Capitolo IV

1649 Words
Capitolo IV Ned Land Il comandante Farragut era un ottimo marinaio, degno della nave che comandava e di cui era l’anima. Nessun dubbio lo sfiorava per ciò che riguardava l’esistenza del cetaceo e non permetteva che a bordo si discutesse sull’argomento. Ne era convinto così come certe contadine credono nell’esistenza delle streghe, per fede, cioè, non per ragionamento. Il mostro esisteva ed egli l’avrebbe ucciso per liberarne i mari: l’aveva giurato. Si sentiva come una specie di cavaliere che va a battersi con un terribile drago. O il comandante Farragut avrebbe ammazzato il narvalo o il narvalo avrebbe ammazzato il comandante Farragut: non c’era altra scelta. Gli ufficiali di bordo erano tutti dell’opinione del comandante. Era uno spasso sentirli parlare, discutere, calcolare quali fossero le possibilità di incontrare il mostro, le migliori condizioni per avvistarlo nella vasta distesa dell’oceano. Più di uno si sottoponeva volontariamente a un turno di guardia straordinario sulle crocette dell’albero di maestra, mansione che avrebbero stramaledetto in qualsiasi altra occasione. Fino a che il sole percorreva il suo arco sull’orizzonte, tutta l’alberatura formicolava di marinai ai quali sembrava che le tavole del ponte bruciassero sotto i piedi. Eppure l’“Abraham Lincoln” non fendeva ancora con la prora le insidiose acque del Pacifico. L’equipaggio non chiedeva di meglio che incontrare il narvalo, arpionarlo, issarlo a bordo e farlo a pezzi. Tutti scrutavano il mare con attenzione scrupolosa, tanto più che il comandante Farragut aveva accennato a un paio di migliaia di dollari riservati a chiunque, ufficiale, marinaio o mozzo, avesse avvistato l’animale. Naturalmente anch’io tenevo gli occhi ben aperti e non permettevo a nessuno di sostituirmi durante i miei turni di vedetta. Unico tra tutti Conseil, con la solita indifferenza, sembrava trascurare il problema che tanto ci appassionava, stonando nell’eccitata atmosfera di bordo. Il comandante Farragut aveva provveduto veramente ad attrezzare la nave di tutti gli strumenti adatti alla cattura del cetaceo. A bordo c’erano arnesi di ogni genere: dall’arpione a mano alle frecce uncinate, ai proiettili esplosivi delle spingarde. A prua faceva bella mostra di sé un cannone. Era di fabbricazione americana e poteva lanciare un proiettile conico di quattro chili fino a sedici chilometri di distanza. Sull’“Abraham Lincoln” non mancavano certo le armi per la distruzione del mostro. Ma c’era ancora di meglio: Ned Land, il re dei fiocinieri. Ned Land era un canadese di eccezionale bravura che non aveva rivali nel suo pericoloso mestiere. Prontezza di riflessi e sangue freddo, audacia e astuzia erano le qualità che lo distinguevano e soltanto una balena enormemente scaltra o un capodoglio straordinariamente abile avrebbero potuto sfuggire alla sua fiocina. Ned Land era sulla quarantina, alto oltre un metro e novanta, solidamente costruito; era poco comunicativo, qualche volta violento e facile alla collera quando veniva contrariato. Il comandante Farragut aveva avuto buon fiuto nell’ingaggiarlo nel proprio equipaggio: per la sua mira e la sua forza valeva da solo il resto della ciurma. Non saprei descriverlo meglio che paragonandolo a un incrocio fra un telescopio e un cannone costantemente carico. Chi dice canadese dice francese. E per quanto poco comunicativo fosse, devo riconoscere che Ned Land mi dimostrò immediatamente una certa simpatia. Sono certo che era la mia nazionalità a distinguermi ai suoi occhi. Per lui era una buona occasione di parlare e per me di ascoltare la lingua che è ancora usata in alcune province canadesi. La sua famiglia era originaria di Quebec e costituiva già una stirpe di coraggiosi pescatori all’epoca in cui la città apparteneva alla Francia. A poco a poco, Ned Land prese un certo gusto a parlare e a me piaceva ascoltare il racconto delle sue avventure nei mari polari. Mi narrava le sue spedizioni di caccia e le sue lotte in una forma semplice e poetica. Mi soffermo su questo coraggioso compagno così come lo conosco ora, poiché siamo diventati veramente amici, uniti da quel legame indistruttibile che nasce e si rafforza nei momenti più difficili. Caro Ned! Vorrei vivere ancora cent’anni per potermi ricordare più a lungo di te! Ma qual’era l’opinione di Ned Land in merito al mostro? Devo confessare che egli non ci credeva affatto e che era il solo a bordo ad avere un’opinione diversa dalla convinzione generale, tanto che evitava perfino di trattare l’argomento. Nella splendida serata del 30 luglio, più di tre settimane dopo la nostra partenza, la fregata si trovava all’altezza di Capo Blanc, a trenta miglia dalle coste della Patagonia. Avevamo sorpassato il Tropico del Capricorno e ci avvicinavamo allo Stretto di Magellano: entro una settimana l’“Abraham Lincoln” sarebbe penetrata nel Pacifico. Seduti sul cassero io e Ned Land parlavamo del più e del meno, quando il discorso cadde sui misteri racchiusi nelle profondità dell’oceano e che mai occhio umano aveva potuto sondare. Di lì al narvalo gigante il passo fu breve e io accennai alcune ipotesi sulle possibilità di successo o di insuccesso della nostra spedizione. Poi, notando che Ned mi lasciava parlare senza fare commenti, lo stuzzicai direttamente. - Perché, Ned, avete l’aria di non credere all’esistenza del cetaceo che stiamo cercando? - gli chiesi. - Avete qualche ragione particolare per dubitarne? Il fiociniere mi fissò per alcuni istanti prima di rispondermi, poi, con un gesto che gli era consueto, si batté la fronte con la mano e socchiudendo gli occhi, rispose: - Può darsi, signor Aronnax. - Non vi capisco proprio - dissi. - Siete un baleniere di professione, perciò abituato ai grandi mammiferi marini. Dovrebbe riuscirvi facile immaginare questo cetaceo enorme e accettare l’ipotesi che esista. Secondo me dovreste essere l’ultimo a mettere in dubbio l’esistenza di un narvalo gigante. - Ecco dove vi sbagliate, professore - ribatté Ned. - Che il profano possa attribuire poteri straordinari alle comete si può capire, ma non è ammissibile che vi credano l’astronomo e il geologo. Ciò vale anche per i balenieri. Ho cacciato una quantità di cetacei, ne ho arpionati e uccisi un gran numero, ma, per quanto grossi e combattivi fossero, né le loro code né i loro denti avrebbero potuto sfondare o intaccare le lastre di ferro di un piroscafo. - Eppure sapete che alcuni bastimenti sono stati trapassati da parte a parte dal narvalo. - Navi di legno, chissà, potrebbe anche essere. Però io non ho mai visto niente di simile e fino a prova contraria nego che le balene, i capodogli o altri cetacei possano causare danni di tale portata. - Sentite Ned... - No, professore, no. Tutto quello che volete eccetto questo. Non potrebbe essere un polpo gigantesco? - E’ ancora meno verosimile. Il polpo non è che un mollusco e il nome stesso di questa specie sta a indicare la poca consistenza della loro carne. Quand’anche fosse lungo duecento metri, il polpo, che non appartiene alla famiglia dei vertebrati, sarebbe del tutto inoffensivo contro navi quali la “Scotia” o l’“Abraham Lincoln”. Per forza di cose bisogna rigettare nel mondo delle leggende le prodezze delle piovre o di altri mostri di questo genere. - Allora, signor naturalista - riprese Ned Land con un tono abbastanza malizioso - persistete a credere nell’esistenza di un enorme cetaceo? - Sì, Ned, e lo ripeto con una convinzione che si appoggia sulla logica dei fatti. Credo nell’esistenza di un mammifero con un organismo possente, appartenente alla famiglia dei vertebrati come le balene, i capodogli e i delfini, e munito di un dente corneo e con una capacità di perforazione assolutamente formidabile. - Sarà - disse il ramponiere scotendo la testa, per nulla persuaso. - Tenete presente - ripresi - che se un animale con simili caratteristiche esiste, se abita nelle profondità marine, se scende nelle cavità dell’oceano che si sprofondano a parecchie miglia dalla superficie dell’acqua, per forza di cose deve avere un organismo la cui solidità sorpassi ogni immaginazione. - Perché? - Perché è necessaria una forza incalcolabile per vivere nelle profondità dell’acqua e resistere alla sua pressione. - Davvero? - fece Ned ammiccando. - Davvero, caro il mio ramponiere. A provarlo bastano alcune cifre. - Oh, le cifre! - ribatté Ned sprezzante. - Si fa quel che si vuole con le cifre. - Sì, negli affari, ma non in matematica. Supponiamo che la pressione di un’atmosfera sia rappresentata dalla pressione di una colonna d’acqua alta circa dieci metri, anche se in realtà la colonna di acqua dovrebbe essere minore, trattandosi di acqua marina che ha una densità superiore a quella dolce. Quando voi vi tuffate, quante volte mettete sopra di voi dieci metri d’acqua, tante il vostro corpo sopporta una pressione uguale a quella di una atmosfera, più di un chilogrammo per ogni centimetro quadrato della sua superficie. A quasi cento metri questa pressione è di dieci atmosfere e di cento atmosfere a circa mille metri. Sapreste dirmi quanti centimetri quadrati misura la vostra pelle? - Non ne ho la minima idea, professore. - Circa diciassettemila. - Accidenti! - E poiché la pressione atmosferica supera il chilogrammo per centimetro quadrato, i vostri diciassettemila centimetri quadrati sopportano una pressione di oltre diciassettemila chilogrammi. - E io neanche me ne accorgo. - Non potreste accorgervene. E se non venite schiacciato da tale pressione è perché l’aria penetra nel vostro corpo con una pressione uguale. Ma in acqua è un altro paio di maniche. - Ora capisco - disse Ned che si era fatto più attento. - E’ perché l’acqua mi circonda e non penetra dentro di me. - Proprio così. Pensate dunque quale pressione dovreste sopportare se scendeste a una profondità di mille metri: quasi un milione e ottocentomila chilogrammi. Insomma, sareste schiacciato come se vi trovaste sotto un torchio idraulico. - Eh, caspita! - Ora, amico mio, un vertebrato lungo molte centinaia di metri e grosso in proporzione, e quindi con una superficie di milioni di centimetri quadrati, scendendo in profondità dovrà sopportare una pressione calcolabile solo in miliardi di chilogrammi. Potete quindi immaginare quale debba essere la mole della sua ossatura e la potenza del suo organismo. - Dovrebbe essere rivestito di lamine d’acciaio spesse trenta centimetri come le navi corazzate - disse il canadese. - Esattamente, Ned, e potete ben immaginare che razza di danni può produrre una simile massa lanciata con la velocità di un treno contro la chiglia di una nave. - Certo... sì, può essere - rispose il canadese, un po’ scosso dalle cifre. Ma non siete ancora convinto? - Solo di un dato, signor naturalista: che per vivere sul fondo marino un animale dovrebbe possedere la forza straordinaria che voi dite. Ma se non esistesse, ramponiere cocciuto, come si spiegherebbe il fatto capitato alla “Scotia”? - Potrebbe anche essere... - Be’? - Una frottola, ecco - concluse il testardo canadese.
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