Capitolo 1
Elisa saliva per il Largo affollato, facendosi strada tra le donne che chiacchieravano a voce alta e i garzoni che, incuranti dei rimproveri, si infilavano tra le loro gonne per sbrigare le proprie faccende. L’inverno scioglieva il suo gelo sotto il sole rinvigorito, e sulle giovani piante ai bordi della strada qualche gemma intimidita si affacciava a raccogliere quel piacevole tepore. Ormai la primavera era vicina e la lana avrebbe presto lasciato spazio alla leggerezza delle vesti estive.
Elisa teneva stretto il suo cesto, il cui contenuto era avvolto in un telo nero, e intanto pensava alle signore ricche che andavano a messa la domenica, ai loro vestiti, a quei bei cappelli. Pensava alle loro risate fuori nel sagrato, quando si fermavano a parlare con la sua padrona e le chiedevano della moda e dei suoi progetti futuri.
Lei stava sempre un passo indietro, in silenzio. Era la sua aiutante: un ruolo importante. Da quasi un anno faceva apprendistato nel laboratorio della signora Alba Mereu e la sua vita procedeva lenta e serena, dedicata a servire la padrona, a consegnarne i lavori e a sognare di sostituirla, da grande, proprio in quel mestiere.
Il Largo moriva nella grande piazza, dove coppie ben vestite prendevano il sole sedute sulle panchine. La luce del sole, catturata dai bicchieri di vetro poggiati sui tavolini dei caffè, si spandeva nell’aria in un arcobaleno tremolante.
Elisa si incamminò per la via Manno. Quando giunse alla piazza della Costituzione salì ancora per il viale Regina Elena e lì terminò il suo viaggio. Stava davanti a un imponente cancello di ferro battuto. Al di là di esso, una villa dalle pareti bianche, i cornicioni color ocra e gli infissi di legno lucidato, che al sole sembravano accendersi come fuochi.
Elisa conosceva già quella casa. Si servivano spesso dalla sua padrona, specialmente la figlia del giudice, che aveva poco più di vent’anni e, quando usciva a passeggiare, si guardava attorno con interesse, decisa a sposare un partito che le garantisse la stessa vita agiata nella quale era cresciuta. Una vita che Elisa non riusciva neppure a immaginare. Non solo perché, provenendo dal paese, non aveva conosciuto la vera ricchezza prima di arrivare in città, ma soprattutto perché la povertà era nel sangue e, “ se nasci servo, non puoi alzare la testa e sognare un giorno di diventare padrone” , le diceva sempre sua madre.
Eppure le sarebbe bastato semplicemente lavorare per la signora Alba e, da grande, chiacchierare con le signore, come faceva lei. La sua padrona dettava la moda tra quelle donne imbellettate ed eleganti, e loro la ascoltavano, come ipnotizzate, quando le si avvicinavano per chiederle consigli su come acconciare i capelli e che abito abbinare al loro cappellino per andare al teatro Politeama.
Elisa bussò e una domestica poco più grande di lei venne ad aprire.
La accompagnò all’ingresso, prese in consegna il lavoro e salì le scale, sparendo oltre il corridoio. La signorina avrebbe esaminato il cappellino nella sua stanza e, se le fosse piaciuto, la domestica sarebbe scesa con il compenso pattuito.
Pochi minuti dopo, la ragazza tornò.
Sorridendo, le consegnò la sua paga e la accompagnò al cancello.
«La signorina Violetta dice che il lavoro della tua padrona è ben fatto. La prossima settimana verrà nella sua bottega per scegliere degli altri modelli».
Elisa ricambiò il suo sorriso.
«La mia padrona è al vostro servizio. Addio».
La bottega della signora Alba si trovava nel cuore della Marina, poco distante da piazzetta Savoia. Elisa scese da via Manno per i vicoli stretti, dove le case si affacciavano le une sulle altre e sembravano toccarsi, crogiolandosi nella musica di voci e suoni che sommergevano il quartiere. Donne indaffarate si affacciavano alle finestre lunghe e sottili, cantando o scambiandosi chiacchiere, mentre i bambini si dividevano tra chi si rincorreva in strada a giocare e chi invece, ormai ritenuto adulto, sbrigava faccende di ogni tipo.
Elisa era tra questi, ma il lavoro non le pesava.
Sapeva che, se si fosse impegnata sempre così tanto, quel laboratorio sarebbe diventato il suo futuro. A volte ripensava al paese e alla sua famiglia. Le capitava la notte, prima di dormire, o la domenica quando andava a messa, mentre stava inginocchiata dopo aver preso la Comunione. E in quei momenti aveva sempre in testa le parole della madre, gravi e definitive: “ Siamo poveri, e tali rimarremo per sempre. La nostra condizione non potrà mai essere cambiata” .
E invece no. Lei non avrebbe fatto la serva tutta la vita, come tutti loro in paese. La signora Alba la trattava come una figlia, e aveva per lei grandi progetti. Un giorno, al posto dei vestiti un po’ consunti che portava in quel momento, ci sarebbero stati quei begli abiti che la modista indossava la domenica per intrecciare quelle che chiamava “relazioni sociali”.
Elisa sorrideva mentre la strada si snodava sotto i suoi piedi.
Davanti agli occhi uno scorcio di mare azzurro brillava tra le case.
La signora Alba era una bella donna di quarant’anni, il viso tondo e i capelli mogano legati sempre sulla nuca in una crocchia morbida. Aveva occhi dolci, verdi d’estate e nocciola d’inverno, e una bocca piccola, a cuore. Era comodamente seduta su una seggiola nella sua bottega, sul grembo un cappellino e tra le mani un nastro rosso di velluto. Canticchiava sottovoce una ballata, e ogni tanto sollevava una mano per allontanare una ciocca sfuggita dalla crocchia.
Elisa entrò e questa, alzando gli occhi, l’accolse con un sorriso.
«Ecco i soldi. La signorina Violetta ha detto che il vostro lavoro è stato eccellente».
La donna annuì e si alzò per conservare il compenso.
Nel frattempo, Elisa si era messa ad armeggiare con il cappellino da terminare.
«Cos’altro posso fare per voi?» le chiese.
Alba le sfilò gentilmente il cappellino e si sedette, riprendendo il suo lavoro. Senza distogliere lo sguardo, le indicò un’altra cesta coperta da un telo nero.
«C’è una consegna da fare in viale Luigi Merello, Elisa. Per la moglie di dottor Sulis».
La bambina non se lo fece ripetere due volte: prese la cesta e scomparve nel vicolo.
Attraversò il Corso, che si snodava, come fosse un serpente, da piazza Yenne fino all’inizio di viale Merello. Anche lì, come nella Marina, le case stavano le une affacciate sulle altre e, allo stesso modo, la strada non era di molto più larga. Tuttavia, il quartiere era cambiato.
La padrona lo chiamava Stampaxi quando chiacchierava con le altre signore.
Le case erano più ricche rispetto a quelle della Marina, ma sbiadivano poi a confronto con le eleganti ville di viale Merello. Elisa risalì lungo la strada che s’inoltrava nell’ombra debole di una fila infinita di alberi giovani e poco folti: le case erano ville come quelle del viale Regina Elena, ma più distanti le une dalle altre, circondate alcune da enormi giardini, e a tratti separate da terreni incolti. Giunse, infine, a destinazione.
Una bella costruzione verde chiaro sembrava mischiarsi alle fronde degli alberi del giardino. Anche lì, il suo lavoro fu molto apprezzato.
La signora Sulis la accolse di persona e le consegnò sorridendo il compenso. Poi le accarezzò i lunghi capelli neri e le disse di portare i saluti alla sua padrona.
Elisa sorrideva sempre, annuiva e poi si congedava con una riverenza.
Tornò quando ormai era ora di pranzo.
La signora Alba aveva apparecchiato la tavola nel suo laboratorio e l’aspettava.
Lo faceva sempre, più per avere compagnia che non per non far sentire sola la bambina ma, alla fine, il risultato non cambiava di molto.
Anche se faticava ad ammetterlo, si stava affezionando a Elisa.
Purtroppo, però, sapeva che prima o poi gliel’avrebbero portata via. Era troppo modaiolo, troppo superficiale il lavoro che faceva. Troppo poco serio. Gli occhi della madre di Elisa avevano parlato molto chiaramente quell’unica volta che si erano incontrate. Occhi di brace, labbra tirate come fili di una scarpa rotta che a fatica riesce a mantenersi integra. Non c’era una sola briciola di dolcezza in lei.
Elisa entrò sorridendo nella bottega e si sedette a tavola.
«La signora Sulis vi manda i suoi saluti» le disse, afferrando una fetta di pane.
La modista annuì, masticando lentamente.
Poi sorseggiò il vino rosso che le aveva regalato il giorno prima la vedova Sanna.
«Stasera mi aiuterai a realizzare due modelli» esclamò a un tratto.
Elisa si bloccò all’istante. La fissò, il pane in una mano e il bicchiere di vino nell’altra, senza parole. Solo dopo alcuni secondi si ricordò di respirare e mandare giù il boccone.
«Davvero? – le chiese, incredula – Me lo permettete?».
La signora Alba sorrise, allungando una mano ad asciugarle una goccia di vino che le aveva macchiato il mento, poi riprese a mangiare, come se niente fosse.
La bambina lasciò cadere il pane e poggiò il bicchiere sulla tovaglia. Poi ricambiò quel sorriso complice e restò così, immobile, finché la donna non finì di mangiare e la condusse agli scanni per cominciare a lavorare.
La sera passò veloce come mai prima.
Al tramonto, la signora Alba accese le lampade a olio, ma le dispose lontane dalla paglia perché aveva paura che una folata di vento potesse scatenare un incendio.
Elisa non aveva alzato un attimo gli occhi dal suo lavoro. Era come se, in tutto quell’anno, avesse assorbito ogni segreto che rendeva così speciali i cappellini della modista e ora volesse dimostrarle quanto era brava.
Erano ovviamente pensieri ingenui di bambina, ma la signora Alba apprezzò molto il suo impegno, anche quando, nonostante l’ora tarda, non osò lamentarsi né per la fame né per la stanchezza. Fu lei a doverle dire di smettere, e quando Elisa sollevò il viso i suoi occhi erano rossi e grandi di fatica, ma le labbra sorridevano di una felicità che non le aveva mai visto prima addosso.
Venne la domenica ed Elisa accompagnò la signora Alba a messa, nella chiesa dei SS. Giorgio e Caterina, che si affacciava nell’antica via Manno. Decine di signori e signore della buona società si erano già radunati davanti all’imponente portone dalle colonne avvitate verso il cielo, e il chiacchiericcio si levava vivace nell’aria leggera del quartiere a riposo.
La signora Alba camminava, lenta e solenne.
Era vestita di un abito nero, stretto in vita e gonfio sui fianchi. Sulle spalle uno scialle nero ricamato di fiori rossi e gialli, chiuso sul petto da una preziosa spilla bagnata d’oro. Sulla testa, una veletta dello stesso colore a coprire i suoi bei capelli color autunno. Sui fianchi le sottili mani bianche sembravano luce contro il nero della gonna.
Elisa la seguiva a pochi passi, felice nel suo abito liso ma pulito.
Per l’occasione, anche a lei era concesso di sfoggiare una candida veletta sul capo, che la inorgogliva come avesse avuto una corona.
La sua padrona passò davanti a un gruppo di ricchi signori e li salutò con un cenno del capo e un sorriso, che essi ricambiarono con uno sguardo di rispetto e ammirazione, mentre le signore attorno le facevano segno di aspettarle alla fine della messa per chiacchierare un po’ di moda e pettegolezzi. E così, come promesso, dopo la funzione, Alba divenne il centro di un gruppo di ciarliere signore che ridevano e si rinfrescavano con enormi ventagli.
Le donne si spostavano poi di solito all’Antico Caffè. Sedute ai tavolini, si perdevano in lunghe conversazioni sulla moda, gli stili e le stoffe, mentre Elisa restava alle spalle della sua padrona, impettita e in silenzio.
Quel giorno, quando il cameriere arrivò con le tazze di caffè d’orzo, una delle signore più giovani fece cenno a Elisa di sedersi.
«Per favore, porti un bicchiere d’acqua alla bambina» ordinò al cameriere, poi tornò a fissarla: «Come ti chiami? Quanti anni hai?».
Elisa si sentì tutt‘a un tratto importante.
«Sono Elisa Sanna, signora. Ho undici anni».
La donna, sventolando i lunghi capelli neri arricciati col ferro, si sporse verso di lei.
«Mi hanno detto che sei molto intelligente. – esclamò – Vero, signora Alba? La moglie del dottor Sulis mi ha raccontato l’altro giorno che la vostra apprendista non solo svolge i lavori manuali, ma è anche molto brava nello studio».
La modista sorrise, facendo cenno di sì con la testa, mentre le altre signore ridevano.
«Oh, sì! – le rispose Elisa, entusiasta di ricevere quelle attenzioni – Conosco molte poesie. E sono molto brava a recitarle!».
La donna rise della sua ingenuità.
«Bene, allora se mi reciti una poesia a memoria ti regalerò una cioccolata».