II
— Alors que Vesper vient embrunir nos yeux
Tout pris d’avenir je contemple les cieux
En qui Dieu nous écrit, par notes non obscures,
Le sort et le destin de toutes créatures.
Car lui, du fond des cieux, regardant un humain
Parfois, mû de pitié, lui montre le chemin;
Par les astres du ciel qui sont ses caractères,
La choses nous prédit et bonnes et contraires.
Mais les hommes, chargés de terre et de trépas,
Méprisent tel écrit et ne le lisent pus.
RONSARD
Il marchese professava un energico odio contro «i lumi». «Son le idee — diceva — quelle che rovinan l’Italia.» Non gli riusciva bensì di conciliar questo sacro orrore della cultura col desiderio di veder Fabrizio compiere l’educazione brillantemente iniziata sotto i gesuiti. A scansar rischi, per quanto era possibile, diede al buon abate Blanes, parroco di Grianta, l’incarico di far continuare a Fabrizio lo studio del latino. Sarebbe stato utile che alla sua volta il curato sapesse un po’ questa lingua: or egli invece l’aveva nel più alto dispregio: tutta la sua sapienza in quest’ordine di discipline si riduceva a recitare a memoria le preghiere di cui poteva a un dipresso spiegare il senso al suo gregge. Non per questo era meno rispettato — e anche un po’ temuto — nel paese: egli aveva detto sempre che non in tredici settimane e neppure in tredici mesi la famosa profezia di San Giovila si sarebbe avverata: e aggiungeva, quando parlava tra amici fidatissimi, che quel tredici doveva essere inteso in modo che sbigottirebbe assai gente, se fosse lecito dir tutto (1813).
Intanto, il fatto è che l’abate Blanes, uomo di una probità e di una virtù primitive, e con tutto ciò uomo d’ingegno, passava le notti sul suo campanile. Aveva la fregola dell’astrologia: e dopo aver trascorso le giornate a calcolar la congiunzione e la posizione delle stelle, consumava la miglior parte delle notti a seguire i propri computi in cielo. Com’era povero, non aveva altri strumenti che un cannocchiale di tubi di cartone. È facile intendere che disprezzo avesse per lo studio delle lingue un uomo che passava la vita a scoprir l’epoca precisa della caduta degl’imperi, e delle rivoluzioni che mutano la faccia del mondo! — «Forse — domandava a Fabrizio — perché mi hanno insegnato che cavallo in latino si dice equus, io so intorno ai cavalli qualche cosa di più?»
I contadini avevano una gran paura dell’abate Blanes, che credevano uno stregone; e del terrore che inspiravano le sue veglie sul campanile egli profittava per trattenerli dal rubare. I suoi colleghi, curati dei dintorni, lo detestavano per gelosia di quella sua autorità; il marchese Del Dongo lo disprezzava perché ragionava troppo per un uomo di sì bassa condizione. Fabrizio l’adorava; per fargli cosa grata passava qualche volta serate intiere a far somme e moltiplicazioni enormi. Poi saliva sul campanile: e questo era privilegio grande, che l’abate Blanes non aveva mai concesso a nessuno; tranne che a quel ragazzo al quale voleva bene per la sua ingenuità. «Se tu non diventi un impostore, — gli diceva — forse sarai un uomo.»
Due o tre volte all’anno, l’intrepido Fabrizio, i cui gusti divenivano passione, rischiava d’affogar nel lago. Era il capo di tutte le spedizioni dei monelli di Grianta e della Cadenabbia. S’eran procurati delle piccole chiavi, e a notte scura cercavano d’aprire i lucchetti delle catene che legano le barche a qualche pilastro o a qualche albero presso la riva. È da sapere che sul lago di Como i pescatori usano mettere delle lenze dormenti assai lontano dalle prode: all’estremità superiore della corda è legata una tavoletta di sughero, e su questa fissato un ramo di nocciolo flessibilissimo, il quale regge un campanello che squilla appena il pesce rimasto all’amo dà degli strattoni alla corda.
Scopo di tali imprese notturne, di cui Fabrizio era comandante in capo, era la visita alle lenze dormenti prima che i pescatori udissero l’avviso dato dai campanelli. Sceglievan le notti di burrasca e s’imbarcavano un’ora avanti l’alba. C’era nell’impresa la sua parte bella: ed era che quei ragazzi nell’entrare in barca si figuravano di esporsi a Dio sa quali pericoli: e però, secondo l’esempio dei loro padri, recitavano devotamente un avemaria. Spesso sul punto di mettersi in moto avveniva che Fabrizio fosse invasato a un tratto dallo spirito di divinazione: unico frutto tratto dagli studi astrologici dell’amico abate alle cui divinazioni ei non credeva. Secondo la sua immaginazione lo spirito divinatore prognosticava il buono o il mal esito dell’impresa: e poiché egli era il più evoluto della giovine schiera, a un po’ per volta tutti i suoi compagni presero a profeteggiare : di guisa che se al momento di imbarcarsi vedevano sulla spiaggia un prete, o un corvo levarsi alla loro sinistra, rimettevano il lucchetto alla catena e tornavano a letto. L’abate Blanes non aveva fatto partecipe della sua ardua scienza Fabrizio, ma, senza accorgersene, gli aveva instillato una fiducia senza limiti nei segni che permettono di antivedere il futuro.
Il marchese era persuaso che un accidente qualsiasi capitato alla sua corrispondenza cifrata avrebbe potuto metterlo alla mercé di sua sorella; e tutti gli anni, per Sant’Angela, festa della contessa Pietranera, Fabrizio aveva il permesso di andar a passare otto giorni a Milano. Tutto l’anno viveva nella speranza o nel rimpianto di quegli otto giorni. Per la solenne occasione il marchese elargiva quattro scudi al figliuolo, e secondo l’uso non dava nulla alla moglie che l’accompagnava. Ma un cuoco, sei lacchè e un cocchiere con due cavalli partivano per Como la vigilia di questi viaggi, e a Milano la marchesa aveva ogni giorno una vettura a’ suoi ordini e pronto un pranzo per dodici.
La musoneria del marchese Del Dongo faceva la sua vita poco piacevole: ma in compenso arricchiva le famiglie che avevano il fresco cuore di parteciparvi. Il marchese aveva più di duecento mila lire di rendita e non arrivava a spenderne la quarta parte: viveva di speranze. Durante gli anni che corsero dal 1800 al 1813 credé sempre fermamente che prima di sei mesi Napoleone sarebbe caduto. Si capisce con che gioia ricevé sui primi del 1813 notizia del disastro della Beresina! Quando seppe la prigionia di Napoleone stette lì lì per perder la testa; e si lasciò andare a frasi ingiuriose contro sua moglie e sua sorella. Finalmente! dopo quattordici lunghi anni d’attesa, aveva la gioia ineffabile di riveder le truppe austriache a Milano! Per ordini venuti da Vienna, il generale austriaco accolse il marchese Del Dongo con tale riguardo da parer deferenza, e si affrettò ad offrirgli uno dei più alti uffici del governo; egli lo accettò come il pagamento di un debito. Il suo primogenito fu fatto tenente d’uno dei più bel reggimenti della monarchia; ma il secondo non volle accettare il posto di cadetto che gli proposero. Ahimè, il trionfo, di cui il marchese godeva con tanta superbiosità, fu breve, e seguito di lì a poco da caduta umiliante. Non aveva mai avuto attitudine agli «affari»; e quattordici anni passati in campagna tra i camerieri, il notaio, il medico, e la vecchiaia che s’avanzava a grandi passi l’avevan fatto addirittura inetto a qualunque ufficio. Or, negli Stati austriaci non è possibile durare in un ufficio importante, senza aver le speciali qualità che esige l’amministrazione lenta e complicata ma assai razionale della vecchia monarchia. Le sviste del marchese scandalizzavano gl’impiegati e qualche volta intralciavano anche il disbrigo delle faccende; i suoi sproloqui ultramonarchici irritavano le popolazioni che si volevano invece addormentate e pigre. Così avvenne che un bel giorno seppe che Sua Maestà si era benignamente degnata di accettare le dimissioni date da lui, e al tempo stesso gli aveva conferito il grado di «Secondo Gran Maggiordomo Maggiore» del Regno lombardo-veneto. Il marchese fu indignatissimo della iniquità onde era vittima; pubblicò una lettera a un amico — lui che odiava ferocemente la libertà di stampa — e scrisse all’imperatore che i suoi ministri lo tradivano, da quei veri giacobini che erano. Fatto ciò, tornò malinconicamente al suo castello di Grianta. Ebbe tuttavia una consolazione: dopo la caduta di Napoleone, alcuni autorevoli personaggi fecero massacrare per le vie di Milano il conte Prina, già ministro del Regno e uomo di grande valore. Il conte Pietranera rischiò la sua vita per salvar quella del ministro che fu finito d’ammazzare a ombrellate, dopo un supplizio di cinque ore. Un prete, confessore del marchese Del Dongo, avrebbe potuto salvare il Prina, aprendogli il cancello della chiesa di San Giovanni, davanti al quale trascinavano lo sciagurato ministro, che per qualche minuto fu lasciato nel fango in mezzo alla strada: egli non solo rifiutò d’aprire, ma schernì il moribondo; e sei mesi dopo, il marchese si procurò il piacere di fargli avere una bella promozione.
Il Del Dongo esecrava il conte Pietranera, suo cognato, che avendo appena duemila lire di rendita osava essere e mostrarsi contento, mantenersi fedele a tutto ciò che fu l’affetto della sua vita, e spinger l’insolenza fino a predicar quello spirito di giustizia senza riguardo alle persone, che il marchese soleva chiamare giacobinismo infame. Il conte aveva rifiutato di prender servizio sotto l’Austria. Per questo rifiuto, qualche mese dopo la morte del Prina, quegli stessi personaggi che ne avevano pagato gli assassini, ottennero che il generale Pietranera fosse cacciato in prigione. La contessa, sua moglie, prese il passaporto e ordinò cavalli di posta per andare a Vienna a dir la verità all’imperatore; gli assassini del Prina ebbero paura e uno di loro, cugino della Pietranera, accorse a mezzanotte, un’ora prima della partenza per Vienna, a portarle l’ordinanza che rimetteva in libertà il marito. Il giorno dipoi, il generale austriaco fece chiamare il conte, lo ricevé con tutto rispetto e l’assicurò che il suo assegno di collocamento a riposo sarebbe stato liquidato subito nelle migliori condizioni. Il prode generale Bubna, uomo di mente e di cuore, pareva vergognarsi dell’assassinio del Prina e della prigionia del Pietranera.
Dopo questa burrasca, scongiurata dall’energia della contessa, i due sposi vissero alla meglio o alla peggio con la pensione che, grazie alle sollecitazioni del generale Bubna, non si fece lungamente aspettare.
Fortunatamente, da cinque o sei anni la contessa era legata da cordiale amicizia con un giovine assai ricco, intimo anche del conte, che metteva a loro disposizione il più bell’equipaggio che fosse allora a Milano, il suo palco alla Scala e la sua villa in campagna. Ma il conte aveva coscienza del proprio valore, l’animo suo generoso s’accendeva facilmente, e allora si lasciava andare a strani discorsi. Un giorno nel quale era a caccia con altri giovani, uno di questi, che aveva militato sotto altre bandiere, cominciò a scherzar sul coraggio dei soldati della Cisalpina; il conte lo schiaffeggiò: si batterono subito, e il conte, che fra quei giovinetti era solo del proprio partito, fu ucciso. Si parlò assai di questa sorta di duello, e le persone che vi avevan preso parte comunque risolsero d’andarsene a viaggiare in Isvizzera.
Quella specie di coraggio ridicolo che si chiama rassegnazione, il coraggio d’uno stupido che si lascia acchiappar senza dir parola, non era fra le virtù della contessa. Furente per la morte di suo marito, avrebbe voluto che anche al suo giovine amico, il Limercati, pigliasse l’estro d’andar in Isvizzera e di appioppare uno schiaffo o tirare una fucilata all’uccisore del conte Pietranera.
Limercati giudicò ridicolo il disegno: e la contessa s’accorse subito che nell’animo suo il disprezzo aveva ucciso l’amore. Dimostrò al Limercati maggior tenerezza affine di risvegliare in lui l’antico affetto, e piantarlo dopo averlo ridotto alla disperazione. Perché questo disegno di vendetta sia intelligibile a’ Francesi, bisogna ch’io dica che a Milano, paese assai diverso dal nostro, c’è ancora della gente che per amor si dispera. La contessa, che ne’ suoi abiti da lutto eclissava tutte le rivali, civettò coi giovani che andavan per la maggiore, e uno d’essi, il conte Nani, il quale aveva sempre detto che il Limercati gli pareva troppo pesante e con troppo sussiego per una donna di tanto spirito, s’innamorò di lei alla follia. La contessa scrisse al Limercati:
«Volete per una volta tanto comportarvi da «uomo di spirito? Fate conto di non avermi conosciuta mai.
«Sono, con un tantino di disprezzo forse, vostra umilissima serva
GINA PIETRANERA».
Lette queste righe, Limercati partì per una delle sue ville: il suo amore si esasperò, divenne pazzo, e giunse perfino a parlar di bruciarsi le cervella, cosa inconsueta in un paese nel quale si ha paura dell’inferno. Il giorno dopo il suo arrivo in campagna scrisse alla contessa per offrirle la sua mano e le sue duecentomila lire di rendita. Ella gli respinse la lettera non aperta e gliela fece restituire dal cavallerizzo del conte Nani. Limercati passò tre anni in campagna, scendendo ogni due mesi a Milano, ma senza aver mai il coraggio di rimanervi e seccando tutti gli amici col suo amore folle per la contessa, e coi racconti particolareggiati delle bontà ch’ella aveva avuto per lui. Sulle prime aggiungeva anche che col conte Nani essa si perdeva, e che quella relazione la disonorava.