Eppure Bianca, giacchè era lei, non conosceva l’assassino di Giulietta! Ma quel giovane pallido, di aspetto quasi femmineo, le ricordò vagamente suo marito.
L’assassino, dal canto suo, sussultò alla vista di quella signora nella quale riconobbe il domino di quella notte funesta in cui aveva naufragato tutta la sua felicità.
Bianca entrò nel gabinetto del giudice istruttore. Egli le andò incontro coi segni del più profondo rispetto.
– Desiderate parlarmi? Posso esservi utile in qualche cosa, contessa Rossano?
– Non contessa Rossano; – rispose Bianca con voce debole, ma ferma – sibbene la sorella di Aldo, il domino misterioso che si trovò presente alla morte della povera Giulietta assassinata! –
VIII.
Il conte Livio Rossano era stato colpito come da una mazzata sul capo per la scenata della moglie.
Entrando nel proprio appartamento, stringeva ancora fra le dita convulse la lettera di Cinzia, Ah! se avesse avuto in quel momento l’amante nelle mani!
Era irritato anche con la cameriera, ben supponendo che costei avesse trovato il biglietto e lo avesse consegnato alla contessa.
– Quella pettegola mi ha sempre veduto di mal occhio! – pensava. – Le torcerei volentieri il collo.... Capisco che per Bianca quella lettera era crudele; ma credevo che tutto si sarebbe risolto con una crisi di lacrime; invece mi ha detto che le fo nausea! Basta, il meglio che io possa fare è di fingere un pentimento sincero, finchè lei stessa, commossa, mi stenda la mano. La sua collera non può durare, mi ama troppo! –
Questo pensiero lo calmò.
Non era la prima volta che il conte si trovava mischiato a drammi intimi, e sempre ne era uscito serenamente, grazie alla sua ipocrisia.
Un commediante non avrebbe saputo fingere meglio l’emozione, il dolore, la passione, mentre nel suo interno rimaneva impassibile.
Quando Livio Rossano aveva raccontato a Bianca la sua dolorosa storia, non aveva detto una sola parola vera. Egli assomigliava a sua madre morta, una donna bellissima, la quale ingannò il marito fino all’ultimo istante, senza che il disgraziato se ne accorgesse mai.
Il conte Sebastiano Rossano, padre di Livio, era stato un galantuomo in tutta l’estensione del termine, un galantuomo che la moglie e poi il figlio sfruttarono fino alla morte.
In passato la famiglia Rossano era stata potentissima, ricca; ma, come tante altre nobili famiglie piemontesi, aveva consumato quasi tutto il suo patrimonio per la redenzione della patria.
Onde, colla sostanza esigua rimasta, il conte Sebastiano non avrebbe potuto vivere; ma, impegnato il suo piccolo capitale negli affari, ebbe tale fortuna, che in pochi anni riuscì ad ammassare un discreto patrimonio, e, se il figlio fosse stato come lui laborioso, le ricchezze di un tempo sarebbero rientrate nella casa.
Ma Livio voleva godersi la vita, e, se pianse alla morte della madre, non versò una sola lacrima quando gli mancò il padre.
Libero di sè, si diede allo più pazze orge, alle più volgari avventure e ne uscì in completa rovina.
Fu in quel frattempo che, invitato dal marchese di Passiflora, sentì parlare della bellezza di Bianca e dei suoi milioni.
Questi soprattutto gli ispirarono il desiderio di conquistare la giovane. E vi riuscì.
Solamente il padre di Bianca, diffidando di Livio, stabilì nel contratto di matrimonio che la dote di Bianca fosse inalienabile, che il marito non potesse toccare la minima parte del capitale senza il consenso della moglie.
Livio non fece opposizione, perchè sicuro dell’amore di Bianca aveva la certezza di piegarla ad ogni suo volere. Ma dopo l’accaduto pensò che se per sua colpa avveniva una separazione, perderebbe tutti i beni dotali.
Livio provò un fremito di collera e di paura al tempo stesso a questo pensiero.
Egli ormai non avrebbe più potuto rinunciare alla vita splendida che conduceva.
Inoltre, se il conte non amava sua moglie, andava orgoglioso della bellezza di lei e ambiva a possederla.
All’ora della colazione Livio passò nella saletta dove egli e Bianca erano soliti prendere i pasti, quando si trovavano soli.
Era una saletta elegantissima, munita di tutto il confortabile, calda e profumata.
Ma al primo entrare, vide una sola posata sulla tavola apparecchiata.
Aggrottò le sopracciglia, ma vedendo entrar Celia, assunse un’espresione melanconica e domandò: – Mia moglie non viene a colazione?
– La signora contessa – rispose Celia – è uscita. Ora suonerò, perchè lei sia servito.
– Un momento, – soggiunse Livio. – Vorrei prima parlare con voi. Per colpa vostra mia moglie è in collera con me. Sono sicuro che voi stessa le consegnaste la lettera trovata nella mia tasca.
– Sapevo forse che cosa fosse scritto in quel foglio? – disse Celia. – Credevo si trattasse semplicemente di un conto. Quantunque io la sappia lunga sul conto suo, caro signore, e conosca molti suoi intrighi, non lo avrei mai denunziato alla signora, non per riguardo a lei, ma alla contessa. –
Livio trasalì. Tuttavia chiese:
– Che sapete? Sentiamo.
– Non ho bisogno di dirglielo; interroghi la sua coscienza.
– La mia coscienza di nulla mi rimprovera: io sono vittima di calunnie! –
Celia sbuffava.
– La lascio, perchè ne direi troppe e non ho tempo da perdere con lei. –
E suonando il campanello elettrico, disse al domestico accorso:
– Servite il signor conte: la contessa tornerà più tardi. –
Essa uscì dalla saletta lasciando Livio in preda ad una terribile agitazione.
– Che può sapere costei? – pensava, – Avrei paura, adesso, io, che non ho mai saputo che sia timore? Celia me la pagherà! Ma non bisogna commettere imprudenze. –
Dopo colazione, il conte indossò il soprabito, i guanti, prese il cappello ed uscì.
In istrada consultò l’orologio.
– Il tocco! – mormorò. – Se andassi da Fabio? A quest’ora deve trovarsi a casa! –
Si recò in via Garibaldi, entrò in un portone, e senza fermarsi in portineria, salì le scale fino al quarto piano. Bussò ad una porta, su cui era incollato un biglietto da visita col nome di Fabio Ribera.
Bussò due volte senza averne risposta. Livio fece un gesto di malumore.
– Sarà andato dalla sua bella! – pensò, ridiscendendo le scale, – È strano che non mi abbia fatto saper nulla, come eravamo intesi. Se mi recassi da Ilda? Ma no, è meglio che ci vada stasera; sarò più sicuro di trovarli insieme. –
Entrò in un caffè, dove chiese una bibita ed i giornali. Ne spiegò uno per passare il tempo e ad un tratto divenne pallido come un cadavere.
Leggeva le seguenti righe:
«Nulla ancora si è scoperto circa l’assassinio di Giulietta Lovera. L’uomo mascherato da pierrot, arrestato sul luogo la sera del giovedì grasso, il presunto assassino, si mantiene negativo ed ancora non si è potuto sapere il suo nome. Si dice che siano stati fatti altri arresti, ma per ora ci è duopo mantenere il silenzio onde non intralciare l’opera della giustizia.»
Il conte chiamò il cameriere, cui disse:
– Vorrei i numeri arretrati di questo giornale! – Un momento dopo il cameriere tornava con un fascio di giornali.
Il conte cercò fra essi il numero del venerdì grasso e vi trovò tutti i ragguagli dell’assassinio.
Il foglio tremava nelle sue mani.
– Ed io non ho saputo nulla! – mormorò. – Ma come potevo credere Fabio capace di tanto? E si è fatto arrestare? Adesso è finita.... non potrà negare a lungo.... si saprà il suo nome, e non se la caverà con poco. –
Sembrava che quest’ultimo pensiero lo sollevasse, gli rendesse la calma.
Quand’ebbe finito di leggere, chiese un altro caffè.
– Bisogna che stasera vada da Ilda; – disse – da lei saprò tutto. –
Tuttavia tornò al palazzo verso sera. La contessa era a casa, e quando si trovò a pranzo di fronte a lei gli parve di non averla mai veduta più bella.
Infatti, Bianca aveva il volto animato, gli occhi brillanti, un fascino nuovo in tutta la persona.
Anche Celia, che serviva a tavola, sembrava contenta.
Livio invece si sentiva turbato e socchiudeva gli occhi per meglio guardare sua moglie; notò che questa non si curava affatto di lui e mangiava con appetito.
Quando la tavola fu sparecchiata e Celia si ritirò, il conte, avvicinatosi a Bianca, con voce tenera le disse:
– Siete sempre in collera con me?
– Non dimentico! – rispose Bianca con fierezza. – Credevo che, dopo le vostre parole, non avreste più tentato un inutile avvicinamento. Ma giacchè mi sono ingannata, vi dirò come intendo di regolare d’ora innanzi la mia vita, a meno che preferiate una separazione....
– Separarmi da voi, Bianca? Non è possibile –
Ella rimase impassibile, ma gli occhi che si fissavano su Livio avevano un’espressione strana, che lo spaventarono.
«– Ciò avverrà, – dichiarò risoluta – se continuerete la parte ipocrita rappresentata fino ad ora. Alle corte, ecco ciò che ho deciso: voi sarete libero come se fossimo separati, pur continuando a godere le rendite che aveste finora, padronissimo di mantenere delle amanti qui od altrove, purchè rispettiate il tetto coniugale.
– Bianca! –
Ella proseguì:
– Dal canto mio non avrò più nulla di comune con voi; se ci troveremo all’ora dei pasti, li faremo insieme come due estranei che s’incontrano in un albergo, serviti da Celia, la sola che sia a parte di ciò che avviene fra noi. –
La fisionomia di Livio aveva assunto un’espressione tetra.
– Accetto – diss’egli – perchè spero col tempo di farvi ricredere sul conto mio e di riacquistare quell’amore che senza colpa ho perduto. –
Bianca non aggiunse altro e lasciò la stanza.
Livio impallidì dalla collera, ma non tardò a rimettersi.
– Al diavolo anche lei! – mormorò. – Alla fin fine che m’importa! Che io possa conquistare Ilda, e non rimpiangerò mia moglie! –
Ormai sicuro che le rendite non gli sarebbero sfuggite, riacquistò tutta la sua baldanza ed uscì per recarsi dalla fidanzata di Fabio.
Ilda abitava in un modesto appartamento a un quinto piano di via Santa Teresa. Era sola con sua madre, una vecchia infermiccia, che viveva di una piccola rendita lasciatale da una padrona presso la quale era stata a servizio per più di quarant’anni. Suo marito era stato cocchiere della stessa casa. Avevano avuto quell’unica figlia, che formava ormai tutto il tesoro della povera vecchia, la quale non aveva sperato, maritandosi a quarantadue anni, di diventare madre. Il padre di Ilda era morto quando la fanciulla compiva i sette anni, e la padrona consigliò la madre di mettere la figlia in un collegio di monache, finchè fosse in età di guadagnarsi la vita. La donna seguì il consiglio; ed Ilda rimase per oltre otto anni in collegio. Quando ne uscì, abile in tutti i lavori, trovò subito da occuparsi. Ma il guadagno era esiguo, per cui accettò un posto di commessa in un elegante magazzino di mode, e lavorò a casa la sera, accanto alla madre.
Ilda era una bellissima giovinetta.
Slanciata, elegante anche nel suo vestitino da pochi soldi, aveva una di quelle fisionomie che destano simpatia al primo vederle. Pallida, bruna, con gli occhi verde mare, aveva alcun che d’ardito e d’intelligente.
Ilda amò Fabio teneramente. Non era bello, ma aveva un fascino sulla buona fanciulla.
Fabio le aveva raccontato la sua semplice storia.
Non aveva conosciuto i genitori. Una nobile dama si prese cura di lui, lo fece allevare, e venuta a morte quando egli compiva i dieci anni, un figlio di lei l’aveva surrogata in quell’opera di carità. Quell’uomo generoso lo aveva fatto studiare, per metterlo in grado di guadagnarsi la vita. Fabio non aveva avuto fino allora altro affetto che quello del gentiluomo, il quale lo trattava come un fratello e per il quale avrebbe dato a goccia a goccia tutto il suo sangue.
Egli volle presentare ad Ilda il suo benefattore, che si mostrò con lei molto gentile, approvò la scelta di Fabio e promise di mobiliare a sue spese il quartiere per gli sposi.
Ilda, commossa, lo ringraziò, ma quando, sola col fidanzato, questi le chiese quale impressione avesse avuto del suo benefattore, la giovane rispose:
– Vuoi che te lo dica, Fabio? Se non sapessi che ha soltanto dodici anni più di te, lo direi tuo padre. Egli ti assomiglia molto. Avete eguale anche il colore degli occhi; ma il suo sguardo non è il tuo, non mi piace....
– Di’ la verità: non ti è rimasto molto simpatico?
– No, ma devi perdonarmi. Vi sono persone che non piacciono a prima vista, e che, frequentandole, si finisce con l’amarle.
– Hai ragione, Ilda mia, e vedrai che, conoscendo meglio il conte, lo adorerai, perchè è un cuor d’oro, un’anima elevata.
– Ne sono persuasa. Ha moglie?
– Sì, – rispose Fabio – ma io non la conosco, perchè non mi sono mai recato a casa del conte. Egli si occupa di me, viene qualche volta a trovarmi, desidera che ricorra a lui in qualsiasi circostanza, ma vi è troppa distanza sociale fra noi, perchè io frequenti la sua casa. Anzi, ti prego di non parlare del conte a nessuno. A te ho voluto dir tutto, a te ho voluto presentare il conte perchè voglio che tu sia a parte di tutti i segreti della mia vita, che tu mi conosca interamente, come ormai credo di conoscere te, unico mio amore! –