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2151 Words
«Ha ragione, mi dispiace. Non dovrei parlare di cose che mi ricordo a stento» disse Dee. «Ma ora dirà che la tratto anch’io con i guanti di velluto». Rutherford la guardò in silenzio per qualche secondo e lei sentì una specie di ondata calda correrle lungo la schiena. Per quale motivo doveva trovare quel tizio sexy? Durante un serio convegno, senza che lui facesse proprio niente di speciale? «Posso anche sopravvivere» concluse lui, con una mezza scrollata di spalle. +++ Prima di andare a cena si controllò di nuovo nello specchio dell’ascensore, che poi era l’unico specchio a figura intera che ci fosse al centro conferenze. Non era male, ma non era nemmeno al suo meglio. Dee aveva trentasei anni e un bel fisico sodo – questo giocava a suo vantaggio. Aveva un viso regolare, degli occhi verdi penetranti e dei capelli biondi tagliati corti – anche questo poteva andare. I capelli in quel momento erano tutti incasinati, gli occhi un po’ stanchi e il vestito grigio che indossava faceva sembrare il suo sedere più grosso di quanto fosse. Inoltre ai piedi aveva delle ballerine tutt’altro che sexy. D’altronde, veniva da un volo di otto ore dagli Stati Uniti... che diavolo pretendeva? Inoltre, si disse, probabilmente non c’era nessun motivo di preoccuparsi del proprio aspetto, visto che il film che si stava facendo su Rutherford quasi di sicuro era un film solo suo. Mentre aspettava nell’atrio che qualcuno dell’organizzazione la passasse a prendere, decise di essere molto cauta, già sapendo che la cautela non era la sua dote più sviluppata. Sorprendentemente, anche Hector Hoover si sarebbe unito alla cena dei relatori. Le andò incontro con il suo sorriso aperto e amichevole che Dee non poteva fare a meno di considerare un po’ falso. «Mi hanno detto che ci sono stati dei problemi in aeroporto» disse, salutandola con un cenno del capo. «Nessun atterraggio da brivido, spero». «No, non proprio. Più che altro ci abbiamo messo una vita. Quindi vieni a cena con noi comuni elettori, mh?». Lui ridacchiò in una passabile imitazione di modestia. «Ma se vengo apposta per te, Dee». «Dio, non dirmi che hai divorziato anche tu» scherzò lei. «Perché, anche tu?». Dee sospirò. Be’, se l’era andata a cercare. «A quanto pare. Dev’essere un’epidemia». «Che cos’è un’epidemia?» chiese Miles, che stava arrivando in quel momento con Rutherford e Kelly. Ovviamente considerava loro molto più importanti da adulare di Hoover. In fondo, gli MP passavano, gli accademici di rilievo no. O, comunque, non molto. «Ho appena scoperto che anche Dee ha divorziato da poco» spiegò Hoover, fregandosene della sua privacy. «A quanto pare l’unica a non averlo fatto è Cecilia Martin» sospirò Miles. «E io, ma io non sono proprio sposato». «Neanch’io ho divorziato» intervenne Kelly, in tono gioviale. «A parte mia moglie, non mi vorrebbe nessuno». Rutherford, notò Dee, si limitò a un vago sorriso e non si sbottonò sulla sua situazione sentimentale. «Stiamo aspettando quancun altro?» chiese. «Rory» spiegò Miles. «Il direttore e il comitato direttivo ci aspettano al ristorante, mentre gli altri ospiti avevano degli altri impegni». Gli altri ospiti erano il Cancelliere dello Scacchiere e il direttore generale di un’importante banca d’affari, quindi, sì, nessuno pensava che sarebbero andati a cena con loro. Rory arrivò incespicando sulle sue scarpe troppo alte, trafelata e con il cellulare in mano. «La limousine ci aspetta qua fuori» annunciò. Per un istante Dee immaginò una macchina da pop star, lunga, nera e sexy. Subito dopo si ricordò che erano in Gran Bretagna, così non fu troppo delusa quando si trovò davanti un grosso taxi da otto persone. Si incastrò accanto a Hoover, che continuò a sproloquiare senza sosta per tutto il tragitto, sfoderando sorrisi e facendo battutine simpatiche. Per fortuna l’Hibiscus, il ristorante verso cui erano diretti, non era troppo lontano. Miles spiegò a chi non lo avesse saputo che il locale aveva aperto relativamente da poco, ma che aveva già due stelle Michelin. «Guarda che si è solo trasferito dal Galles» gli fece notare Dee, che aveva una certa esperienza nel ramo. «Eh?». «Non ha aperto. Si è trasferito. Gli chef hanno portato qua baracca e burattini... compresi i quadri alle pareti». Miles sopirò. «Oggi faccio una gaffe dietro l’altra». Come predetto dal giornalista, il resto degli ospiti era già arrivato. Ci furono sorrisi e strette di mano, mentre tutti prendevano posto a tavola. Hoover indicò a Dee la sedia accanto alla sua, ma Dee fece finta di distrarsi per cercare un appendiabiti e riuscì a scivolare più in là. Si lasciò cadere tra Rutherford e Miles, continuando a mantenere un’espressione distrattissima e stanca. «Io mi offenderei» le sussurrò Rutherford, dimostrando che la sua operazione non era passata del tutto inosservata. «Mh?» provò a cadere dalle nuvole lei. «Ha un’espressione esausta» non infierì Rutherford. Dee sospirò di sollievo. «È il jet-lag. Sono stanchissima, ma probabilmente non dormirò fino alle quattro di stanotte». «Probabilmente neanch’io, vista la cucina gallese di questo posto» commentò l’altro, aprendo il menù. «Ma no, vedrà. Sono bravi davvero». «Quindi lei che cos’è? Una foodie? Si dice così?» sorrise l’altro. Dee sbuffò. «Sono una che non sa cucinare, veramente. Frequento buoni ristoranti per non farmi esplodere le arterie di colesterolo». Fece una piccola smorfia. «Anche se non ho nessuna prova che funzioni. Sono anni che non faccio le analisi». «Così è comodo». «Se non mi viene un infarto, sì» sorrise lei. Arrivarono i camerieri e vennero fatte le ordinazioni. Dee cercò di tenersi sul leggero e Rutherford le fece notare che si contraddiceva. «È più che altro una questione dietetica. Ora l’ho detto, okay?» ammise lei. «Dee... non starai iniziando a lamentarti del peso, vero?» la punzecchiò Miles. La indicò scherzosamente. «Lo fa sempre. Credo che voglia sentirsi dire che è snella». «Non voglio sentirmi dire che...» iniziò a protestare lei. «Sei snellissima, ma quel vestito ti fa un culone» sorrise Miles. Dee gli lanciò un’occhiataccia. Lo conosceva da diversi anni e per lo più era innocuo, ma quel giorno sembrava davvero deciso a collezionare una gaffe dietro l’altra. «Oh, grazie. E quella cravatta ti invecchia». «Dovresti denunciare il tuo parrucchiere» ribatté lui. «Sono state le raffiche di vento!» esclamò Dee, indignata. «Professore, non sembra finita sotto a un falciaerba?». Rutherford assunse un’espressione pensierosa, facendo scorrere con calma lo sguardo sulla testa di Dee. «Non faccio mai commenti sui capelli delle signore» concluse, molto civilmente. «Lo catalogheremo come un “sì”» precisò Miles. «La diffido dal farlo. È una regola a cui mi attengo con puntiglio, sa». Dee cercò per l’ennesima volta di aggiustarsi i capelli con le dita. «Sono state le raffiche di vento» ripeté. «È un miracolo che io li abbia ancora, i capelli. Erano fortissime. Se non avessi avuto questo vestito “che mi fa un culone” sarei rimasta in mutande, fuori da Heathrow». Miles inarcò le sopracciglia. «E Hector sarebbe stato disposto a pagare il biglietto, probabilmente». Dee, del tutto involontariamente, si voltò verso Rutherford in cerca d’aiuto. «Non si può biasimare» si limitò a commentare, però, il distinto professore. «Tutto questo» chiarì Dee, facendo un piccolo gesto circolare con un dito, «è sessista, tanto perché lo sappiate». Miles ridacchiò. «Io non posso essere sessista di default, mi dispiace. Sono anch’io una minoranza». «No, guarda, tu sei una minoranza. Io non dovrei esserla, in teoria. Le donne sono circa la metà della popolazione... come fa a essere una minoranza, la metà della popolazione?». «Okay, non sei una minoranza. Io sì. Come la mettiamo, ora? Vuoi prendertela con una minoranza da una posizione di forza?» Dee alzò gli occhi al cielo. «Stai rivoltando la frittata». L’altro rise. «Lo ammetto. Volevo solo chiarire che a me non importa nulla del colore delle tue mutandine». Rutherford alzò le mani in segno di resa. «No, no, neanche a me. Non faccio mai commenti sulle mutandine delle signore, tra l’altro. È una regola a cui mi attengo...» «...Con puntiglio?». «Con rammarico». Dee sbuffò. «Lei è meno distinto di quel che sembra. Forse dovevo sedermi accanto a Hector, dopo tutto». L’altro socchiuse gli occhi. «Sì? Be’, non posso biasimare neanche lei». Dee sentì un’altra ondata calda scenderle per la schiena e sperò intensamente di non essere arrossita. Anche perché, a ben pensare, non c’era proprio niente da arrossire. Era una semplice conversazione da tavola, nient’altro. Il cameriere le mise davanti il suo piatto di anatra con gli asparagi e Dee gli fu grata per averla salvata. Infatti era quasi sicura che se non fosse intervenuto lui, avrebbe detto qualcosa di cui avrebbe finito per pentirsi. Qualcosa tipo... «Naa. Sono sollevata che non sia poi così distinto». Ecco, appunto. Be’, concluse, infilandosi in bocca una punta d’asparago tutta intera, avrebbe potuto dire anche di peggio. Ora bastava trovare qualcos’altro per cambiare tempestivamente argomento e se la sarebbe cavata molto bene. Poteva fare un commento sul cibo, pensò. Un commento sul cibo ci stava tutto, visto che stavano mangiando. «Se fossi in lei mi terrei stretto l’endorsment di Dee. È una femminista» la precedette Miles, che quella sera sembrava remare contro con tutta la forza possibile. «Ne esistono ancora?». «Sono per la parità dei sessi» chiarì lei. «Era un po’ il punto della questione, al convegno, non trovate? Non dovrebbero essere tutti per la parità dei sessi, a questo tavolo?». «Mh. Svicolate tutti e due. Molto sospetto» notò Miles, con espressione astuta. «Oh, via, signor Peppersmith. Sono anagraficamente, politicamente e con ogni probabilità anche gastronomicamente distante anni luce dalla signora Stein. Svicolare è un mio diritto» replicò Rutherford, con grande sobrietà. Miles sorrise. «Molto bene. Anch’io ho le mie regole. Una di queste è non contraddire mai i giuslavoristi di fama internazionale. È una regola che seguo con grande...» «...Puntiglio?». «Prudenza» sorrise di nuovo Miles. «Ah, sì. “Prudenza” potrebbe essere il suo secondo nome. Pugno di ovatta in guanto di velluto, qualcosa del genere. Lo apprezzo. La sua categoria non è... famosa per la discrezione». Miles deglutì con forza e Dee si chiese se il suo giornale non fosse stato sgradevole con Rutherford durante lo “scandalo”. A giudicare dalla delicata precisione delle stoccate dell’altro era possibile. Avrebbe trovato la cosa moderatamente interessante, se non fosse stata impegnata ad analizzare l’affermazione precedente del professore. Quindi erano distanti anni luce, eh? Be’, “gastronomicamente” non aveva davvero importanza. “Politicamente” era piuttosto vero. “Anagraficamente”...? «Scusi, ma quanti anni ha?» chiese, pentendosene un istante dopo. Rutherford sospirò e si portò alle labbra il bicchiere. «Cinquantadue, cara». «E non è un po’ giovane per avere problemi di incontinenza?». L’altro quasi si strozzò con il vino. Iniziò a tossire, mentre continuava a ridere. Si asciugò la bocca e gli occhi con il tovagliolo, prima di rivolgerle un sorriso divertito. «Me lo sono meritato, vero?». Sorrise anche Dee. «Le avevo detto che mi sarei tenuta il peggio per la cena». +++ «Dividiamo il taxi?» propose Hoover all’uscita del ristorante. Dee si rese conto che non avrebbe potuto svicolare. «Dipende. In che direzione vai?». Lui sbatté le palpebre, perplesso, segno che era stato l’unico a non rendersi conto che a cena aveva fatto di tutto per non sedersi accanto a lui. «Islington» disse, forse prendendo finalmente atto del disinteresse di Dee. Lei gli rivolse un sorriso falso-contrito. «Maida Vale». «Già, non avrebbe molto senso» abbozzò Hoover. «Ci si vede, allora». Detto questo si affrettò a fermare un taxi e a salire a bordo. «Quindi... Maida Vale. Pittoresco». Rutherford si era avvicinato e si stava chiaramente apprestando a salutarla educatamente. Dee non riuscì a evitare di sentirsi un po’ delusa. «Giusto, dove l’hanno sistemata?». «Grosvenor House. Su Park Lane». «Wow. Non dovrebbe lamentarsi così tanto dei guanti di velluto con cui la trattano» sorrise lei. Poi, stupidamente, aggiunse: «Lei è nella mia direzione, se vuole uno strappo in taxi». Rutherford guardò il cielo nero che spuntava tra i tetti. «Credo che andrò a piedi. Può darmi uno strappo a piedi, se vuole». Dee si fissò le ballerine. Era davvero così presa? «Ci sto». Sì, era davvero così presa, decise. Era presa a livello di avere i capezzoli induriti e gli slip umidicci. Rutherford le rivolse un’occhiata un po’ perplessa, ma non aggiunse altro. Salutò Kelly con un gesto della mano e si avviò verso Grosvenor Street. Dee gli si affiancò, ignorando completamente Miles che, dalla porta del ristorante, le augurava ironicamente la buona notte. Camminarono in silenzio per qualche minuto. Passarono sotto una sorta di strettissimo arco, infilandosi in un vicolo stretto tra due file di case. Dee si chiese chi diavolo vivesse lì, in piena Mayfair, dentro quelle casette. «Sa, sono un po’ in imbarazzo» confessò Rutherford, quieto, dopo un po’. Dee pensò lentamente a una possibile risposta. Era imbarazzata anche lei. Rutherford si voltò dal suo lato e le rivolse un piccolo sorriso. «Adesso mi esporrà il suo problema, giusto?». Lei sbatté le palpebre, perplessa. «Il mio problema?». «O il problema di qualcun altro, non è detto. Sembra il tipo che perora le cause degli altri». «Be’, sono un avvocato» disse Dee, piuttosto incerta. Rutherford sorrise di nuovo. Sembrava un po’ dispiaciuto. «Giusto. Quindi?». «Quindi che cosa?» fece lei. «Credo che mi stia sfuggendo qualcosa». L’altro fece un gesto vago con una mano, lasciando cadere la sua domanda nel nulla. «Mi piace passeggiare, alla sera. Qua dietro è così tranquillo». «Continuo a non capire, sa». Rutherford si voltò verso di lei, vagamente irritato, ora. «Dico: ha fatto in modo di restare da sola con me. Oh, in modo gratificante, non lo negherò. E lei è davvero bella, anche se credo che abbia un sorprendente numero di anni meno di me...» «Sedici» disse lei. Poi sbuffò. «Non volevo rovinarle la sorpresa». Lui rise sottovoce. «Sedici. Be’, pensavo qualcuno in più. In ogni caso, l’ha fatto con una certa classe, glielo concedo. Credo di ammirarla un po’. Ma l’ammirazione... è un sentimento fragile, prezioso. Non penso di voler scoprire se è disposta a chiedermelo... più tardi. Preferisco che me lo chieda ora, così potrò risponderle di no e ci lasceremo senza che quell’ammirazione svanisca del tutto». Dee si fermò. Inclinò la testa da un lato. Socchiuse gli occhi e inarcò le sopracciglia. Anche Rutherford si fermò e si voltò per guardarla. «Io frequento della gente di merda» mormorò Dee. «Ma lei... lei deve frequentare gli scarti dell’umanità. Sì, ci sono arrivata. No, non devo chiederle nessun favore. Nessuna raccomandazione. Nemmeno un prestito, si rassereni. Volevo solo portamela a letto». Per un istante, Rutherford sembrò assolutamente perso. Aprì leggermente le labbra, ma non ne uscì neanche una parola. Dee gli rivolse un cenno di commiato derisorio con la testa. «Ma non si preoccupi: ho cambiato idea». «Mi... mi dispiace...» mormorò lui. Lei rise, prima di voltarsi e tornare verso l’arco. «E fa bene a dispiacersi» precisò.
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