«Vuoi crederlo, Gina? Arrivai al castagno ieri sera alle sette e mezzo: ha già messo le foglie, delle belle foglioline già grandicelle! Le baciai senza far loro male: zappai con rispetto la terra intorno al caro albero; e subito dopo, pieno d’una commozione nuova, traversai la montagna; e scesi a Menaggio. Per passare in Isvizzera mi ci voleva il passaporto. Il tempo era trascorso senza che me n’avvedessi, e quando stamattina mi son trovato innanzi alla porta di Vasi era il tocco. Credei che per svegliarlo avrei dovuto picchiare un bel pezzo: ma per fortuna era ancora levato e se ne stava con tre amici. Alle mie prime parole: «Tu vai a raggiunger Napoleone!» sclamò e mi saltò al collo. Anche gli altri mi abbracciarono entusiasmati. «Ah! perché ho moglie?» disse uno di loro.
La contessa Pietranera s’era fatta pensosa, e le parve di dover muovere qualche obiezione. Se Fabrizio avesse avuto un po’ d’esperienza si sarebbe accorto che non valutava molto ella stessa le ragioni le quali pur si sforzava di contrapporgli. Ma, in compenso dell’esperienza che gli mancava, Fabrizio aveva fermezza; e le obiezioni non stette neppure a sentirle e la contessa si ridusse a ottenere da lui che di quel disegno parlasse almeno alla madre.
— Ma lei lo dirà alle mie sorelle, e queste donne mi tradiranno senza volere! — disse Fabrizio con un certo orgoglio eroico.
— Parla con più rispetto delle donne, — disse la contessa sorridendo fra le lagrime — son esse che faranno la tua fortuna; agli uomini, anime prosaiche, i tuoi ardori eccessivi spiaceranno sempre.
La marchesa, all’udire lo strano proponimento del figliuolo, dette in un pianto dirotto: ella non ne intendeva l’eroismo e fece quanto le era possibile per trattenerlo. Quando fu persuasa che nulla al mondo, fuorché le mura d’una prigione, avrebbe potuto impedirgli di partire, gli consegnò il po’ di denaro che possedeva; poi si ricordò che aveva otto o dieci diamanti del valore press’a poco di diecimila lire, che il marchese le aveva dati il giorno innanzi per farli montare a Milano. Le sorelle di Fabrizio entrarono mentre la contessa cuciva i diamanti nel vestito da viaggio del nostro eroe: il quale restituì alle povere donne i loro napoleoni.
Le ragazze furon così entusiasmate e lo abbracciavano con una gioia così rumorosa ch’egli agguantò i diamanti che restavano ancora da nascondere, e volle andarsene subito.
— Voi mi potete tradire non volendo — disse alle sorelle. — Poiché ho tanti denari, è inutile che mi pigli roba che si trova dappertutto. Baciò quelle persone che gli eran così care e partì subito senza neppur rientrare in camera sua. Camminò in fretta sempre temendo d’esser raggiunto da gente che lo seguisse a cavallo; e tanto, che la sera stessa entrava a Lugano. Grazie a Dio, ormai era in una città svizzera e non temeva più che gendarmi pagati da suo padre gli facessero violenza sulla pubblica via. Da Lugano gli scrisse una bella lettera: debolezza di ragazzo, che non servì se non a irritar di più le collere del marchese.
Comprò un cavallo, passò il San Gottardo, e dopo un viaggio rapido, entrò in Francia da Pontarlier. L’imperatore era a Parigi; quivi cominciarono i guai di Fabrizio: era partito col fermo proposito di parlare all’imperatore: che potesse esser difficile non gli era passato mai per la mente. A Milano vedeva il principe Eugenio dieci volte al giorno e avrebbe sempre potuto rivolgergli la parola: a Parigi ogni mattina andava nel gran cortile delle Tuileries ad assistere alle riviste passate da Napoleone, ma non gli fu mai possibile d’avvicinarglisi. Il nostro eroe credeva che tutti i Francesi fossero come lui profondamente commossi dal supremo pericolo della patria. Pranzando alla tavola rotonda dell’albergo dove avea preso alloggio, non nascose i suoi disegni e il suo spirito di devozione: e vi trovò dei giovinetti di una squisita amabilità, anche più entusiasti di lui, i quali non si astennero dal portargli via in pochi giorni tutti i denari. Fortunatamente, per modestia, non aveva mai accennato ai diamanti della madre. La mattina nella quale, destandosi, s’avvide che durante la baldoria della sera innanzi gli avevano addirittura rubato fino all’ultimo soldo, comprò due bei cavalli, prese per servitore un antico soldato palafreniere del sensale e dispregiatore dei giovani parigini, patriotti a chiacchiere, e partì per il campo. Nulla sapeva dell’esercito, se non che l’adunata era verso Maubeuge. Giunto alla frontiera, gli parve ridicolo mettersi in una casa a scaldarsi a un buon camino, mentre i soldati bivaccavano; e, a malgrado di quanto poté dirgli il domestico, il quale non difettava di buon senso, corse imprudentemente a cacciarsi nei bivacchi dell’estremo fronte, sulla via del Belgio. Appena s’imbatté in un primo battaglione appostato lungo la strada, i soldati si misero a guardare il giovine borghese i cui abiti non avevano nulla che potesse somigliare a un’uniforme. Cadeva la notte, e soffiava un vento gelato. Fabrizio s’accostò al fuoco, chiese ospitalità offrendo di pagare, e i soldati, stupefatti nel sentir parlare di pagamento, gli fecero un po’ di posto accanto al fuoco: il servitore cercò di fargli alla meglio un riparo. Ma passò di lì l’aiutante del reggimento e i soldati andarono a raccontargli come qualmente era arrivato un forestiero che parlava male il francese. L’aiutante interrogò Fabrizio; questi parlò del suo entusiasmo per Napoleone in modo da destar sospetti, cosicché fu dall’ufficiale pregato di andar con lui dal colonnello alloggiato in una masseria vicina. Il servitore di Fabrizio s’avvicinò coi due cavalli, della cui presenza l’aiutante parve vivamente impressionato: sì che, mutato pensiero, prese a interrogare anche il servitore: ma questi, vecchio soldato, indovinando subito il piano di campagna del suo interlocutore, parlò delle alte protezioni delle quali godeva il suo padrone per concludere che certamente a lui i cavalli non glieli sgraffignavano. Immediatamente un soldato, a quell’ordine dell’aiutante, l’arrestò, un altro prese in custodia i cavalli, e l’aiutante con brusco cipiglio ordinò a Fabrizio di seguirlo senza osservazioni.
Dopo averlo fatto camminare più d’una lega, a piedi, nell’oscurità resa apparentemente più profonda dai fuochi di bivacco che da ogni parte illuminavano l’orizzonte, lo consegnò a un ufficiale di gendarmeria, il quale con aria grave gli chiese le sue carte. Fabrizio mostrò il suo passaporto che lo qualificava «negoziante di barometri viaggiante con la propria mercanzia».
— Che bestie! — gridò l’ufficiale — ma questo è troppo.
E cominciò a far domande al nostro eroe, il quale riprese a parlare dell’imperatore e della libertà con tutto il calore dell’entusiasmo. L’ufficiale diede in una risata:
— Sacramento! non sei molto furbo tu, — gridò — e ci vuol faccia tosta per mandarci un’oca come te! — E checché potesse dire Fabrizio, il quale si sfiatava a spiegare come di fatti non fosse un negoziante di barometri, l’ufficiale lo mandò in carcere a B..., piccola città dei dintorni, dove il nostro eroe giunse verso le tre di notte furibondo e sfinito.
Sbigottito da principio, poi inferocito, senza poter capir niente di quel che gli succedeva, Fabrizio passò trentatré lunghi giorni in questa miserabile prigione: scriveva lettere sopra lettere al comandante della piazza, e la moglie del carceriere s’incaricava di farle recapitare. Ma poiché lei, una bella fiamminga di trentasei anni, non aveva nessuna voglia di far fucilare un così bel ragazzo, che per di più pagava profumatamente, si faceva un dovere di buttar sul fuoco queste lettere; e la sera, sul tardi, degnava di andare ad ascoltare le doglianze del prigioniero: aveva detto al marito che il paperottolo stava bene a quattrini, e, saputo questo, il prudente carceriere le aveva dato carta bianca. Ne profittò, e poté beccar qualche napoleone, perché l’aiutante non aveva preso che i cavalli e la gendarmeria non s’era permessa confische. Un pomeriggio del giugno, Fabrizio udì un forte cannoneggiamento lontano. Si battevano finalmente! il suo cuore balzò d’impazienza. Sentì anche farsi gran rumore nella città: infatti, tre divisioni traversavano B....... Quando, verso le undici di sera, la moglie del carceriere venne al solito a tenergli compagnia, Fabrizio fu anche più amabile del consueto; e, prendendole le mani:
— Fatemi uscir di qui: vi giuro sull’onor mio di tornare appena avran cessato di battersi.
— Frottole! Hai dei quibus? — Egli parve turbato: non capiva con quel quibus che cosa volesse significare. La carceriera credé che le acque fossero basse, e invece di parlar di napoleoni d’oro come dapprima s’era proposto, non parlò più che di franchi.
— Senti, — disse — se tu mi puoi dare un centinaio di franchi, io con due doppi napoleoni tapperò tutti due gli occhi del caporale che stanotte verrà a dare il cambio alla guardia: così non ti vedrà uscire, e se il reggimento ha da filare in giornata, son certo che abboccherà.
Il contratto fu subito conchiuso: la carceriera consentì anche a nasconder Fabrizio nella sua stanza, donde gli sarebbe stato più facile svignarsela il domani mattina.
E la mattina, prima dell’alba, la donna commossa gli disse:
— Caro piccirillo, tu sei troppo giovine ancora per questo mestieraccio: da’ retta a me, non ci capitar più.
— Ma come? — rispose Fabrizio — dunque è una colpa voler difender la patria?
— Basta: non ti scordare ch’io t’ho salvato la vita; il caso tuo è chiaro: ti avrebbero fucilato. Ma non lo dire a nessuno: faresti perdere il posto a mio marito ed a me. Soprattutto non raccontar mai più la storiella del gentiluomo di Milano, travestito da mercante di barometri: è troppo stupida! Senti, io ti darò l’uniforme d’un ussero morto ierlaltro in prigione: apri bocca il meno possibile, ma se un quartiermastro o un ufficiale ti interroga in modo che tu sia obbligato a rispondere di’ che sei rimasto malato in casa d’un contadino che per carità ti ha raccolto febbricitante in un fosso lungo la strada. Se non si contentano di questa risposta, di’ anche che vai a raggiungere il tuo reggimento. Può anche darsi che t’arrestino per la tua pronunzia: e tu di’ che sei un coscritto piemontese rimasto in Francia l’anno scorso... ecc., ecc.
Per la prima volta, dopo trentatré giorni che era in prigione, Fabrizio riuscì a rendersi conto di quel che gli capitava. L’avevano preso per una spia! Ragionò un pezzo con la carceriera che quella mattina era in tenerezze; e alla fine, mentre essa, armata d’ago, gli ristringeva l’uniforme dell’ussero, egli le raccontò la propria storia per filo e per segno.
La donna ne sbigottì: per un momento gli credé: aveva l’aria tanto ingenua, ed era tanto carino vestito da ussero.
Alla fine quasi persuasa: — Ma se avevi tanta voglia di batterti — disse — bisognava che appena arrivato a Parigi tu ti arrolassi in un reggimento. Bastava pagar da bere a un quartiermastro, e l’affare era fatto. — Gli diede altri savi consigli per l’avvenire, e alla fine, la mattina a bruzzico, mandò fuori Fabrizio, dopo avergli fatto giurar cento volte che non avrebbe mai pronunziato il suo nome, checché gli avvenisse. Quand’egli fu fuori dalla piccola città, marciando bravamente col suo sciabolone da ussero sotto il braccio, gli venne uno scrupolo. «Eccomi qui — diceva fra sé — con la divisa e il foglio di via d’un ussero morto in prigione, che s’era guadagnata, dicono, rubando una vacca e qualche posata d’argento! Io vengo a succedere, per dir cosi, nell’esser suo... e senza averlo in nessun modo voluto o previsto! Attenti alla prigione! Il presagio è chiaro: io avrò da soffrire assai!»
Era appena scorsa un’ora da che Fabrizio aveva lasciata la sua benefattrice, quando cominciò a piovere con tale violenza che il povero ussero, impacciato com’era da quegli stivaloni non fatti per lui, stentava a camminare. Incontrò un contadino che cavalcava una povera rozza e la comperò spiegandosi a gesti: si ricordò che la carceriera gli aveva raccomandato di parlare il meno possibile a cagione della sua pronunzia.
Quel giorno l’esercito, che aveva vinto a Ligny marciava su Bruxelles: s’era alla vigilia di Waterloo. Sul mezzogiorno, diluviava sempre, e Fabrizio sentiva il rombar de’ cannoni; la gioia gli fece scordar gli orribili momenti di disperazione patiti per l’ingiusta prigionia. Camminò fino a notte inoltrata; e poiché ogni tanto il buon senso ora baluginava, andò a chiedere alloggio nella casa di un contadino assai lontana dalla strada. Il contadino piangeva lamentando che gli avevano portato via tutto, ma quando Fabrizio gli ebbe dato uno scudo, tirò fuori dell’avena.
«Il mio cavallo non è bello, — pensò Fabrizio — ma non vuol dire: a qualche aiutante di reggimento potrebbe sempre piacere»: e andò a dormirgli accanto nella stalla. La mattina dipoi, un’ora avanti giorno, era già in cammino: a forza di carezze era riuscito a far pigliare il trotto alla brenna. Verso le cinque, sentì delle cannonate: i preliminari di Waterloo.