Renault 4
Per quanto tempo ho evitato di affrontarti a viso aperto, mamma? Il
mio orgoglio, o forse il tuo riserbo, ci hanno sempre impedito di
confrontarci senza riserve, anche se spesso siamo stati a un passo
dal farlo. Ora il tempo è passato. Le ferite non sanguinano più.
Possiamo provare a essere madre e figlia senza recitare? (Che senso
avrebbe, poi?)
Il tuo volto, sul quale raramente mettevi un filo di trucco,
ha i lineamenti della bella donna che un tempo eri, anzi, non fa
che ricordarmi la giovane madre di cui andavo fiera. Ogni bambino è
fiero della propria madre, del proprio padre. Sono idoli
intoccabili, ha bisogno di loro per vivere – o sopravvivere –
farebbe di tutto per ottenere la loro approvazione.
– Non ti allontanare! – gli dico, accorgendomi che sta salendo
la gradinata.
– Posso andae là? – mi risponde facendo segno.
– Stai dove ti posso vedere.
– Va bene.
Porta una maglia rossa, calzoncini blu, sandali che si
riempiranno di polvere. Ha i capelli neri, un visino dai lineamenti
delicati e uno sguardo penetrante. Raccoglie piccole pietre. Le
confronta l’una con l’altra. Quelle che decide di tenere le mette
in tasca. Di quando in quando, all’intermittente rumore dei passi
sulla ghiaia, si sovrappone lo stormire degli alberi, mossi dal
vento.
Sono stata a casa tua, mamma. È ancora lì, intatta. I muri
esterni sono di un rosso tra il granata e l’amaranto: un colore che
mi fa stare bene, un colore che ancora fa da sfondo a certi sogni
felici, per me. La casa ha solo una stanza per piano. Dalla cucina,
a pianterreno, si accede con pochi gradini alla cantina, nella
quale papà
travasava il vino da un contenitore all’altro,
valutandone colore e aspetto sotto la lampada a incandescenza.
Laggiù, in quel freddo rifugio, mi parlava di luna calante e di
luna crescente, di giorni buoni per imbottigliare il vino. Mi
portava con sé a raccogliere l’uva, ancora non arrivavo ai grappoli
più bassi. Per me, bambina, era una specie di festa.
Dalla cucina si sale per una stretta scala e s’incontrano il
bagno, la camera tua e di papà e infine il solaio, che diventò
camera mia quando smisi di dormire nel lettone. Il bagno ha ancora
le stesse le piastrelle azzurre, la vasca smaltata con i piedi a
zampa di leone e un profumo di lavanda – la coltivavi in giardino,
ne seccavi le spighe e quindi le legavi per metterle in casa,
oppure riempivi dei sacchettini per profumare la biancheria – che
non so se si senta davvero o sia solo frutto della mia fantasia. È
lo stesso profumo che hai sempre avuto tu. Un odore buono, che
sentivo quando mi lavavi o mi vestivi o mi spazzolavi i capelli,
anche se non ricordo quando è stata l’ultima volta che m’hai presa
in braccio.
Non ho dimenticato, invece, quando, nascosta dietro la siepe
di gelsomino, attendevo il rientro di papà con il cuore che mi
batteva forte. Dopo aver chiuso il cancello, avanzava sul selciato.
Io sbucavo fuori all’improvviso e gli correvo incontro. Lui mi
abbracciava e mi sollevava da terra. Era inutile che protestassi:
– Ma papà, sono grande! – perché lui mi rispondeva:
– Sei la mia bambina! –.
Invece tu eri sempre un po’ distante, come se il contatto
fosse una cosa riprovevole, o forse perché era quanto di meglio
riuscivi a fare. Comunque ti ricordo pensierosa, sempre indaffarata
in mille impegni, con mani instancabili. Ti alzavi al mattino
presto per andare a messa. Sentivo il suono della campana e
qualcuno che si vestiva furtivo; infine dei passi smorzati che
scendevano i gradini. Al ritorno ti occupavi del giardino. I fiori
erano una delle tue poche passioni.
Un muro di cinta e una siepe delimitano il giardino, compreso
in uno slargo non interamente visibile dalla strada. È percorso nel
mezzo da un acciottolato, con un tappeto di prato sui due lati.
Quello di destra è a ridosso di un’altra casa, pressoché in ombra.
Ci piantavi ortensie, azzurre e vivaci, mughetto, azalee. In quello
di sinistra, invece, facevi crescere arbusti di rose, cespugli di
lavanda, tulipani o zinie. In un angolo c’è il pozzo, dal quale
attingevamo l’acqua per annaffiare le piante.
In certi giorni di primavera, lontanissima dalla casa, m’è
capitato di sentire gli stessi odori d’infanzia incantata – lavanda
e bucato, rose e gelsomino –, tutto il mio mondo di bambole e
pizzi, vestitini, sandali, calzini corti e ginocchia sbucciate.
Non entravo nella casa da almeno dieci anni, dal giorno in cui
trovasti papà senza vita, disteso nel mio letto. Così ho scoperto
che dormivate in camere separate. Ho capito che non vegliavi il suo
sonno, né lui il tuo, fin da quando me n’ero andata di casa, a
vent’anni. O forse anche da prima, da quando ero entrata in
collegio. Tornavate a dormire insieme al mio rientro, durante le
vacanze, solo per sembrare una coppia perfetta? Ora che non serve
più mentire, te lo chiedo.
Non mi rispondi? Mi aspettavo che dicessi: – Sono cose che non
ti riguardano! – come quando ti chiesi se papà era felice con te.
Non ti ho ancora perdonata per le lacrime che non hai versato al
funerale, come per la sicurezza con cui dicesti: – Tuo padre è fra
le braccia di Nostra Madre, in cielo... – A me, che avevo gli occhi
gonfi di pianto.
Ho percorso il giardino, ho raccolto una rosa per metterla in
un vaso, ho sostato brevemente accanto al pozzo, assalita dai
ricordi. Poi ho aperto la porta, lasciandomi pervadere dall’odore
di legno e di lavanda. Ho acceso le luci, salito la stretta scala
di legno. Tutto è rimasto uguale, persino i gradini che
scricchiolano, in una sequenza che permane nella mia memoria.
Avevo bisogno di conoscere la verità. Per questo ho aperto i
cassetti del tuo comò. Ho estratto le federe ricamate, le lenzuola
di lino, le camicie da notte. Sapevo di violare uno spazio che non
hai mai condiviso con me, ma dovevo sapere. Non mi avete mai detto
come vi siete conosciuti, né dove o quando vi siete sposati. Alla
fine ho trovato una piccola chiave, nascosta in fondo a un
cassetto. Apriva una cassetta di legno intarsiato. Conteneva un
nastro bianco di seta, un medaglione con l’immagine dei tuoi
genitori e delle foto. Alcune le conoscevo, altre non le avevo mai
viste. Una foto del vostro matrimonio, prima di tutto. Papà portava
capelli mossi con il ciuffo all’insù, mentre tu avevi l’abito
bianco. Dietro c’era scritto:
Chiesa del Sacro Cuore, 23 luglio 1961. Io sono nata nel
dicembre di quell’ anno. Perché non me ne hai mai parlato?
Ho scorso le altre foto. C’era una ragazza vestita da suora,
sorridente, tra i fiori d’un giardino. Eri tu, mamma. Eri così
bella, così giovane. A quel punto ho messo le due foto accanto. Il
confronto era stridente, sulle prime non ho capito più nulla. Ho
girato la foto, ho letto:
Noviziato di Bergamo, primi voti, settembre 1960. Fra
tutte le ipotesi, una mi è parsa più probabile.
Non mi stupisce che tu avessi l’intento di abbracciare la vita
religiosa. Hai condotto una vita ritirata, infatti, pregando a
qualunque ora del giorno; hai trascorso ore e ore in chiesa, ad
avvelenarti con l’odore stordente dei gigli e dell’incenso. Hai
avuto una sola figlia. Ora ne comprendo il motivo. Devi aver
incontrato papà mentre eri internata, al noviziato. È strano
immaginarti tanto innamorata di papà al punto di eludere la
sorveglianza e incontrarlo di nascosto. Forse avevate appuntamento
al parco e vi siete amati sotto gli alberi, in una notte di luna
piena, folli di desiderio e d’incoscienza. Mi piace pensare di
essere stata concepita per amore. Mi piace pensarti col vestito
sgualcito che rientri in istituto con la complicità di una tua
compagna.
Chissà come ti sentivi quando ti sei accorta che c’era
qualcosa di strano; chissà se ti sei confidata con qualcuno; chissà
se l’hai detto subito a papà. Certo, avrai dato la colpa
all’istinto, al sangue giovane che ti scorreva nelle vene. Avrai
chiesto perdono alla Madonna, che per la prima volta ti avrà
guardata impietosa e distante. E quale grande vergogna ti avrà
fatto abbassare la testa di fronte a tuo padre e tua madre nel dire
loro l’urgente novità che portavi – quei nonni che non ho mai
conosciuto perché ti cacciarono subito di casa –?
Adesso ti guardo con altri occhi, mamma. Ti sono grata per
avermi messa al mondo, ti sono grata per la vita che amo, per le
rose che non hai smesso di piantare, in giardino, per i vestiti che
hai cucito per me, per tutte le favole che mi hai letto. In realtà,
comincio a credere che tu abbia vissuto per espiare una colpa. Una
colpa che si materializzava davanti a te ogni volta che mi
svegliavo piangendo, ogni volta che mi attaccavi al seno, ogni
volta che tornavo da scuola, ogni volta che trovavi la mia bambola
rattoppata in qualche angolo della casa.
Agli occhi di papà, la bambina che ero rappresentava tanto una
ragione di vita quanto una consolazione. C’era una grande intesa
tra noi. Ricordo come il viso gli si inondò di lacrime il giorno in
cui presi il treno. Il suo sguardo si spostava da me al biglietto,
dal biglietto alla valigia, come se non potesse credere a quanto
stava accadendo. Quando invece tornavo, era felice. Si faceva il
bagno, si metteva il vestito della festa e poi si metteva a sedere
in giardino. Accendeva la pipa e fumava lentamente. Quando arrivavo
mi piaceva trovarlo lì. Mi abbracciava stretta, avvolgendomi con
l’odore di tabacco.
Io dov’ero, mamma? Dov’ero, quando papà saliva la scala di
legno fino all’ultimo piano, solo e dimenticato? Dov’ero mentre le
rose fiorivano e sfiorivano e tu tiravi su l’acqua dal pozzo
facendo stridere la carrucola arrugginita? Dove, quando sulle
colline nuovi grappoli dorati dal sole mi chiamavano per essere
colti? O quando ti toccò riporre in un baule i miei abitini troppo
stretti, insieme con la bambola di pezza?
Ero solo una bambina quando mi parlasti con dolcezza,
facendomi sedere di fronte a te e prendendomi le mani:
– Stai diventando grande.
– Quasi undici anni – l’insolito contatto delle tue mani mi
dava una sensazione di calore, di complicità, quasi.
– L’anno prossimo dovremo iscriverti alle medie. Dovrai andare
in città. A meno che...
– A meno che?
– No, è un’idea così... Pensavo che forse ti sarebbe piaciuto
studiare in collegio. Tutte le ragazze che escono di lì sono bene
educate, hanno un’istruzione eccellente. È un posto dove saresti al
sicuro...
– Io sto bene anche qui.
– Non sai quanti pericoli ci sono per una ragazzina della tua
età. Certo, ci costerebbe qualche sacrificio in più, ma saremmo
contenti per te...
Potevo dirti di no? In quel momento l’ultima cosa che avrei
voluto era deludervi: – Va bene, farò così. Che papà fosse
all’oscuro delle tue macchinazioni lo scoprii quella sera stessa,
quando gli annunciai l’intenzione di entrare in collegio. Lui parve
cadere dalle nuvole: – È uno scherzo? – disse, interrogandoti con
gli occhi sgranati.
Da quel giorno il tuo atteggiamento cambiò. Diventasti più
attenta, più affabile. Eri orgogliosa non della persona che ero, ma
di ciò che le suore avrebbero fatto di me: una ragazza giudiziosa,
devota, umile. Mi mettesti al collo un crocefisso, chiedendomi di
averne cura e di non separarmene. Non sapevo della tua segreta
intenzione di avviarmi a quella vita religiosa alla quale avevi
rinunciato. Speravi che prima o poi avrei sentito la vocazione,
oppure tutte quelle attenzioni erano un tentativo – per quanto
inconsapevole - di dare un senso alla tua esistenza?
Il giorno del mio ingresso in collegio, c’era un grande
silenzio in quell’androne adibito a foresteria dove attendemmo la
superiora.
– Tu devi essere la ragazza nuova – disse venendoci incontro.
– Sì, madre, è mia figlia. È di buon carattere. Spero che non
le dia problemi.
– Signora, qui problemi non ce ne sono, non ce ne sono mai
stati. Abbiamo delle regole che qualcuno ritiene sorpassate, ma che
hanno permesso a tante giovani di formarsi alla vita adulta – Avrei
dovuto dire qualche cosa, finché ero in tempo.