Una giornata di riposo-1

2013 Words
Una giornata di riposo Come ogni mattina Ian si alzò alle sette in punto. Non aveva bisogno della sveglia e neppure dell’orologio. Quando apriva le palpebre sapeva già che erano le sette. Si vestì con calma. Scelse una camicia grigia e una giacca nera. Scese al piano di sotto e si preparò un caffè con uova e pane bianco. Si dice che la colazione sia il pasto più importante della giornata ma, come sempre, doveva sforzarsi di reprimere un vago senso di nausea. Mangiò comunque, ne aveva bisogno. Sistemò la pistola nella presa del portuale dopo aver accuratamente controllato che fosse carica. Prese il cappotto e uscì. Fuori faceva freddo. Il fiato si condensava in piccole nuvole di vapore. La Mercedes SLK era parcheggiata nel piazzale davanti a casa. Quando girò la chiave, l’automobile si accese con un rumore sordo. Adorava guidare di prima mattina, quando le strade sono deserte e l’unico suono è il rombo del motore. Doveva recarsi fuori città. A quell’ora, di domenica, c’era poco traffico. Impiegò tre quarti d’ora per arrivare a destinazione. Era una grande casa colonica con l’edera che si arrampicava su buona parte della facciata. Si guardò intorno. La casa era isolata. L’edificio più vicino, una villa, si trovava sull’altro lato della strada, in fondo a un vialetto d’accesso. Quando suonò il campanello gli rispose una voce bassa e gentile. «Chi è?» «Buongiorno signora Bertini. Mi dispiace disturbarla così presto. Mi chiamo Lorenzi. Sono il giornalista che l’ha chiamata la settimana scorsa. Ricorda, per l’intervista?» «Oh sì, signor Lorenzi. Le apro subito» Il cancello si aprì con un rumore metallico. Subito dopo, anche la porta di casa si aprì e una signora con i capelli bianchi, sulla settantina, si affacciò sulla soglia. Aveva un’espressione gentile. Indossava un vestito nero molto semplice che le scendeva sino alle caviglie. Percorso il breve vialetto, Ian le porse la mano che la donna strinse calorosamente. «È molto freddo fuori. Venga dentro» «Mi scuso ancora per l’ora. E anche per essere venuto di domenica. Ho molti impegni in questo periodo, ma ci tenevo a scrivere l’articolo su di lei questa settimana. Per la verità è quasi pronto. Manca solo l’intervista» «Oh, non si preoccupi. Alla mia età non si dorme più molto» La casa era grande e accogliente. Mobili in legno, parquet lucido e un aroma di rose che permeava l’ambiente. La donna lo accompagnò in salotto. «Posso offrirle qualcosa? Caffè, tè?» «Se non è troppo disturbo prenderei volentieri una tazza di caffè» «Nessun disturbo. L’ho preparato proprio ora. È ancora caldo» Dopo pochi minuti, la signora portò un vassoio con due tazze fumanti. «Latte, zucchero?» «Solo un po’ di zucchero, grazie» Dopo aver sorseggiato il liquido caldo, Ian appoggiò la tazzina. «Bene signora Bertini, possiamo iniziare l’intervista» Estrasse un registratore dalla tasca della giacca e lo appoggiò sul tavolo, urtando una delle tazzine che rotolò sul tappeto. Alcune gocce di caffè vennero subito assorbite dal tessuto. «Che imbranato che sono. Non so come scusarmi» Si chinò e raccolse la tazzina. «Non si preoccupi. Non è niente. Prendo uno straccio per il tappeto» La signora Bertini andò in cucina. Non si accorse che Ian si era alzato pochi istanti dopo di lei. E non si accorse neppure che si era fermato alle sue spalle. Le applicò il respiratore di plastica sulla bocca premendo la bomboletta. La donna si irrigidì per un attimo, sbarrò gli occhi e si afflosciò tra le sue braccia. L’etere aveva fatto effetto. Quando aprì gli occhi, la signora Bertini non ricordava di essersi addormentata. Avvertiva solo un dolore pulsante alla testa, che martellava basso e costante. La prima cosa che realizzò era che non poteva muoversi. Era legata a una sedia, in salotto. Mani e piedi erano stretti con del nastro adesivo. Altro adesivo premeva sulla bocca. C’era un uomo di fronte a lei. Era in piedi e la stava osservando. Il giornalista. I pensieri iniziarono a schiarirsi. Sicuramente non era un giornalista. Un rapinatore. O forse un violentatore. No, mio Dio, no. Cercò di parlare, ma riuscì solo a emettere una serie di mugugni inarticolati. Il giovane che aveva davanti non sorrideva più. Adesso il volto era impassibile e gli occhi scuri la fissavano gelidamente. Passarono alcuni minuti. Ma non poteva sapere quanto tempo fosse trascorso. Il vecchio orologio a pendolo era dietro di lei. Non poteva vederlo e non ce n’erano altri in quella stanza e l’uomo continuava a fissarla. Cosa voleva da lei? Era un pazzo? A un certo punto, l’uomo si mosse. Aveva estratto un oggetto dalla tasca. Non riuscì a vedere di cosa si trattava, perché l’uomo l’aveva nascosto nel pugno. Il secondo oggetto invece lo riconobbe subito: era una siringa. Poi aprì il palmo della mano e le mostrò una fialetta, che conteneva un liquido trasparente. L’uomo si avvicinò lentamente. Appoggiò la siringa sul tavolino. Le strinse un laccio emostatico intorno al braccio. Quando le fece l’iniezione, la signora Bertini non avvertì neppure il pizzico dell’ago. Quanti anni poteva avere quel giovane uomo? Ventotto, trenta? forse qualcuno di più. Con ogni probabilità aveva l’età di suo nipote. Ma non lo era. E la stava uccidendo. Quella certezza si era impadronita di lei. “Perché? Dio mio salvami. Non merito di finire così”. La paura era così forte e così pura che sembrava palpabile. La immaginava come un grosso ragno peloso che saliva lungo le gambe mentre lei era immobile. La paura l’aveva accompagnata fin da bambina. Di notte si svegliava urlando, con il respiro affannato e lo sguardo terrorizzato di chi è sicuro di avere qualcosa di peloso accanto a sé, sul cuscino, oppure sulla pancia. Rimaneva immobile, sperando così che l’essere se ne sarebbe andato. Ma non se ne andò. Mentre spingeva lo stantuffo della siringa Ian osservò l’anziana signora. Il terrore era riflesso negli occhi. La paura è un sentimento potente. Non c’è niente di più forte della paura vera, atavica, che ti fa temere per la tua vita, e ti fa provare l’adrenalina. «Le ho iniettato un composto. Si chiama atropina. Le provocherà un infarto» Guardò le pupille della donna che si dilatavano. Sembravano gli occhi di un gatto che si adattano ai cambiamenti di luce. «Lei morirà, signora Bertini. Ma non subito. Ci vorrà un po’ di tempo prima che arrivi la fine. E soffrirà. Molto. Il dolore salirà lentamente, come un’onda. E la sommergerà. Allora invocherà la morte come una liberazione» Gli occhi della donna si erano riempiti di lacrime. Ian riusciva a scorgere nel profondo una domanda inespressa. La domanda che si fanno tutte le persone che stanno per morire. Perché? Ma non stava a lui dare spiegazioni. Se la signora ne voleva, avrebbe dovuto guardarsi dentro, nell’anima. Le avrebbe trovate lì. Salì al piano di sopra e aprì alcuni cassetti. Trovò il portafogli della donna sopra il comodino della camera da letto e alcuni gioielli nel doppiofondo, piuttosto ben fatto, della specchiera. Fece un po’ di disordine. Poteva bastare. Gli avevano chiesto un lavoro pulito. Un infarto a causa di un’effrazione, era plausibile. L’atropina non avrebbe lasciato tracce. Quando scese al piano di sotto, gettò un’ultima occhiata alla signora Bertini. Adesso la testa era scossa da un movimento continuo, un tremito violento che presto si sarebbe esteso al resto del corpo. Bene, pensò Ian. Il dolore è arrivato. Avrebbe impiegato ancora mezz’ora, forse di più, a morire. Bene. Aprì la porta e uscì. Lungo la strada gettò portafogli e gioielli in un cassonetto. Non era un ladro. Si accertò che finisse tutto in profondità, dentro a uno scatolone già per metà pieno. Per sicurezza gettò sopra altra spazzatura. Un professionista non trascura mai i dettagli. Quando risalì in macchina, prese un foglietto dalla tasca interna del cappotto. Cancellò il nome della signora Bertini. Lesse il nome successivo. Accese la macchina e si diresse verso il centro di Milano. Mentre usciva di casa il signor Sarchielli pensava a tutte le commissioni che la moglie gli aveva affidato. Elenco della spesa, lavanderia, regalo per i bambini, erano tutti scritti in ordinato stampatello sul post-it giallo. “Vuole essere sicura che non dica che non riuscivo a leggere”. Sorrise. Aveva già usato quella scusa almeno un paio di volte in passato. La calligrafia di sua moglie era incomprensibile. Scrivere male doveva essere una prerogativa dei medici. Si infilò il foglietto in tasca. Tante commissioni da sbrigare. “Come se non avessi già un sacco di cose a cui pensare. Prima di tutto recuperare la macchina” Per un attimo valutò la possibilità di andare a piedi. Il traffico di Milano è un vortice che ti avvolge, ti stritola e quando pensi di essere arrivato a destinazione, si forma una nuova coda davanti a te, come un enorme serpente pronto a ingoiarti. Ed era tutto amplificato dall’imminente festività natalizia. Scartò l’ipotesi di camminare. Il centro commerciale era troppo lontano. Quando imboccò l’ingresso del garage, non si accorse dell’uomo vestito di nero che lo stava seguendo già da alcuni minuti. Ian seguì il signor Sarchielli dentro al parcheggio. Due uomini stavano discutendo animatamente vicino a una vecchia Clio. Uno dei due accusava l’altro di avergli ammaccato l’auto, un vecchio modello con la vernice della carrozzeria scrostata in più punti. L’uomo che stava seguendo camminava di buon passo al primo piano del garage. Secondo le informazioni, il signor Sarchielli aveva un box con apertura automatica di sua proprietà. E infatti, quando l’uomo era ancora a qualche metro di distanza, la saracinesca iniziò ad alzarsi. Adesso Ian era a pochi metri dalla preda. «Signor Sarchielli?» «Si?» L’uomo si voltò di scatto. «Chi è lei?» «Mi manda il commendator Bianchi. Dovrei scambiare due parole con lei» Il signor Sarchielli lo scrutò con attenzione. «Non conosco nessun commendator Bianchi. E non mi piace chi mi piomba alle spalle. Se ne vada o chiamo la polizia» Si guardò intorno, probabilmente nella speranza di scorgere qualche passante. In lontananza, le voci dei due automobilisti si erano alzate. Con ogni probabilità presto sarebbero venuti alle mani. In un attimo, Ian estrasse la pistola dalla presa del portuale, sotto la giacca. Sorridendo, la puntò verso il signor Sarchielli. «Entri dentro il box, veloce» L’uomo sembrava completamente paralizzato. Gli occhi inchiodati sulla semiautomatica munita di silenziatore. «Ora conterò fino a tre e poi, se non sarà entrato, la ucciderò» Scandì le parole lentamente, ma con decisione. Anche se era una minaccia, suonò come una semplice constatazione. L’uomo entrò nel garage, senza mai staccare gli occhi dalla pistola. Ian lo seguì rapidamente all’interno. La luce del box si accese automaticamente. «Adesso chiudi e lanciami il telecomando» L’uomo obbedì. Sembrava che si stesse riprendendo dallo shock iniziale. Deglutiva a fatica, ma non fissava più la pistola. Adesso guardava Ian e lanciava rapide occhiate alle pareti della stanza, probabilmente alla ricerca di qualcosa con cui difendersi o chiamare aiuto. «Non faccia niente di stupido. Non urli. Faccia quello che le dico e forse ne uscirà vivo» Voleva fargli capire che non era necessario che morisse. Ma neppure che restasse in vita. Era una balla. Ma avrebbe dato al signor Sarchielli una speranza. Falsa, certo. Ma era pur sempre una speranza. Aveva imparato che le persone vi si attaccano come un pesce all’amo. Sanno che non è la verità ma non possono fare a meno di abboccare. In fondo, qualcosa è sempre meglio di niente. Anche se quel qualcosa è, molto spesso, solo un miraggio lontano. «Si metta questo respiratore davanti alla bocca e prema la bomboletta» L’uomo prese la bomboletta di narcotico con la mano che tremava. «Stia tranquillo, non la avvelenerò» aggiunse Ian. «La prego non mi faccia del male. Ho due bambine piccole e…» «Respiri» La voce di Ian era di ghiaccio. Il signor Sarchielli appoggiò il respiratore sulla bocca. Aveva iniziato a piangere. Le lacrime scendevano sulle guance e si fermavano sulla mascherina di plastica, come gocce di pioggia sul parabrezza. Dopo pochi istanti tutto divenne nero e si accasciò al suolo. Quando si risvegliò, il signor Sarchielli non riuscì a realizzare dove si trovasse. La testa pulsava. Il dolore impediva di pensare lucidamente.
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