CAPITOLO DICIANNOVESIMOIn quegli anni d’esilio da se stessa, Carol subì alcune esperienze debitamente registrate come importanti dall’Intrepido e discusse dalle Jolly Seventeen: ma l’evento non registrato, non discusso e pure supremamente decisivo, fu il suo graduale riconoscimento di non bramar altro al mondo che di trovarsi fra i suoi pari.
Bea e Miles Bjornstam si sposarono a giugno, un mese dopo La Ragazza di Kankakee. Miles era diventato rispettabile. Aveva rinunciato a criticare lo Stato e la società, a vagabondare come mercante di cavalli, a indossare giubbotti rossi nei campi dei boscaioli: era entrato a lavorare come meccanico nella segheria di Jackson Elder; per le strade si sforzava di sembrare cordiale con persone che aveva tormentato per anni e che ora lo guardavano insospettite.
Carol fu la patronessa e la direttrice delle nozze. Juanita Haydock la beffava:
— Sei una sciocca a lasciar andare una domestica come Bea! E poi! Come puoi sapere che sia bene per lei sposare un vagabondo insolente come quell’orribile “svedese rosso”? Rinsavisci! Caccialo via con la scopa, costui, e tieniti la tua svedese finché ti fa comodo! Che? Io andare al loro matrimonio scandinavo? Ma nemmeno per sogno!
Le altre matrone fecero eco a Juanita. Benché spaventata dalla loro inconscia crudeltà, Carol non si perse d’animo. Miles le aveva confidato, non senza emozione: — Jack Elder dice che forse verrà al matrimonio! Perdinci, sarei contento di presentare Bea al principale come una signora sposata. Un giorno o l’altro mi metterò a posto tanto bene che Bea giocherà a bridge con la signora Elder... e con lei. Vedrà se non sarà così!
Alla funzione nella disadorna chiesa luterana c’era soltanto un impacciato gruppetto di nove persone: Carol, Kennicott, Guy Pollock e i Perry, tutti condotti da Carol, i rustici, intimiditi genitori, di Bea, sua cugina Tina e Pete, l’ex socio di Miles, un uomo burbero e peloso che si era comprato un vestito nero ed era venuto da Spoken compiendo un viaggio di più di duemila chilometri, per assistere all’evento.
Miles continuava a voltarsi e a sbirciare la porta della chiesa. Jack Elder non si fece vedere. La porta non si aprì più, dopo il goffo ingresso dei primi invitati. La mano di Miles si strinse sul braccio di Bea.
Aiutato da Carol, egli aveva trasformato la sua baracca in una casetta vera e propria con le cortine bianche, un canarino, e una poltrona coperta di chinz.
Carol fece la corte alle possenti matrone perché andassero a far visita alla sposa. Esse un po’ si schermirono, un po’ promisero di andare.
A Bea successe l’anziana, voluminosa, taciturna Oscarina la quale per un mese si tenne sulle sue, insospettita dalla frivolezza della sua signora, sicché Juanita Haydock fu in grado di gracchiare: — Ecco qua, sciocchina, te lo avevo detto io che saresti cascata nel “problema domestico” anche tu! — Ma Oscarina adottò la padrona come una figlia; e con lei fedele e competente in cucina come lo era stata Bea, nulla cambiò nella vita di Carol.
Ole Jenson, il nuovo sindaco, la invitò inaspettatamente a far parte dei consiglio direttivo della Biblioteca pubblica. Gli altri membri erano il dottor Westlake, Lyman Cass, l’avvocato Julius Flickerbaugh, Guy Pollock e Martin Mahoney, già proprietario della rimessa di vetture da nolo ed ora di un garage. Ella ne fu felice. Si recò alla prima riunione con una certa condiscendenza, considerandosi, oltre a Guy, l’unica intenditrice di libri e di metodi bibliotecari. Aveva in progetto di rivoluzionare tutto da capo a fondo.
Ma la sua condiscendenza fu umiliata e la sua umiltà ribadita quando si accorse che il consiglio direttivo, riunito nella squallida stanza al secondo piano della casa adibita a biblioteca, non cianciava del tempo o degli scacchi, bensì parlava di libri. Scoprì che il vecchio e cortese dottor Westlake leggeva tutto quello che c’era da leggere nel campo dei versi e della “letteratura amena”; che Lyman Cass, il proprietario del mulino, nonostante la faccia bovina e la barbacela incolta aveva ruminato Gibbon, Hume, Grote, Prescott e altri storici ponderosi, e che poteva ripeterne pagine intere, come infatti ne diede la dimostrazione. Quando il dottor Westlake le bisbigliò: — Sì, Lymann è molto colto e troppo modesto, — ella si sentì poco colta e niente affatto modesta, e si rimproverò d’aver misconosciuto la potenzialità umana di quella inesauribile Gopher Prairie. Quando Westlake citò il Paradiso, Don Chisciotte, Guglielmo Meister e il Corano sì disse che nessuno di sua conoscenza, nemmeno suo padre, li aveva letti tutti e quattro.
Alla seconda riunione si presentò con una certa diffidenza. Non pensava di rivoluzionare niente: sperava soltanto che i saggi anziani considerassero con tolleranza le sue proposte sulla convenienza di alcuni cambiamenti negli scaffali dei testi per ragazzi.
Tuttavia dopo quattro sessioni si trovava ancora allo stesso punto della prima. Si era accorta che nonostante il loro orgoglio d’essere uomini che leggevano, Westlake e Cass e perfino Guy non si preoccupavano affatto di rendere popolare la biblioteca in città. Se ne servivano, votavano le deliberazioni indispensabili e la lasciavano più morta di Mosé. Venivano richiesti largamente solo i Libri di Henry e i Libri di Elsie e i più recenti romanzi ottimistici compilati da scrittrici morali e da virili ecclesiastici; e il comitato direttivo s’interessava soltanto di vecchie opere ampollose. Nessuno aveva la minima tenerezza per la gioia turbolenta della gioventù che scopre la grande letteratura.
Se lei era egoisticamente fiera della sua modesta cultura, essi non lo erano meno della loro; ma per quanto parlassero sovente della necessità dì aumentare le tasse per sopperire alle esigenze della biblioteca, nessuno se la sentiva dì rischiare le critiche battendosi in proposito benché ormai i fondi fossero tanto ridotti che una volta pagato affitto, riscaldamento, luce e stipendio della signorina Villets, restavano soltanto cento dollari l’anno per l’acquisto dei libri.
L’incidente dei diciassette centesimi dette il colpo di grazia al già vacillante interesse di Carol.
Ella si era recata alla riunione tutta fremente d’un progetto. Aveva fatto una lista di trenta romanzi europei degli ultimi dieci anni, più venti importanti libri di psicologia e pedagogia e scienze economiche dì cui la biblioteca era priva. Si era fatta promettere quindici dollari da Kennicott. Se ciascun membro del comitato avesse contribuito con la stessa somma, avrebbero potuto acquistare quei libri.
Lym Cass sembrò allarmato, si grattò la testa e protestò:
— Credo che sarebbe un cattivo precedente che i membri del comitato contribuiscano con denaro... uhm... non che io non voglia, ma non sarebbe giusto... stabilire dei precedenti. Buon Dio! Non percepiamo nemmeno un centesimo per l’opera nostra! Non sì può pretendere che si paghi per il privilegio di servire!
Solo Guy sembrò simpatizzare: tamburellò con le dita la tavola d’abete e non disse nulla.
Il resto della riunione fu dedicato a una bellicosa Investigazione del fatto che nella cassa c’erano diciassette centesimi meno del previsto. La signorina Villets fu convocata e impiegò mezz’ora a difendersi appassionatamente: il mancante venne raggranellato a gran fatica una monetina per volta, e guardando la lista accuratamente compilata che un’ora prima le era sembrata cosi bella ed entusiasmante, Carol taceva mortificata per la signorina Villets e ancor più per se stessa.
Seguì con ragionevole regolarità le riunioni fino allo spirar dei due anni quando Vida Sherwin fu eletta a) suo posto: ma non cercò di far nulla di rivoluzionario Nel regolare trantran della sua vita non v’era nulla di cambiato e nulla di nuovo.
Kennicott fece un’eccellente speculazione di terreni, ma poiché non gliene comunicò i particolari ella non ne fu molto esaltata o agitata. Quello che l’agitò fu l’annuncio, mezzo sussurrato e mezzo buttato là, fra il tenero e il freddamente clinico, che « avrebbero dovuto avere un bambino adesso che se lo potevano permettere ». Da tanto tempo erano d’accordo che « forse sarebbe meglio non pensare ai bambini ancora per un po’ », che sembrava naturalissimo non averne. Ora ella temeva, e bramava, e non sapeva che pensare; assentì esitando e si pentì dì averlo fatto.
Poiché apparentemente non ci furono cambiamenti nelle loro tranquille relazioni, non ci pensò più, e la vita continuò ad andare avanti così, senza progetti.
Oziando sulla veranda della loro casetta sul lago, i pomeriggi in cui Kennicott era in città, quando lo specchio delle acque era abbacinante e l’aria languida, ella fantasticava di centinaia di evasioni. La Quinta Avenue sfarfallante di neve con limousines e vetrine dorate, la guglia d’una cattedrale. Una capanna di giunchi su fantastici pali piantati nel fango d’un fiume nella giungla. Un appartamento a Parigi: immense, alte, solenni stanze con grandi tende a volani e un balcone. L’Incanto della Mesa. Un antico mulino di pietra nel Maryland, allo svolto della strada fra il torrente schiumoso e le rocce strapiombanti. Un altipiano coperto d’erica, sparso di pecore, sotto un freddo sole obliquo. Una banchina rumorosa dove gigantesche gru scaricavano i piroscafi venuti da Buenos Ayres e da Sing-tao. Una sala da concerti a Monaco, e un violoncellista famoso che suonava... suonava per lei.
Una scena fra l’altro la stregava con la sua persistente malia.
Le sembrava di stare su una terrazza che dava su un boulevard lungo un tepido mare. Era certa, senza nessuna ragione al mondo, che si trattasse di Mentone. Lungo la passeggiata sotto di lei passavano vetture aperte con un meccanico tlot-tlot, tlot-tlot, tlot-tlot, e grandi macchine dalla cappotta nera e lucente e il motore silenzioso come un sospiro. Vi sedevano donne sottili, erette, ingioiellate e inespressive come marionette, con le piccole mani posate sul pomo del parasole e gli occhi fissi dinanzi a sé, incuranti degli uomini che avevano accanto: uomini alti e distinti dai capelli grigi. Oltre la passeggiata sì stendevano la spiaggia ed il mare dai colori violenti e i padiglioni azzurri e gialli. Nulla si muoveva, tranne le carrozze che passavano, passavano senza posa, e le persone erano piccole e rigide, semplici macchioline in un quadro grondante d’oro e di azzurri brillanti e duri. Non si udiva suono d’onde o di venti, non dolcezza di bisbigli o di petali sfogliati: nulla tranne il giallo e il cobalto e la luce abbacinante e quell’eterno tlot-tlot, tlot-tlot...
Trasaliva con un gemito. Era il ticchettio della pendola che la ipnotizzava facendole sentire quello scalpitio regolare di zoccoli. Non, intorno a lei, il colore del mare così bello da stringere il cuore, non raffinate creature intellettuali: ma la realtà della panciuta sveglia nichelata su una mensola contro la parete d’abete greggio, con un rigido strofinaccio grigio appeso a un chiodo al di sopra, e sotto la stufetta a petrolio.
Centinaia di sogni simili suggeriti dai libri che aveva letto, attinti ai quadri che aveva contemplato con invidia l’assorbivano nei sonnacchiosi pomeriggi sul lago; ma sempre, a interromperli, Kennicott arrivava dalla città, infilava i pantaloni kaki impiastricciati di scaglie di pesce secco, chiedeva: — Ti sei divertita? — e non ascoltava la risposta.
E nulla era cambiato, e non c’era ragione di credere che nulla potesse cambiare. Treni!
Nella casetta sul lago sentiva la mancanza del passaggio dei treni. Si accorgeva che in città aveva contato su di essi per assicurarsi che esisteva ancora un mondo di fuori.
La ferrovia era più che un mezzo di trasporto per Gopher Prairie: era un nuovo dio: un mostro dalle membra d’acciaio, le costole di quercia, la carne di ghiaia che ingoiava i carichi con una fame prodigiosa: una divinità creata dall’uomo per costringersi a rispettare le proprietà, come altrove aveva elevato a deità tribali, e come tali serviva, le miniere, gli opifici, le fabbriche d’automobili, le università, l’esercito.
L’East ricordava generazioni che non avevano conosciuto la ferrovia e quindi non ne avevano quel timore reverenziale: ma lì, erano più antiche del tempo. Le città erano state progettate nella nuda prateria come punti convenienti per le future stazioni: e il 1860 e ’70 avevano offerto molte belle occasioni per ammassare grandi ricchezze e fondare famiglie aristocratiche a chi sapeva in anticipo dove sarebbero sorte quelle città.
Se una città era in disgrazia, la ferrovia poteva ignorare che ci fosse, tagliarla fuori dal commercio, annientarla. A Gopher Prairie i binari erano verità eterne e il consiglio d’amministrazione delle ferrovie una potenza. Il più piccolo dei ragazzini o la più ritrosa delle nonne avrebbero saputo dirvi se martedì scorso il numero 32 aveva un vagone riscaldato, se il numero 7 avrebbe aggiunto un carrozzone viaggiatori supplementare, e il nome del presidente delle ferrovie veniva ripetuto familiarmente intorno a tutte le mense della città.
Perfino nella nuova èra del motore, i cittadini andavano alla stazione a veder passare i treni: era il loro romanticismo, il loro unico appello al mistero, oltre la messa della chiesa cattolica; e coi treni venivano i grandi del mondo di fuori: commessi viaggiatori col panciotto fantasia e cugini in visita da Milwaukee.