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Bocca impastata e chiodi negli occhi. Agatina Barresi scese dal letto e trovò il bacio gelido del marmo. Rabbrividì, ma si costrinse a rimanere in sottoveste. Gravami onirici e lame nei pensieri.
Restò a lungo a guardarsi attorno. Conosceva a memoria quella camera da letto, la sua alcova: il trumeau in noce di Ferrara, il comò intagliato dai mastri d’ascia, l’ottocentesca lumiera in cristallo di Boemia, le cornici in argento sbalzato e cesellato. E le foto in bianco e nero. Si mosse verso la finestra e si riempì d’alba. Le campane di Santa Lidia Purpuraria riverberavano i primi bagliori della Montanvalle, ricamata d’arancio e turchese. Il mattino si stiracchiava dietro le gibbosità delle colline. Il centro storico di Villabosco galleggiava nel silenzio, avvolto nella nebbia. Un gallo salutò il giorno. Nelle case in pietra del quartiere, qualche vecchina ancora allevava le galline e faceva colazione con un tuorlo fresco mescolato a marsala e zucchero. Uno zabaione denso e gustoso, che sapeva di famiglia.
Quale famiglia?
Il palazzo barocco, dove s’era illusa di afferrare la felicità, la soffocava. Le mancava la lava del suo vulcano, la neve che ne imbiancava il nero cratere sino a primavera inoltrata, l’orizzonte che si allargava sul mare di Catania e lambiva il verde di aranceti e limoneti che si estendeva a perdita d’occhio.
Agatina contemplò la figura che ronfava nel letto.
Cos’era rimasto di tanti sogni?
Apparenze cerimoniose, rispettabilità di facciata. Respirò sapore di fallimento, unghiate maligne le aggredirono le pieghe del ventre freddo. Si sentiva immersa in un blocco di ghiaccio. Da ragazza aveva creduto agli uomini e alle loro promesse. Poi gli anni erano passati, uno dopo l’altro, lasciando rughe sulla pelle e sfregi nell’anima. E quel senso d’oppressione gravava su ogni singolo gesto. Su ogni respiro. Le mancava perfino l’aria.
Si riempì i polmoni, cercando il giorno anche dentro di sé. Un rumore la fece girare. Lui aveva steso il braccio dalla sua parte, cercandola tra le lenzuola. Lo fissò: un tempo si era sentita protetta. Lui era così coinvolgente e rassicurante, col suo eloquio forbito e i modi signorili, un gentiluomo del secolo passato, così diverso dai tanti che aveva conosciuto. Lo aveva sposato. Carrozza, fiori e rinfresco nel baglio dell’ex feudo.
Quante illusioni!
Contemplò la propria immagine riflessa nella specchiera. Era ancora soda e attraente, con la carne ben distribuita nei punti giusti. Quando incedeva con le minne in fuori e i fianchi ancheggianti, lo leggeva in faccia agli uomini quali appetiti suscitava. Si compiacque di se stessa pensando a ciglia gagliarde che la carezzavano: l’albanese, conosciuto così rocambolescamente sotto Natale, ardeva di desiderio. E il desiderio gronda energia. Pura. Animalesca. Ferina.
Lo aveva sentito fremere sotto le sue unghie smaltate quando gli aveva regalato la libertà.
Come ti chiami?
Valon, signora.
Valon, da valoj, ribollire. E nulla come la bramosia della carne muove il mondo.
Con passi felpati, Agatina si mangiò la stanza, frugò nel cassetto segreto del trumeau, percepì la carta morbida. Lesse.
Amore mio, non so più cosa è bene né cosa è male.
La pistola, come sempre, la ritrovò accanto. L’impugnatura aderì perfettamente alle sue dita, sottili e morbide, e la Walther PPK le fiorì in mano. Agatina la strinse. La fissò.
Ogni errore si può correggere.
Ne saggiò la consistenza, ne ammirò le linee dritte e armoniose. Letali.
Davvero potrei arrivare a tanto?
Puntò decisa la canna della calibro 7.65 contro i cuscini e con freddezza prese la mira.
Il marito si girò di fianco.
Bum, fece Agatina sottovoce.
Sulla Montanvalle, luce abbagliante orlava di nuova consapevolezza il nascere del giorno.
***
È un giorno di marzo. Un tuono squarcia il silenzio del mattino. Sotto il cielo del Kosovo gravido di pioggia, Mishna perde l’innocenza.
Il soldato serbo è ubriaco. Gonfio di vino e di rancore. Ciuffi sudici e arruffati spuntano da sotto il basco, formano un’isola crespa con la barba incolta. Il soldato spiana il mitra su Serge, il padre di Mishna, lo tiene sotto tiro. Ha la sua stessa corporatura, gli stessi lineamenti. Potrebbero essere fratelli se non fosse per quell’arma puntata e per gli occhi, pozzi di ferocia iniettati di sangue. Il soldato sputa e ringhia. È un animale pronto ad attaccare.
Serge non si muove. La consistenza della lama che gli preme sulla schiena gli dà forza. L’ha nascosta per fronteggiare pericoli come quello, ha dovuto imparare a difendersi nella terra dove è nato e cresciuto. La sua terra. Ma quel posto non gli appartiene più. I serbi sono armati, sono pericolosi. Nessuna autonomia. Nessuna libertà per gli albanesi del Kosovo.
L’uomo accumula terra in terra, e di terra muore. Non una sola manciata ne porta con sé.
Se solo riuscisse a prendere il coltello. Serge non è uno sprovveduto, è guardingo, attento. Ma il soldato ubriaco è spuntato all’improvviso da dietro i massi dove smaltiva la sbornia, non lo aveva visto. Un errore mortale. Serge gli legge negli occhi sentenza e condanna. Allontana Mishna con uno spintone.
Gravità, forza, accelerazione. La violenta spinta sbilancia Mishna, lo fa cadere lontano. Il ragazzino si fa male alla spalla. La fitta gli risale lungo i fasci nervosi del collo.
Il soldato ringhia.
Cosa sta abbaiando?
Serge non perde di vista il soldato. Sprona Mishna ad allontanarsi.
Suo figlio è ancora vicino. Troppo vicino.
Corri, Mishna, non fermarti, corri.
Il soldato bestemmia, digrigna i denti, spara. I colpi sono tonfi secchi, alzano pugni di polvere, abbattono vite. Serge crolla nell’erba. Chiazze scarlatte gli fioriscono sul petto.
Non pensare, Mishna, corri.
Disperazione, amore, coraggio. Un padre difende il suo cucciolo fino all’estremo. Serge si rialza col peso del mondo sulle spalle, brandisce il coltello, ma la vista già si annebbia.
Non toccarlo.
Il soldato gli molla un calcio, gli anfibi trovano la lama che schizza lontano. Un raggio solitario si fa largo tra i nembi, la indora tutta. Barbagli luminescenti seguono la sua parabola, e si perdono in una polla di luce tra l’erba rorida di pioggia e linfa purpurea. La vita di Serge scorre via.
Il sangue degli uomini ha lo stesso colore sotto ogni cielo. Lo stesso odore. La stessa consistenza. Vita e morte. L’uomo sconvolge l’ordine naturale delle cose. La morsa dell’odio brucia i sentimenti, fa a pezzi i sogni dei bambini.
Corri, Mishna, corri.
Serge non può più proteggerti. Gli orchi calano a orde dalle montagne. Sei solo adesso, solo con la tua paura a farti compagnia.
Corri, Mishna, corri.
L’innocente si allontana portando con sé l’orrore. Divisa sudicia, il soldato è un avvoltoio curvo su suo padre, intento a sfilargli gli stivali.
Senza i suoi stivali un uomo è nudo, figlio mio, non permettere a nessuno di toccarteli.
Padre, geme Mishna tra le lacrime.
Gli risponde una nuova raffica di mitra. Il soldato sputa odio e rancore.
Muori, cane.
Serge non si muove. Mishna è lontano, fuori dalla portata di tiro del soldato, si ferma, rimane a guardare inorridito. Il sacrificio di Serge lo ha salvato. Fissa vittima e carnefice, incide a fuoco quelle immagini nel suo cuore.
Il soldato leva al cielo gli stivali di Serge. Esulta brandendo il suo trofeo. Lo sfida.
Mishna non ha più lacrime. Gli uomini non piangono. Accetta la sfida.
Li riprenderò, padre, lo giuro sul Kanun, lo giuro sul nostro sacro codice.
***
Nome in codice: Operazione merlo.
Il maresciallo Saverio Bonanno pensava al sole di luglio e si rivedeva a passeggiare sul bagnasciuga di Gallipoli, a godersi raggi infuocati e a rimirare le grazie esposte con generosità da belle ragazze lucenti di abbronzante che si rosolavano sulla spiaggia pugliese.
“Capperi, congelo!” si lamentò il brigadiere capo Attilio Steppani.
Il maresciallo fu risucchiato nella sua fredda realtà di sbirro di provincia. La tramontana soffiava impietosa e l’aria in odore di nevischio tirava sberle che lasciavano intontiti. Con quel tempo da lupi, solamente scassapagliari in cerca di colpi facili o sbirri scriteriati si sarebbero attardati nei vicoli di Villabosco. Stradine lastricate in pietra lavica, case disabitate, chiese secolari. Sicilia agreste, interna, pastorale. Arcaica.
Da un paio d’ore, i due carabinieri stavano appostati nel quartiere della Madonna dei Sette Miracoli, dietro un portico in pietra intagliata.
“Perché questo malo campare se il merlo sta dentro?” continuò a lamentarsi Steppani, facendogli il verso siciliano.
Bonanno lo fulminò: “Muto, ci serve una prova. Per sicurezza”.
“Ma che prova, sto diventando un ghiacciolo. Se solo sapevo, col piffero mi inguaiava in questo calappio.” Nato e cresciuto nell’opulento Nord Italia, il brigadiere si divertiva a scimmiottare la parlata del suo maresciallo.
“Finiscila.”
“Gelo” protestò ancora Steppani.
“E va bene, accidenti a te, andiamo a prenderlo.”
“Era ora” si rincuorò il brigadiere, col naso purpureo e gli occhi lacrimosi per quel prolungato appostamento mirato. Bonanno s’era incaponito a mettere i ferri ai polsi di Peppino Mangiaracina, detto Porcufinu, piccolo delinquente di paese e padre di una caterva di figli, che per sfregio aveva versato dell’olio corrosivo sulla fiammante auto del sindaco, Totino Prestoscendo, al diniego di quest’ultimo di concedergli l’ennesimo contributo sociale.
Il sindaco e il colonello avevano dato il tormento a Bonanno.
Deve arrestarlo. La flagranza si trova, a saperla cercare, gli aveva detto il superiore. Non c’era stato altro da aggiungere. Ma Mangiaracina s’era dato alla latitanza e i due avevano continuato ad assillarlo.
Il calendario segnava il 19 marzo, festa di san Giuseppe; nella Montanvalle, per tradizione, si apparecchiavano imponenti tavolate in onore del patrono dei falegnami e in diverse famiglie si invitavano i vicchiareddri – gente povera, con semplicità definita vecchietti, per devozione all’iconica figura del patriarca – e si servivano portate degne di Trimalcione. Ben conoscendone la voracità, Bonanno era convinto che Peppino Mangiaracina avrebbe trovato il sistema di intrufolarsi in casa sua e rimpinzarsi, approfittando della giornata siberiana.
“Steppà, stavolta l’acchiappiamo” aveva detto tre ore prima Bonanno al suo sottoposto.
“Buon per lei, maresciallo” aveva cercato di svignarsela il brigadiere.
“Dove vai? Mi serve il tuo supporto.”
“E ti pareva” si era arreso Steppani.
Per non dare troppo nell’occhio, il maresciallo e il suo braccio destro s’erano messi in abiti borghesi e avevano lasciato l’auto distante, agendo con discrezione, per evitare che qualche lingualunga soffiasse all’uccellino la presenza degli sbirri. A Villabosco perfino i rutti avevano paternità e codice fiscale.
Mancavano dieci minuti a mezzanotte. Bonanno spense quel che restava della Benson & Hedges. Le folate di tramontana li stavano intirizzendo. La finestra al primo piano si schiuse, mani carnose sbatacchiarono un’enorme tovaglia da tavola.
“Amunì” si gasò Bonanno.
“Finalmente” disse Steppani.
L’abitazione di Mangiaracina si trovava al primo piano. Si raggiungeva salendo una scala a cui si accedeva dall’esterno. Il portone era chiuso, ma Bonanno s’era portato i grimaldelli. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, Steppani sbottò: “Senta, Lupin delle montagne, posso provarci io?”
Rammaricandosi per aver lasciato nel bagagliaio della Punto il fidato piede di porco, il maresciallo si fece da parte con aria di sfida: “È tutto tuo.” Se quel novellino del nord pretendeva di insegnargli il mestiere, si accomodasse. Steppani infilò il ferro uncinato nella serratura, trafficò con l’altro grimaldello e si udì uno scatto secco. Il brigadiere si inchinò con gesto plateale, lasciando il passo al superiore. “Prima lei”.
“Fortuna.”
“Occhio che non le si secchi la lingua con un bravo, Steppà, ottimo lavoro.”
“Se non avessi avuto le dita congelate, vedevi se in quattro e quattr’otto non te la sbarracavo quella porta.”
“A lei serve un corso accelerato di scasso.”
“Finiscila di fare il saputello”.
“E pure un corso di buone maniere. Procediamo?”
“Ha parlato il Vidocq della Padania”.
Salirono le scale e quando furono davanti alla porta di Mangiaracina, indispettito com’era, Bonanno la tempestò di pugni.
“Aprite, carabinieri!”
Trambusto di sedie rovesciate e frasi concitate.
“Che volete a quest’ora?” prese tempo Nina Favarò, la moglie del latitante.
“Aprite o sfondiamo la porta” minacciò Bonanno.
“Quello ci scappa” disse Steppani, proiettandosi in avanti come un ariete. Con una poderosa spallata sfondò la porta e con una capriola si portò all’interno. Sacramentando al solo pensiero dei danni che l’Arma sarebbe stata chiamata a rimborsare, Bonanno lo seguì a passo di carica. Steppani era stato lesto a rimettersi in piedi e fronteggiava la moglie di Porcufinu occhi negli occhi. Sguardo feroce e determinato, la pistola in pugno.
“Dov’è suo marito?”
Di Peppino Mangiaracina non c’era traccia, ma la sua presenza aleggiava in ogni cosa. Nella montagna di piatti e nelle padelle accatastate nel lavello. Nel lettone disfatto. Nell’agitazione della signora. La camicetta slacciata sul seno generoso, Nina Favarò continuava a gesticolare e a inveire, sbarrando il passo ai due: “Che volete? Sola sono.”
Svegliato dal trambusto, uno dei bambini invocava la mamma, protendendo le braccine dalla culla, ma Nina Favarò non muoveva un passo. Fronteggiava i due carabinieri, ben piantata sul logoro tappeto della sala d’ingresso. Bonanno si insospettì.
“Steppà, sposta la signora”.
“Scherza? Peserà una quintalata!”
“Steppà: posa il ferro e pigliati la fimmina!”
“Perché non se la piglia lei?”
“Perché è un ordine. Levala dal tappeto.”
Il brigadiere finalmente sembrò capire il messaggio sottinteso. Rinfoderò la pistola d’ordinanza, sollevò Nina Favarò e la allontanò di peso, beccandosi una gomitata nelle costole e un calcione negli stinchi. Strinse ancor di più la presa rivolgendo un’occhiata significativa al maresciallo, e Bonanno seppe che aveva archiviato quei colpi con doppia sottolineatura nel libro dei favori che avrebbe dovuto contraccambiargli.
Sotto il tappeto c’era una botola mascherata.
“Visto, Maigret?” disse Bonanno. Pari e patta.
“Solo sorci ci stanno là sotto” si agitò la signora, avvampando.
“Controlliamo”.
Calatisi di sotto, aspettarono qualche secondo per abituare gli occhi all’oscurità. Momenti lunghi una vita. Nina Favarò smise di inveire. Si sentivano solo i singhiozzi dei bambini. S’erano svegliati tutti. Il maresciallo fece luce con l’accendino, un riverbero fioco ma sufficiente a delimitare la sagoma di un vecchio materasso, ritto contro il muro. Il materasso aveva due piedi. Piedi nudi.
“Lo sai che ti dico, Steppà? Ora sparo qualche colpo in quel vecchio materasso. Mi levo lo sfizio e giustifichiamo l’irruzione.”
“Le do una mano” rispose il brigadiere, tirando fuori il ferro. Bonanno fece scorrere il carrello dell’arma. Steppani lo imitò. Click clack.
“Va bene, al mio tre scarichiamo i ferri”.
“FERMI, non sparate” saltò fuori Porcufino. Era in canottiera e mutande, le mani alzate e le gambe di ricotta.
“Fermi, io qua ci sto, Peppino Mangiaracina in persona, fu Vastiano. Non sparate.”
Il merlo era in gabbia.