima osservazione, egli l’aveva guardato dall’alto in basso, strizzando gli occhi come a meglio misurare la nullità, ed aveva risposto indirettamente, parlando piuttosto a se stesso: — Che insolente presunzione! — poi se n’era andato senza manco rivolgersi, schiacciando l’arditello con la sprezzante indifferenza, e l’arditello, da allora, s’era appigliato al partito di non più importunare il giovine ingegnere. Ora, il dì prima dell’arrivo di Bianca, dopo una grandinata furiosa, che aveva subito raffreddata l’aria e l’acqua del torrente, egli aveva voluto far la bravata di un bagno, non ascoltando i vecchi operai, che lo sconsigliavano e pregavano di non fare quella pazzia. Uscì dall’acqua livido, scrosciando i denti, la febbre gelida nelle ossa. Fu subito obbligato al letto e il male giudicato grave. L’improvviso malore del figliuolo era stato la causa per cui l’annunzio dell’arrivo di Bianca non fosse stato avvertito. Difatti la lettera della fanciulla giaceva tuttavia suggellata sullo scrittoio della vedova. — Mi devi perdonare! — s’era scusata questa con la nipote. — Mi devi perdonare, cara!... la disgrazia mi ha scombuiato la mente!... Ma adesso sei qui e Dio voglia, che tu possa trovarti bene nella casa della sorella della tua povera mamma!... — Io spero che Roberto ti prenderà in simpatia! — soggiunse con un accento che tradiva il timore in lotta con la speranza. E Bianca capì che il suo benessere in quella casa doveva dipendere in gran parte, dall’impressione ch’ella avrebbe fatto sull’animo del cugino. — Dovrei — pensò — guadagnarmi la simpatia a forza di accondiscendenza e magari di adulazione, ma non lo farò. Non aiuterò certo a guastarlo del tutto questo poveretto. E’ mio cugino; sua mamma mi accoglie nella sua casa con cordiale ospitalità e mostra dell’interesse per me. E’ mio dovere di fare del bene, non già di cospirare al male di tutti con una riprovevole pigrizia, quasi viltà morale. Oh! potessi, a poco a poco, far intendere la ragione a questo poverino!... Potessi dirigere, educare le facoltà della sua anima e riuscire a convertire in virtù i suoi stessi difetti!... Farlo razionalmente coraggioso invece di temerario, riflessivo in luogo di spensierato!... Il proposito, la speranza erano così arditi, che Bianca ne sorrise fra sè e sè come d’una pazzia. Si fece presso il malato; dormiva riposato; alla febbre gelida era successa la febbre calda, che bruciava il corpo del poveretto. Ora anche la febbre calda andava scemando; a stargli presso non si sentiva più la vampata scottante che tanto aveva spaurita la zia durante il giorno. — Guarirà! — disse Bianca con un senso di sollievo. E tornò in fondo alla camera presso la finestra aperta; sedette, appoggiò il gomito al davanzale e vagò con lo sguardo nella vallata. Il torrente balzando sul greto sassoso, correva al lago con orgoglio cupo; la vetta frastagliata della montagna di fronte pareva toccare il cielo con un bacio. Giù, alle falde del monte di sopra un rialzo un lumicino vacillante rischiarava i contorni di una cappelletta. Bianca si smarrì nei ricordi del suo breve passato. La sua infanzia felice fra il babbo e la mamma; poi la morte di questa, quand’ella era tuttora bambina; poi gli otto anni di vita di scuola e di dolce intimità col babbo; loro due soli; in un appartamento un po’ fuori del centro della città, col balcone verde di erbe arrampicanti e profumato di fiori. Che tempo felice era quello!... Ma un giorno il babbo fu assalito da un male improvviso, crudele, che in pochi dì lo trasse alla fine. Ed ella era rimasta sola, sola, sola! — Sola, sola, sola! — le ronzava l’aria intorno. — Sola! — le diceva, in lontananza, l’acqua scrosciante. — Sola! Sola! — le susurrava la pendola col suo tit tac. Ma... strano!... Quel sentirsi cantare su tutti i toni la sua solitudine, la sua miseria di orfana, non le toccava il cuore per nulla. Era come non si fosse trattato di lei, tanto che il suo pensiero prese a seguire e a ripetere quella parola cadenzata. Sola, sola, sola! Poco a poco la cantilena si fece lontana, lontana; la sentiva appena come un sospiro; poi, ad un tratto, il suono cessò, e le parve di essere avvolta in una nebbia leggiera, fresca, deliziosa che la isolava da tutto e da tutti, soavemente. Qualcuno tentava di diradarla quella nebbia, di giungere a lei. O perchè?... ella stava tanto bene così nascosta, così tranquilla! — Mamma! Mamma!... — sentì una voce fioca dire distintamente: — Ohe, dico, mamma!... Bianca si scosse e scattò da sedere ricordando. Aveva ceduto al sonno ed alla stanchezza e si era appisolata. — Mamma! — ripetè la voce, con accento imperioso. Roberto a sedere sul letto coi grandi occhi neri sbarrati e la faccia bianca si agitava chiamando con gesti impazienti. Alla vista della giovinetta, che gli corse presso, aggrottò le ciglia guardandola con fissità; poi si lasciò andare abbandonato sul guanciale, borbottando: — Ancora lei! Ancora il sogno! Bianca gli toccò la fronte. Era fresca. Fece un sospiro di sollievo e accarezzandogli le mani affilate prese a parlargli sommessamente, come a un bambino che si vuol tenere tranquillo, che si vuole addormentare. No; egli non sognava, non aveva sognato. Ella gli era vicina da tre giorni e da tre notti; era sua cugina, la sua infermiera; e gli voleva bene. Ora il male era vinto; sarebbe presto guarito; pazientasse un poco; lasciasse riposare la mamma, povera donna! che aveva sofferto tanto per lui, ch’era così sfatta!... Oh! egli doveva essere un giovinetto capace di sacrificarsi per gli altri, doveva essere generoso come tutti i forti!... avrebbe permesso che la sua mamma continuasse a riposare. Non è vero ch’egli permetteva? Non è vero ch’egli era forte e generoso? A quel susurro il malato aveva varie volte guardato la cugina senza rispondere. Finalmente con voce fievolissima, chiudendo gli occhi disse: — Io non sono generoso, ma non chiamerò la mamma; che dorma!... dormo anch’io! E dormì infatti fino ai primi bagliori. Come ad oriente il cielo cominciò a biancheggiare, la giovane infermiera uscì dalla camera e andò fuori per cacciarsi di dosso l’intorpidimento e respirare una boccata d’aria pura, camminando. Attraversò il ponte che univa le due rive del torrente e fu sulla sponda opposta a quella ove sorgeva la cartiera. Il sentiero correva a zig zag di sotto a un folto di piante; la brezza viva le pungeva il viso; le foglie stormivano come lo scrosciare di pioggerella minuta. Ella respirava a larghi polmoni l’aria freschissima, che l’andava rinvigorendo e rasserenando. Un rivoletto scendendo da una china rocciosa mormorava tra l’erba ed il musco. Fece guimella delle palme e si lavò gli occhi per togliersi dalla fronte il peso della nottata, per rallegrarsi un poco. Sotto quelle piante il silenzio era rotto appena da qualche cinguettìo nascosto, dallo starnazzare d’ali di qualche piccione selvatico. Allo svoltare di un gomito del viottolo si trovò dinanzi a una cappelletta dove ardeva tuttora il lumicino. La riconobbe; era la cappelletta che aveva veduta la notte. A pochi passi, quasi chiuso tra le due sporgenze di monte, in un breve recinto verde e fiorito, Bianca vide il Camposanto e fece per entrarvi. Ma ritto dinnanzi al cancello, semi aperto, vide il giovino ingegnere, direttore della cartiera che le fece di cappello, mettendosi l’indice attraverso alla bocca come ad invitarla al silenzio. E come ella se ne stava sorpresa, le additò in un angolo del cimitero la piccola Maria inginocchiata davanti ad una croce.
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