PROLOGO

1507 Words
PROLOGOFine estate 2018 Se fossi passato tra Torre Canne e Savelletri, costeggiando i confini della Puglia, avresti potuto vedere in mare un uomo che nuotava con ampie bracciate, magari con uno stile un po’ antico, poderoso e barocco come le cattedrali che stavano lì intorno, e dietro di lui un altro uomo, più giovane, che faticava a stare addosso alle piante dei suoi piedi. E che, nuotando, parlava e parlava, gli diceva qualche cosa, e beveva mare dalla bocca che si apriva per parlare con affanno. E sputava acqua e saliva. Parlava, beveva e sputava. Il commissario Falsopepe spuntò dall’acqua di contrada Forcatella e avvolse il suo corpo robusto e muscoloso in un asciugamano di spugna. Poi lo gettò all’inseguitore che ora taceva, rassegnato a non essere stato ascoltato. I due, una volta asciutti, si rivestirono e andarono a sedere a un tavolino sotto il pergolato del Principe del mare. Muti. Mangiarono un piatto di purpi grossi e nodosi, con pezzi di patate, poi un piatto di pasta con i ricci. Bevettero Verdeca di Martina Franca ghiacciata. “Vi vogliono ammazzare, a commissà”. Ma Falsopepe era troppo impegnato con i ricci. “Avete capito? Vi vogliono ammazzare e mica scherzano quelli”. Impegnato come prima lo era con i polpi nodosi. L’altro insisteva: “Non scherzano, quelli… Arrivano dove vogliono, quando vogliono come e con chi vogliono, a commissà”. Falsopepe trangugiò il vino poi fissò gli occhi del commensale. Capì che parlava sul serio. “Vi vogliono…”. Ma non fece a tempo a finire la frase che Falsopepe lo coprì con la sua voce. “Ammazzare, ho capito. Mi vogliono ammazzare”. Quello che era con il commissario Falsopepe si chiamava Sante. Sante e per ora nient’altro. Il commissario Falsopepe, cinquant’otto anni portati con brio, di nome faceva Ferruccio. Il suo amico, il professor Malinconico, di nome nientemeno che Ottobrino, insisteva col spiegargli che derivava dal latino Ferrutius cioè ferrigno, di ferro oppure anche da fero, portare. In questo caso portatore di luce. Il commissario non si era mai chiesto perché i suoi lo avessero chiamato così. Non si chiedeva. Accettava le cose della vita quando le riteneva di scarsa importanza. Scavava come una trivella quando i fatti della vita meritavano di essere trivellati. Così faceva nelle indagini che gli piacevano, perché quelle che non gli piacevano le passava come una sola al suo vice, il dottor Acquafresca o a qualcun altro della squadra mobile, Di Natale o il giovane Gneddu. Se, invece, il caso era ficcante, allora la trivella cerebrale entrava in funzione. Tornando al nome, Anna, sua moglie lo chiamava Ferrù. I figli, Salvatore e Michela, lo chiamavano pàaa, con molte aaa. Non ci aveva più trivellato su quello che gli aveva riferito Sante. Le ultime ore nella sua città natale, la capitale della Messapia, le voleva godere tutte senza rotture di coglioni. L’ultimo giorno di vacanza a Ceglie, nel suo trullo in contrada Donnosanto, sul tratturo Vacche Sparse dalla strada che la collegava all’elegante Martina Franca, rispettava da anni, da quando si era definitivamente trasferito alla Questura di Genova, un insieme di appuntamenti rigorosi. Dopo la sveglia, l’ultimo controllo agli ulivi per accertarsi se novembre avrebbe fatto olio o no. Quindi una rapida raccolta di mandorle, rotonde e tenerissime. In auto verso la città, per gli ultimi rifornimenti di taralli e per avvertire Franco il macellaio di tenergli il capocollo natalizio. Che qualcuno che veniva su per le solite cose che quelli del sud fanno al nord, tipo visite mediche in Lombardia, glielo avrebbe trasportato. Altrimenti Franco glielo spedisse magari col corriere Rocco Cavallo. Dal macellaro verso la chiesa matrice, a fermarsi dal barbiere Circiello per la rasatura, quindi giù verso piazza Plebiscito, ad aggiungersi al tavolo degli amici che lo aspettavano per l’aperitivo. Gli amici? Nicola il sarto, il farmacista Glicerio, Nennello lo storico, Pinuccio, Rocco, Ninuzzo il fabbro e l’oste Lino. Che avevano già tagliato in trance regolari il panino cegliese di Zanghett’: mortadella, tonno e provolone. Alle due era ritornato nel trullo dove Anna, aiutata dai famigliari, stava terminando il rito faticoso e malinconico delle valigie. Questa fine estate il commissario Ferruccio Falsopepe fece tutte le cose, una dopo l’altra, lentamente, senza pensare all’avvertimento di Sante. Semmai ci avrebbe ragionato dopo Benevento, quando lui cominciava a sentire l’odore del Nord. Odore, come sosteneva il commissario, faticoso assai. 20 febbraio 2019 Se tu ti fossi trovato il 20 febbraio a Valencia, magari seduto con un amico all’ultimo tavolino libero della La Mistela, in carrer del Doctor Manuel Candela, pochi minuti dopo le 19:00, avresti potuto notare i tre che sedevano sotto il lucido jamón de pata che il proprietario, il señor Pau figlio del señor Vicente fondatore del locale, affettava con attenzione chirurgica, che parlavano fittamente davanti a salchichón, conservas de pescado, poderosas anchoas y lomo e bottiglie di vino catalano. Ma anche tu avresti avuto difficoltà a decifrare che cosa i tre si stavano raccontando così intensamente, poiché le loro voci, pur forti, venivano sopraffatte dal mormorio e la comprensione era resa difficile dalle voci incontrollate degli Erasmus che riempivano la popolare bodega. Si dovevano dire cose interessanti i tre, perché parlavano fitto fitto, completamente disinteressati a quello che capitava intorno. Ecco, a me stava succedendo questo: ero seduto a meno di due metri dai tre e non ero ancora riuscito a capire la cosa più importante, il motivo per cui mi trovavo poco dopo le 19:00 di sera del 20:00 febbraio nella capitale della comunidad Valenciana, cioè lo scopo del mio viaggio dal Quai des Orfèvres a lì, solo e abbastanza annoiato. Che poi io c’entravo poco con questo settore, i grandi traffici di droga dall’America latina all’Europa, occupandomi da oltre dieci anni di omicidi, ma siccome alla fine di febbraio l’influenza, la grippe, aveva decimato l’anti-droga parigina e siccome la soffiata era venuta fuori dalla mezza confessione di un boss tunisino protagonista principale di una mia indagine, ecco che il filone traffico di cocaina o robaccia del genere era finito sulla mia scrivania, abbinato allo strangolamento, in Rue des Grandes Écoles, di un’apparente turista tedesca che la droga l’aveva comprata prima di essere fatta fuori da un occasionale amante. E da un giro di clienti, tutte ragazze che lavoravano nei night francesi e spagnoli. I tre, ora, parlavano meno fittamente di prima perché il vino a alto tasso alcolico stava facendo effetto. Uno, di mezza età, era italiano, con un inconfondibile accento pugliese, come ho imparato a riconoscere frequentando il mio collega Falsopepe, poi c’era un colombiano, un terzo di spalle stava zitto. Il colombiano era Rafael Mesco luogotenente di uno dei superboss dei nuovi cartelli della droga dopo l’elezione del presidente Duque Márquez. Avevo quasi rinunciato a capire la situazione quando nel locale si creò, come spesso capita nel fitto di indecifrabili conversazioni, un improvviso vuoto pneumatico, come se tutti gli avventori, Erasmus compresi, si fossero messi d’accordo per fare quindici secondi di silenzio. Un silenzio brevissimo e assoluto, un silenzio totale, rotto soltanto dai lievi ordini del señor Pau ai suoi collaboratori, e dal tintinnio di bicchieri e dal fruscio di tapas distese sui vassoi. In quell’attimo di silenzio il sudamericano disse chiaramente: “…decidido por el porto de Genoba”. Nulla su che cosa aveva detto prima e dopo. L’italiano fece sì con la testa. E scandì a voce altissima, alterato dal vino: “Ma quando?”. “El 19 de mayo”. Con la scusa di andare alla toilette e di immortalare quella che le guide turistiche definivano “una bodega sin egual en Valencia”, nascosto dietro il resto di jamón appeso al gancio che perdeva consistenza ad ogni affettata di Pau, scattai due foto del tavolino. Chiesi il conto e selezionai sullo smartphone il numero di telefono del mio vecchio amico e collega italiano Ferruccio Falsopepe, che guidava a Genova la squadra omicidi, con il quale avevamo frequentato la scuola dell’Interpol. Genova era roba sua, ma la telefonata l’avevo fatta subito per riascoltare la sua voce pugliese con la “e” strascicata. Quelle parole storpiate, imparate frequentando con la mia famiglia quella dei Falsopepe, durante rapide ma intense vacanze estive con i nostri figli al seguito. A Ceglie Messapica nel loro trullo, tra gli ulivi e i mandorli o da noi in Vandea, nella stagione del Muscadet. Sempre con un calice in mano. “Mon vieu ami, mi sa che ci dobbiamo vedere”. Fu così che ai primi di marzo il commissario Étienne Bellechasse, che aveva la fortuna di occupare al Quai des Orfèvres, la stanza a fianco a quella che era stata del commissario Jules Maigret, scese all’aeroporto Cristoforo Colombo dove il vicequestore Ferruccio Falsopepe, come sempre in rotta col mondo dei dirigenti della Polizia dai fatti del G8, quando nel luglio del 2001 lo avevano trasferito definitivamente a Genova da Taranto, ma fedele allo Stato come una badante ucraina al suo badato, lo aspettava.
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