Il vero è che la contessa non aveva nessuna specie d’affezione per il conte Nani, e glielo disse quando fu ben certa della disperazione del Limercati. Il conte, uomo di mondo, la pregò di non divulgare questa triste verità che ella gli aveva rivelato confidenzialmente: — Se lei avrà la bontà di ricevermi ancora con tutte le preferenze appariscenti che si accordano a un amante, non è difficile, forse, ch’io trovi da collocarmi discretamente.
Dopo questa dichiarazione eroica la contessa non volle più sapere né dei cavalli né del palco del conte Nani. Da quindici anni era assuefatta a una vita elegantissima; e si trovò a dover risolvere il problema difficile, anzi addirittura insolubile, di vivere a Milano con una pensione di millecinquecento lire. Lasciò il suo palazzo, prese in affitto due camerette a un quinto piano, rimandò la servitù, la cameriera compresa, surrogata dal «mezzo servizio» di una vecchia che le faceva da mangiare. Questo sacrifizio era in verità meno eroico e meno penoso di quanto può parere: a Milano la povertà non è ridicola e non si presenta alle anime atterrite come il peggiore dei mali. Dopo qualche mese di questa nobile indigenza, assediata dalle lettere di Limercati e del conte Nani, che a sua volta si offriva in qualità di fidanzato, accadde che al marchese Del Dongo, per solito d’una avarizia sordida, venne fatto di pensare che i suoi nemici potevan gongolare della miseria di sua sorella. Come? una Del Dongo ridotta a viver dell’assegno che la Corte di Vienna accorda alle vedove de’ suoi generali!
Le scrisse che un quartiere e un trattamento quali convenivano a una Del Dongo l’aspettavano a Grianta. E l’anima miserevole della contessa accolse con entusiasmo l’idea di questo nuovo genere di vita: da vent’anni non era tornata a quel venerabile castello che sorgeva fra castagneti piantati al tempo degli Sforza. «Là — pensava — troverò il riposo: e all’età mia il riposo non equivale alla felicità? (Aveva trentun anno, e si credeva giunta all’età del riposo.) Su quel lago sublime, dove son nata, avrò finalmente giorni quieti e contenti.»
Forse s’ingannava; ma certo è che quell’anima appassionata che così speditamente aveva ricusata l’offerta di due grandi patrimoni, portò nel castello di Grianta la gioia. Le sue nipoti ne furon lietissime. «Tu mi rendi i bel giorni della gioventù; — le disse il marchese baciandola — il giorno prima che tu arrivassi mi pareva d’aver cent’anni.» La contessa tornò con Fabrizio a rivedere i deliziosi dintorni di Grianta, celebrati da tutti i viaggiatori: la villa Melzi dall’altra parte del lago, di fronte al castello, cui fa da prospettiva, più su, il bosco sacro di Sfondrata e l’arduo promontorio che separa i due bracci del lago, quello di Como così voluttuoso, quello che va verso Lecco sì pieno di austerità: aspetti sublimi e graziosi che il luogo per beltà più famoso nel mondo, la baia di Napoli, eguaglia ma non supera. Con vero rapimento la contessa sentiva ravvivarsi i ricordi della sua prima giovinezza e li paragonava alle sue sensazioni presenti. «Il lago di Como — diceva — non è come il lago di Ginevra circondato di grandi campi ben delimitati e coltivati coi migliori sistemi, che fanno pensare ai denari e alla speculazione. Qui da qualunque parte io mi volga veggo colli di ineguali altitudini vestiti di alberi piantati alla ventura che la mano dell’uomo non ancora ha guasti e costretti a fruttar bene. Tra questi poggi dalle linee ammirevoli che precipitano verso il lago per tanto singolari scoscendimenti, mi è consentito serbar le illusioni destate dalle descrizioni dell’Ariosto e del Tasso. Tutto qui nobilmente, squisitamente parla d’amore, nulla v’ha che rammenti le brutture della civiltà. A mezza costa, celate da grandi alberi, si rannicchiano le borgate e oltre le vette degli alberi spunta, si erge la vaghezza architettonica dei loro campanili. Se qualche campicello si intromette qua e là nei gruppi di castagni e di ciliegi salvatici, le piante paion crescervi felicemente più vigorose che altrove e lo sguardo vi si riposa contento. E di là dai colli, le cui sommità offrono eremi che si abiterebbero tutti volentieri, l’occhio attonito scorge il perpetuo niveo candor delle cime delle Alpi che nella lor solenne austerità gli rammentano quel tanto delle avversità della vita, quanto basti a maggiormente pregiare il presente benessere. Il suono della campana di un lontano villaggio sperduto fra le selve stimola la fantasia: le note scorron sulle acque attenuandosi in un tono di malinconia rassegnata e sembrano dire all’uomo: la vita fugge, non opporre resistenza alla felicità che ti viene incontro... affrettati a goderne.»
In quella plaga incantevole (né v’è nel mondo un’altra che la pareggi in bellezza), il cuore della contessa ritrovò il palpito de’ suoi sedici anni. Non sapeva capacitarsi di essere stata tanto tempo senza rivedere il lago. «Ma che proprio — domandava a se stessa — la felicità si sia andata a rifugiare nel vestibolo della vecchiaia?» Comprò una barca che Fabrizio, la marchesa e lei decorarono con le loro mani, poiché tra gli splendori di una casa magnificamente arredata non c’era mai denaro per la più piccola spesa. Dalla sua «caduta in disgrazia», il marchese s’era fatto più fastoso che mai. Per esempio, col solo scopo di guadagnar pochi metri di terreno sul lago, alla Cadenabbia, presso il famoso viale dei platani, faceva alzare una diga con una spesa preveduta nella perizia di ottantamila lire. All’estremità della diga sorgeva, su disegni del marchese Gagnola, una cappella tutta in blocchi enormi di granito, e nella cappella il Marchesi, lo scultore di moda a Milano, gli costruiva una tomba sulla quale in alquanti bassorilievi avrebbe raffigurate le gesta degli antenati.
Il fratello maggiore di Fabrizio, il marchesino Ascanio, volle esser della comitiva in queste passeggiate con le signore; ma la zia gli buttava dell’acqua sui suoi capelli incipriati, e ogni giorno inventava qualche nuovo tiro per canzonare la sua gravità. Alla fine egli liberò dall’aspetto della sua grossa figura scialba la lieta compagnia che non osava ridere in sua presenza. Credevano che fosse mandato dal padre a spiarli, e con quel despota severo, sempre furibondo dopo le dimissioni obbligate, c’era poco da scherzare.
Ascanio giurò di vendicarsi di Fabrizio.
Un giorno scoppiò una tempesta, e corsero pericolo; sebbene avessero pochissimi denari trovaron modo di pagar lautamente i barcaioli affinché non dicessero nulla al marchese già inquieto perché avevan condotto seco le due figliole. Un altro giorno ne scoppiò un’altra all’improvviso come spesso avviene su quel bel lago: raffiche di vento irrompono a un tratto dalle gole dei monti in direzioni contrarie e lottano sulle acque. La contessa volle sbarcare: fra i tuoni e l’uragano s’era messa in testa che sur una roccia in mezzo al lago, grande quanto una stanzetta, avrebbe goduto d’uno spettacolo straordinario, assalita da ogni parte dalla furia delle onde; ma nel saltar dalla barca cadde nell’acqua. Fabrizio si gettò giù subito per salvarla e tutti e due furon travolti dai gorghi assai lontano. Certo, affogare non è piacevole: ma la noia, così, era bandita dal castello feudale. La contessa s’era appassionata per l’ingenuità e gli studi astrologici dell’abate Blanes; i pochi denari che le restavano dopo comprata la barca, furono impiegati nell’acquisto di un piccolo telescopio d’occasione, e tutte le sere con le nipoti e Fabrizio si piantava sulla piattaforma d’una delle torri gotiche del castello. Fabrizio era il dotto della compagnia, e lassù passavano allegramente le ore, lontani dai delatori.
Ma bisogna aggiungere che c’eran giornate nelle quali la contessa non rivolgeva la parola a nessuno: la vedevan passeggiare sola sotto gli alti castagni come immersa in cupe fantasticaggini; era troppo intelligente per non sentire la noia che si prova a non potere scambiar due parole. Il giorno dopo, la ilarità tornava su quello spirito così naturalmente operoso e le lamentazioni della cognata marchesa producevano impressioni tristissime.
— Passeremo dunque in questo triste castello quel che resta ancora della nostra gioventù? — gridava la marchesa.
Ma quando al triste castello la contessa non era ancor giunta, non aveva neppure il coraggio di questi rimpianti.
Così vissero tutto l’inverno dal 1814 al ‘15. Due volte, a malgrado della sua povertà, la contessa andò a passare qualche giorno a Milano: c’era da vedere alla Scala un sublime ballo del Viganò, e il marchese non vietò alla moglie di accompagnar la cognata. Andavano a riscuotere il trimestre della pensione e la povera vedova del generale cisalpino prestava qualche marengo alla ricchissima marchesa Del Dongo. Piacevolissime gite: invitavano a pranzo dei vecchi amici e si consolavano ridendo di tutto come ragazzi. Questa gaiezza italiana piena di brio e di impreveduto faceva dimenticar la tristezza cupa che gli sguardi del marchese e di Ascanio diffondevano a Grianta. Fabrizio, a sedici anni appena, rappresentava molto bene la parte del capo di casa.
Il 7 marzo 1815 le signore erano tornate da due giorni da una di queste gioconde scappate a Milano e passeggiavano nel bel viale dei platani recentemente prolungato fino alla riva del lago, quando apparve una barca che veniva dalla parte di Como e dalla quale si fecero strani segnali: un agente del marchese saltò sulla diga: Napoleone era sbarcato al golfo di Juan. L’Europa, nella sua dabbenaggine, quell’avvenimento non se l’aspettava: non ne fu affatto sorpreso il marchese Del Dongo: scrisse al suo sovrano una affettuosissima lettera, gli offrì la propria capacità e parecchi milioni, e gli ripeté che i suoi ministri eran dei giacobini d’accordo coi mestatori di Parigi.
L’otto marzo, alle sei della mattina, il marchese, in alta uniforme, si faceva dettare dal suo primogenito la minuta d’un terzo dispaccio politico: e stava gravemente intento a copiarlo in tutta diligenza nella sua bella calligrafia su carta filigranata col ritratto dell’imperatore. Nel momento medesimo, Fabrizio si faceva annunziare alla contessa Pietranera.
— Io parto, — le disse — vo a raggiungere l’imperatore che è anche re d’Italia: voleva tanto bene a tuo marito! Passo per la Svizzera. Stanotte a Menaggio, il Vasi mercante di barometri, che è mio amico, m’ha dato il suo passaporto: ora tu dammi qualche marengo che io ne ho due soltanto; ma se bisogna, andrò a piedi.
La contessa pianse di gioia e d’angoscia. — Mio Dio, come mai t’è venuta questa idea? — domandava prendendo nelle sue le mani di Fabrizio.
Si alzò, corse a pigliar nell’armadio della biancheria, dove la teneva accuratamente riposta, una borsetta ornata di perle: era tutto ciò che possedeva.
— Prendi; — disse a Fabrizio — ma per amor di Dio, non ti fare ammazzare! Che resterebbe alla tua povera madre ed a me se tu ci mancassi? Quanto al successo di Napoleone, è impossibile, caro mio: i nostri padroni sapran certo farlo morire. Non hai sentito otto giorni fa a Milano la storia dei ventitré progetti d’assassinio, tutti combinati così bene, e ai quali è scampato per miracolo? E allora era onnipotente! E tu hai visto che ai nostri nemici non manca la voglia di perderlo! La Francia non era più nulla da che lui non c’era più.
Delle future sorti di Napoleone la contessa parlava a Fabrizio con l’accento di chi è vivamente commosso. — Permettendoti d’andarlo a raggiungere, io gli sacrifico — disse — quel che ho di più caro al mondo. — Gli occhi di Fabrizio s’inumidirono; baciando la contessa versò qualche lagrima anche lui, ma la sua risoluzione non fu scossa un momento. All’amica che gli era così cara egli espose tutte le ragioni che lo avevano condotto a quel proponimento e che noi ci prenderemo la libertà di giudicare comiche alquanto.
— Ieri sera, eran le sei meno sette minuti, passeggiavamo, come tu sai, sulla riva del lago, nel viale de’ platani sotto la casa Sommariva, e andavamo verso il sud. Lì ho per la prima volta scòrto da lontano il battello che veniva da Como ad apportarci la grande notizia. Mentre guardavo il battello, senza pensare a Napoleone e solo invidiando la fortuna di chi può viaggiare, mi sentìi a un tratto turbato da una commozione profonda. La barca si accostò, l’agente parlò a mio padre, che impallidì e ci chiamò in disparte per darci la «notizia terribile». Io mi volsi verso il lago non per altro che per nasconder le mie lagrime di contentezza. E vidi altissima, a destra, volare un’aquila, l’uccello di Napoleone: volava maestosa verso la Svizzera, e però verso Parigi. Anch’io, mi dissi subito, traverserò la Svizzera con la velocità d’un’aquila e andrò a offrire al grand’uomo, che volle darci una patria e che amò mio zio, il mio povero braccio: in verità poca cosa, ma insomma tutto quel che posso offrirgli. Guardavo ancora l’aquila quando a un tratto gli occhi mi si asciugarono come per incanto: e la prova che l’ispirazione venne dall’alto è che subito, senza esitare, mi risolvei e vidi il modo di mandare ad effetto questa risoluzione. In un baleno, tutte le malinconie che, tu lo sai, mi amareggian la vita, specialmente le domeniche, si dissiparono come per un soffio divino. E ho visto questa grande immagine dell’Italia rialzarsi dal fango in cui i Tedeschi la tengon sommersa{1} stendeva le braccia illividite e cariche per metà di catene verso il suo re e il suo liberatore. E anch’io, mi son detto, figlio tuttavia ignoto di questa madre infelice, partirò, andrò a vincere o a morire con quest’uomo segnato dal destino, che vuol purificarci dal disprezzo che per noi hanno e ci dimostrano financo i più schiavi e i più vili tra gli Europei. Te lo ricordi — aggiunse a bassa voce, avvicinandosi alla contessa e fissandola con occhi che sprizzavan fiamme — te lo ricordi quel castagno che mia madre, l’anno della mia nascita, piantò con le sue mani vicino alla fontana grande nel bosco distante un due leghe da qui? Prima di far qualunque altra cosa ho voluto rivederlo: la primavera è poco avanzata, pensai: se il mio albero ha già messe le foglie, vorrà dire che anch’io debbo uscir dall’accidia sonnolenta che mi infiacchisce in questo triste castello. Non pare anche a te che queste vecchie mura annerite, ora simboli e in passato stromento di despotismo, sono proprio un’immagine dell’inverno? Per me sono quel che l’inverno è per l’albero.