Chapter 4

2251 Parole
Apprensione non tutt’affatto gratuita: egli stava in attivissima corrispondenza con una spia, che l’Austria aveva collocata a tre leghe da Grianta nell’intento di procurar l’evasione dei prigionieri fatti sul campo di battaglia; cosa che avrebbe potuto esser presa in assai mala parte dai generali francesi. Il marchese aveva lasciato a Milano la moglie, che sbrigava gli affari di famiglia ed era incaricata di far fronte alle contribuzioni imposte alla casa Del Dongo; e perché essa cercava d’ottener riduzioni e falcidie, era costretta a veder nobili che avevano accettati uffici pubblici, e anche non nobili i quali avevano, come suol dirsi, voce in capitolo. Ora un grande fatto avvenne nella famiglia. Il marchese aveva combinato il matrimonio della sua giovine sorella Gina con un personaggio assai ricco e d’alti natali: ma questi s’incipriava; e Gina, la quale ogni volta che lo riceveva dava in uno scoppio di risa, fece poco dopo la pazzia di sposare il conte di Pietranera, buon gentiluomo veramente, e anche bello, ma di famiglia che andava in rovina di padre in figlio, e, per colmo di sciagura, ardente partigiano delle nuove idee, Pietranera era sottotenente nella legione italiana, e questo accresceva la disperazione del marchese. Scorsi i due anni di gioia pazzesca, il Direttorio della repubblica, dandosi a Parigi le arie di sovrano molto sicuramente assiso sul proprio trono, si rivelò accanito odiatore di quanto non fosse mediocre. I generali inetti ch’esso mandò all’esercito d’Italia perderono una serie di battaglie su quelle medesime pianure del Veronese che due anni avanti avean visto i prodigi d’Arcole e di Lonato. Gli Austriaci si avvicinarono a Milano, e il tenente Roberto, maggiore di battaglione e ferito a Cassano, venne per l’ultima volta ad alloggiare in casa della sua buona amica, la marchesa Del Dongo. Gli addii furon tristi: Roberto partì col conte Pietranera, che si accompagnava ai Francesi nella ritirata su Novi; e la contessa, alla quale il fratello aveva ricusato di pagar la legittima, seguì le truppe sur una carrettella. Cominciò allora quella reazione, quel ritorno alle vecchie idee, che a Milano chiamarono «i tredici mesi», perché fortunatamente per loro questo ricorso di scemenza non durò che tredici mesi, fino a Marengo. Tutti i vecchi, i bigotti, i brontoloni riapparvero e ripresero a dirigere e guidar le cose pubbliche e il viver civile: né andò molto che i fedeli alle «buone dottrine» fecero spargere nei villaggi la voce che Napoleone era stato impiccato dai Mammalucchi, in Egitto, come meritava per una infinità di ragioni. Fra quelli che erano andati a tener broncio nelle loro campagne e che tornavan sitibondi di vendetta, il marchese Del Dongo si faceva notare pel suo furore: e le sue stesse esagerazioni lo misero a capo del partito. Quei signori, bravi galantuomini quando non avevan paura, ma che tremavano sempre, riuscirono a circuire il generale austriaco; il quale in buona fede si lasciò persuadere che l’accorgimento politico consigliava rigori, e fece arrestar cencinquanta patriotti: tutto quel che c’era di meglio allora in Italia. Li deportarono alle Bocche di Cattaro, e, gittati in sotterranei, l’umidità e soprattutto la mancanza di pane fecero sollecita e buona giustizia di quei bricconi. Il marchese Del Dongo ebbe un altissimo ufficio, e com’egli a tant’altre belle doti aggiungeva un’avarizia sordida, si vantò in pubblico di non mandare uno scudo a sua sorella la contessa Pietranera: la quale, sempre innamoratissima dello sposo, non volle abbandonarlo e stava per morir di fame in Francia con lui. La buona marchesa era alla disperazione: finalmente le riuscì di carpir qualche piccolo diamante dallo scrigno che il marito le ritoglieva ogni sera per chiuderlo in una cassa di ferro che teneva sotto il letto: dal quale signor marito, cui aveva portato in dote ottocento mila franchi, la marchesa riceveva ottanta lire al mese per lo spillatico. Nei tredici mesi, durante i quali i Francesi rimasero fuor di Milano, questa donna timidissima trovò pretesti per non vestir mai che di nero. E qui confesseremo che, seguendo l’esempio di molti gravissimi autori, abbiam cominciato la storia del nostro eroe fin dall’anno avanti la sua nascita. Infatti questo essenzialissimo personaggio non è che Fabrizio Valserra, marchesino Del Dongo, il quale appunto si pose il fastidio di venire al mondo quando i Francesi furon cacciati, e si trovò ad essere il secondogenito di quel marchese Del Dongo, gran signore, del quale voi conoscete già la faccia livida, il sorriso falso e l’odio implacabile per le nuove idee. Tutto il patrimonio della famiglia andava, per l’istituzione di un maiorascato, al primogenito, Ascanio Del Dongo, ritratto preciso di suo padre. Egli aveva otto anni e Fabrizio due, quando improvvisamente quel general Bonaparte che tutte le persone bennate credevano impiccato da un pezzo, scese dal San Bernardo, ed entrò a Milano. E fu anche questo un momento unico nella storia: figuratevi tutto un popolo innamorato matto. Pochi giorni dopo, Napoleone vinse a Marengo. Inutile raccontare il resto: l’entusiasmo dei Milanesi giunse al sommo, ma questa volta misto a confusi propositi di vendetta: a questo buon popolo avevano insegnato a odiare. Di lì a poco si videro tornare i superstiti tra i deportati alle Bocche di Cattaro, e il loro ritorno fu celebrato con una festa nazionale. Quei volti pallidi, i grandi occhi sbigottiti ancora, i corpi smagriti, facevano un singolare contrasto con la gioia prorompente da ogni parte. E il loro arrivo dette il segnale di partenza ai già compromessi. Il marchese Del Dongo fu dei primi a rifugiarsi nel suo castello di Grianta: i capi delle grandi famiglie eran saturi d’odio e di terrore; ma le mogli, le figlie rammentavano le allegrie del primo soggiorno de’ Francesi e rimpiangevano Milano e i balli divertentissimi, che subito dopo Marengo ricominciarono nella casa Tanzi. Pochi giorni dopo la vittoria, il generale cui era affidato il mantenimento dell’ordine nella Lombardia s’accorse che i fittavoli delle tenute nobilesche, tutte le donnicciuole della campagna, ben lungi dal pensar a quella mirabile vittoria di Marengo, che aveva mutati i destini d’Italia e riconquistate tredici piazze forti in un giorno, avevan le menti prese da una profezia di San Giovita, il patrono di Brescia, secondo la quale le fortune francesi e napoleoniche sarebbero finite appunto tredici settimane dopo Marengo. Ciò scusa un po’ il marchese Del Dongo e i nobili scappati a protestare in campagna; perché realmente credevano al vaticinio. Eran gente che non avevan letto in vita loro quattro volumi, e facevan preparativi per tornare a Milano, trascorse appena le tredici settimane; ma, più tempo passava, più prosperavano le fortune francesi. Napoleone con saggi provvedimenti salvava in Francia la rivoluzione, come l’aveva salvata contro l’Europa a Marengo. E i nobili lombardi al sicuro nelle loro ville s’accorsero che di prim’acchito avevan male interpretato le predizioni del santo patrono di Brescia: non di tredici settimane si trattava, ma di tredici mesi. I tredici mesi passarono e le fortune di Francia crebbero di giorno in giorno. Parliamo rapidamente dei dieci anni di progressi e di prosperità che corsero dal 1800 al 1810. Fabrizio passò i primi a Grianta, dando e ricevendo una gran quantità di pugni fra gli sbarazzinelli del villaggio, e non imparando nulla affatto, neppur a leggere. Il marchese padre volle che gl’insegnassero il latino: non già sugli antichi autori i quali non fan che parlar di repubbliche; ma su un magnifico volume ornato di più di cento incisioni, capolavoro d’artisti del secolo decimosettimo: la genealogia dei Valserra, marchesi Del Dongo, pubblicata nel 1650 da Fabrizio Del Dongo, arcivescovo di Parma: e poiché le fortune i Valserra se l’eran fatte sotto le armi, le incisioni rappresentavano il più spesso battaglie, nelle quali sempre qualche eroe della casata era raffigurato che menava giù a tutto spiano. Il libro piaceva molto al piccolo Fabrizio. Sua madre, che l’adorava, otteneva di tanto in tanto il permesso di venire a vederlo a Milano; ma siccome il marchese non le dava mai i denari necessarii per il viaggio, glieli prestava la cognata, contessa Pietranera, divenuta una delle donne più amabili e più ammirate fra quante rallegravano la Corte del principe Eugenio, viceré d’Italia. Quando Fabrizio ebbe fatta la prima comunione, la contessa ottenne dal marchese, tuttavia esule volontario, il permesso di farlo di tanto in tanto uscir di collegio. Lo trovò originale, spiritoso, serio, bel ragazzo, tale insomma da non sfigurar nel salotto d’una signora alla moda: ma ignorante quanto si può dire e capace di scrivere a mala pena. La contessa, ch’era entusiasta per indole e che tutto con entusiasmo faceva, checché facesse, promise la sua protezione al direttore del collegio se Fabrizio con rapidi progressi stupefacenti ottenesse alla fine dell’anno scolastico molti premi. Per dargli modo di meritarseli, lo mandava a pigliar tutti i sabato sera, e spesso non lo rimandava ai suoi professori che il mercoledì o il giovedì. I gesuiti, quantunque svisceratamente cari al principe viceré, erano dalle leggi del Regno espulsi dall’Italia; il superiore del collegio capì subito che vantaggi avrebbe potuto trarre dalle relazioni con una donna onnipotente alla Corte. Non pensò neppure a dolersi delle assenze di Fabrizio che, più ignorante che mai, alla fine dell’anno ebbe cinque premi. A questo patto la brillante contessa Pietranera col marito generale comandante una divisione della guardia, e cinque o sei alti dignitari della Corte del viceré, venne ad assistere alla distribuzione dei premi nelle scuole della Compagnia di Gesú. Il rettore ebbe da’ propri superiori un encomio. La contessa si menava dietro il nipote a tutte le feste per il cui splendore andò famoso il troppo breve governo del principe Eugenio: l’avea di sua autorità promosso ufficiale degli usseri, e Fabrizio a dodici anni vestiva quella divisa. Un giorno, innamorata del suo bel portamento, chiese per il nipote un posto di paggio: il che avrebbe significato che i Del Dongo facevan atto d’adesione al governo; ma il giorno dopo le fu necessario tutto il credito di cui godeva per ottenere che il viceré dimenticasse la domanda alla quale mancava nientemeno che il consenso del padre del candidato: consenso che sarebbe stato indubbiamente e clamorosamente negato. In seguito a quella spensieratezza che lo fece fremere, l’imbronciato marchese trovò un pretesto per richiamare il piccolo Fabrizio a Grianta. La contessa aveva un sommo disprezzo per suo fratello: lo considerava come un triste imbecille che sarebbe anche stato malvagio se lo avesse potuto: ma era innamorata del ragazzo, e dopo dieci anni di silenzio scrisse a suo fratello per ridomandargli il nipote: la lettera non ebbe risposta. Tornato nel formidabile castello, costruito dal più bellicoso de’ suoi antenati, Fabrizio non sapeva altro al mondo che far l’esercizio e cavalcare. Spesso il conte Pietranera, non meno di sua moglie innamorato di lui, lo faceva montar in sella e se lo portava alle riviste. Nel castello di Grianta, dove arrivò con gli occhi rossi ancora dalle lagrime versate nell’abbandonare i bei salotti di sua zia, Fabrizio non trovò che le tenere carezze di sua madre e delle sorelle. Il marchese era chiuso nel suo studio col primogenito, marchesino Ascanio: vi fabbricavan lettere cifrate che avevan l’onore d’esser mandate a Vienna; padre e figlio non comparivano che all’ora dei pasti. Il marchese ripeteva con ostentazione che egli insegnava al suo erede naturale a tenere il conto in partita doppia delle vendite di ciascuna delle sue terre. Ma in verità egli era troppo geloso della propria autorità per parlar di queste faccende col figliuolo, erede necessario di tutto il patrimonio fidecommissario; e l’occupava invece a tradurre in cifra dispacci di quindici o venti pagine che due o tre volte per settimana mandava in Isvizzera donde li spedivano a Vienna. Il marchese presumeva di far così conoscere ai sovrani legittimi le vere condizioni del Regno d’Italia, che neppur lui conosceva, e tuttavia le sue lettere avevano a Vienna grande fortuna. Il marchese, quando reggimenti francesi o italiani cambiavano guarnigione, incaricava qualche agente fidato di porsi sulla strada maestra a contare di quanti soldati si componevano quei reggimenti. Nel dar poi conto del fatto alla Corte di Vienna aveva cura di diminuire di un quarto abbondante il numero di quei soldati. Queste lettere — abbastanza ridicole — avevano il grande merito di smentirne altre più veritiere, e perciò eran gradite. Ancora: poco avanti che Fabrizio giungesse, il marchese aveva ricevuto le insegne di un famoso ordine cavalleresco: il quinto che decorava la sua uniforme di ciambellano. Veramente provava rammarico non osando di mettere in mostra quell’uniforme fuori del suo studio; ma non si sarebbe fatto lecito di dettare un dispaccio senza avere infilato la bella giubba ricamata e ornata da tutte le decorazioni. Gli sarebbe parso mancar di rispetto regolandosi altrimenti. La marchesa rimase colpita della leggiadria e della garbatezza di quel suo figliuolo: ma aveva conservato l’abitudine di scrivere due o tre volte l’anno al generale conte d’A...., nome attuale del tenente Roberto: non sapeva mentire con le persone cui era affezionata: interrogò il ragazzo e fu spaventata da tanta ignoranza. «Se pare poco istruito a me, che non so nulla, — diceva fra sé — Roberto che è così dotto giudicherà la sua educazione completamente fallita: e a’ giorni che corrono qualche merito bisogna farselo.» Un altro particolare che la sbigottì pure fu che Fabrizio prendeva sul serio tutto ciò che in materia di religione gli avevano insegnato i Gesuiti. Quantunque molto pia, il fanatismo di quel ragazzo la faceva fremere. «Se il marchese se ne accorge e considera quanta influenza può esercitare per questa via sull’animo di Fabrizio, arriva a togliermene l’affetto.» Pianse molto e il suo amore per Fabrizio si fece più forte. La vita del castello, popolato di trenta o quaranta domestici, era assai triste: così Fabrizio passava le giornate a caccia o a remare in barca pel lago, né tardò molto ad accontarsi coi cocchieri e i mozzi di stalla: tutti eran fautori dei Francesi e si burlavano allegramente dei camerieri bigotti devoti al marchese e al primogenito. Argomento delle facezie contro questi solenni personaggi era la cipria ch’essi portavano a imitazione dei loro padroni.
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