Cane Nero appare e scompare

2027 Words
Cane Nero appare e scompare Poco tempo dopo capitò il primo di quei misteriosi eventi che ci avrebbero finalmente sbarazzato del capitano, seppure non, come vedremo, delle conseguenze della sua presenza. Cominciava allora un rigidissimo inverno, con lunghe gelate aspre e violente bufere, e fin dal principio apparve chiaro che il mio povero padre difficilmente avrebbe visto la primavera. Di giorno in giorno peggiorava e mia madre ed io, con il peso dell’albergo sulle braccia, eravamo troppo occupati per prestare attenzione al nostro fastidioso ospite. Era un mattino di gennaio, molto presto, con un freddo che attraversava le ossa, e tutta la baia biancheggiava di brina: le onde baciavano dolcemente i ciottoli della riva e il sole ancora basso dorava appena la cresta delle colline e riluceva lontano sul mare. Il capitano, alzatosi prima del solito, era sceso alla spiaggia col suo coltellaccio dondolante sotto alle larghe falde del suo abito blu, il cannocchiale sotto l’ascella e il cappello buttato indietro sulla nuca. Ricordo ancora il suo alito ondeggiare nell’aria dietro di lui come fumo, mentre si allontanava rapido. L’ultimo suono che giunse alle mie orecchie mentre egli girava dietro la grande rupe fu un potente sbuffo d’ira, come se stesse ancora pensando al dottor Livesey. Mia madre era in quel momento di sopra col babbo e io stavo apparecchiando la tavola per la colazione del capitano, quando l’uscio della sala si aprì e uno sconosciuto si fece avanti. Era pallido come cera: due dita gli mancavano alla mano sinistra, e nonostante portasse un coltellaccio, non pareva troppo aggressivo. Ma io dovevo pur tener d’occhio la gente di mare, sia con una sola gamba che con due, e quell’apparizione mi sconcertò. Non aveva l’aria di marinaio, eppure non so quale aroma marino lo circondava. Alla mia domanda su cosa volesse, rispose ordinando del rum; ma, mentre andavo a prenderlo, sedette a un tavolo e mi richiamò. Io mi fermai col tovagliolo in mano. «Vieni qui, ragazzo» disse lui. «Qui, più vicino». Io mi avvicinai di un passo. «È questa qui la tavola del mio amico Bill?» chiese con una strizzatina d’occhi. Risposi che io il suo compagno Bill non lo conoscevo, e quella tavola era per una persona che dimorava presso di noi e che noi chiamavamo il capitano. «Perfetto» fece lui. «Il mio compagno Bill può anche farsi chiamar capitano, se così gli aggrada. Ha un taglio su una guancia e maniere molto gentili, specie quando beve, il mio compagno Bill. Mettiamo, per dire, che il tuo capitano abbia una cicatrice su una guancia; mettiamo, per dire, che questa guancia sia la destra. Eh? Che ti dicevo io? E adesso, sentiamo ancora: il mio amico Bill è in casa?» Risposi che era uscito per una passeggiata. «Da che parte, ragazzo mio? Da che parte è andato?» Gli indicai la rupe, aggiungendo che il capitano sarebbe stato presto di ritorno; e dopo che ebbi risposto a varie altre domande, «Ah», disse lui, «gli farà piacere come un buon bicchiere, al mio amico Bill». L’espressione del suo viso, mentre pronunciava tali parole, era tutt’altro che amabile, e io avevo le mie buone ragioni per pensare che lo straniero, ammesso che dicesse sul serio, si sbagliava. Ma ciò non mi riguardava: d’altra parte, che avrei dovuto fare? Rimase lì, attaccato all’uscio, sorvegliando l’angolo della rupe come il gatto che aspetta il sorcio. A un certo punto io mi affacciai sulla strada, ma subito mi richiamò, e siccome io tardavo un po’ a ubbidire il suo pallido volto assunse un’espressione feroce; con una bestemmia che mi fece sobbalzare, mi ordinò di rientrare. Appena fui lì, tornò alle maniere di prima, lusinghiere e beffarde, mi batté sulla spalla, mi disse ch’ero un bravo ragazzo e che s’era innamorato di me. «Ho io stesso un figliolo che ti assomiglia come una goccia d’acqua, ed è tutto il mio orgoglio. Ma l’importante per i ragazzi è la disciplina, figliolo, la disciplina. Se tu, per esempio, avessi navigato con Bill, non ti saresti fatto chiamar due volte, no di certo. Non era questo il metodo di Bill, né di chi navigava con lui. Ma ecco il mio compagno Bill: col suo cannocchiale sotto il braccio, Dio lo benedica, è lui senza dubbio. Rientriamo, ragazzo mio, e mettiamoci dietro la porta: faremo una piccola sorpresa a Bill, Dio lo benedica ancora una volta.» Così dicendo lo sconosciuto mi spinse nella sala e mi ficcò nell’angolo dietro di sé, in modo che restassimo nascosti dalla porta aperta. Io ero inquieto e assai intimorito, come si può immaginare, e la mia paura era accresciuta dal fatto che lo stesso sconosciuto tremava a sua volta. Liberò l’impugnatura del coltellaccio, fece scorrere la lama nel fodero e durante tutta l’attesa seguitò a trangugiar saliva quasi avesse, come si suol dire, un rospo in gola. Finalmente il capitano entrò sbattendosi la porta alle spalle, e senza guardare né a destra né a sinistra attraversò difilato la sala dirigendosi alla tavola apparecchiata per la sua colazione. «Bill!» fece lo sconosciuto con una voce che mi parve si sforzasse d’essere ferma e animosa. Il capitano girò sui tacchi e guardò verso di noi. Il sangue sparì dalla sua faccia, che diventò livida fino alla punta del naso: aveva l’aria di chi si imbatte in uno spettro, o nel diavolo, o in qualcosa di peggio, se un qualcosa di peggio ci sia, e io confesso che provai un senso di pietà a vederlo d’improvviso così invecchiato e disfatto. «Vieni qua, Bill, vieni qua. Tu mi riconosci, non è vero? Il tuo vecchio compagno di bordo lo riconosci bene!» Il capitano respirò convulso. «Cane Nero!» disse. «E chi altri vorresti che fossi?» replicò lo straniero, acquisendo sicurezza. «Cane Nero in carne ed ossa, venuto a salutare il suo vecchio compagno Bill all’albergo dell’Ammiraglio Benbow. Ah, Bill, ne abbiamo viste tante, noi due, da quando io ci lasciai questi due artigli» aggiunse alzando la mano mutilata. «Bene, vediamo» disse il capitano. «Tu mi hai ripescato; eccomi, e dunque parla. Che c’è?» «Sei proprio tu» replicò Cane Nero. «Non c’è sbaglio, Bill. Voglio farmi servire un bicchiere di rum da questo caro ragazzo che ho preso in simpatia, e noi ci metteremo a sedere, se così ti piace, e parleremo schietto, come conviene a vecchi amici di bordo.» Quando io rientrai col rum loro stavano già seduti, l’uno di fronte all’altro, alla tavola del capitano: Cane Nero vicino alla porta, di sbieco, in maniera da poter tener d’occhio il suo vecchio compagno e, così mi sembrò, sorvegliare insieme la propria linea di ritirata. Costui mi ordinò di andarmene e di lasciare la porta spalancata. «I buchi delle serrature non sono di mio gusto, ragazzo mio!» aggiunse. Io li lasciai soli e mi ritirai nel bar. Di lì, pur facendo del mio meglio per ascoltare, per un pezzo non sentii altro che un sommesso parlottare, ma alla fine le voci si alzarono e potei cogliere una o due parole, per lo più imprecazioni del capitano. «No, no, no, no; e basta!» gridò una prima volta. E poi: «Se finisce con la forca, sarà la forca per tutti, dico io!» D’un tratto ci fu una formidabile esplosione di bestemmie mescolata con altri rumori: tavolo e sedie che si rovesciavano, un tintinnio di lame e infine un urlo di dolore, dopodiché vidi Cane Nero fuggire a precipizio e il capitano corrergli alle calcagna, tutt’e due col coltellaccio alla mano, il primo che versava sangue dalla spalla sinistra. Arrivato alla porta, il capitano vibrò al fuggitivo un ultimo tremendo fendente che gli avrebbe certamente spaccato la schiena in due se l’arma non si fosse intoppata nello spessore dell’insegna dell’Ammiraglio Benbow, incidendo nell’orlo inferiore dell’asse una tacca che tuttora è visibile. Quel colpo fu l’ultimo dello scontro. Non appena fu in strada, Cane Nero, malgrado la ferita, mise le ali ai piedi e in mezzo minuto si dileguò dietro alla collina. Il capitano, dal canto suo, restò lì vicino all’insegna, impalato e come inebetito. Si passò più volte la mano sugli occhi e alfine si decise a rientrare. «Jim, del rum!». E mentre così diceva, vacillava un poco e con una mano si appoggiava al muro. «Siete ferito?» gridai. «Del rum!» ripeté. «Devo andar via. Del rum! Del rum!» Io corsi a prenderne, ma ero talmente sconvolto che ruppi un bicchiere e inceppai il rubinetto, e mentre ero così impicciato sentii come un tonfo sordo nella sala; volai e trovai il capitano disteso lungo per terra. Nello stesso tempo mia madre, allarmata dalle grida e dallo strepito della zuffa, s’era precipitata giù per aiutarmi. Fra tutti e due gli sollevammo il capo. Respirava forte, affannosamente; i suoi occhi erano chiusi, il viso terreo. «Mio Dio, mio Dio!» gridò mia madre. «Che sventura per la nostra casa! E il tuo povero padre infermo!» Intanto non sapevamo cosa fare per soccorrere il capitano, convinti com’eravamo che nello scontro con lo sconosciuto avesse ricevuto un colpo mortale. Presi il rum, nondimeno, e cercai di fargliene entrare un po’ in gola, ma i suoi denti erano serrati e le mascelle dure come ferro. Un sollievo fu per noi quando la porta si aprì e il dottor Livesey entrò per la solita visita a mio padre. «Oh, dottore!» gridammo. «Che facciamo? Dov’è ferito?» «Ferito? Storie!» disse il dottore. «Non è più ferito di me o di voi. Ha avuto un colpo, come gli avevo predetto. Via, signora Hawkins, risalite da vostro marito e se possibile non raccontategli nulla. Quanto a me, farò del mio meglio per salvar la vita tre volte indegna di questo miserabile; e Jim qui mi porterà un catino.» Quando io tornai col catino, il dottore aveva già rimboccato la manica del capitano e messo a nudo il suo grosso e muscoloso braccio. Era cosparso di tatuaggi. “Ecco la fortuna”, “Buon vento”, “Billy Bones se ne infischia” si leggeva molto chiaramente sull’avambraccio, e sopra, vicino alla spalla, si vedeva una forca con un uomo appeso: scena resa, a parer mio, con grande bravura. «Profetico!» esclamò il dottore toccando il tatuaggio con la punta del dito. «E ora, mastro Billy Bones, se questo è il vostro nome, vediamo un po’ il colore del vostro sangue. Jim, hai paura del sangue?» «No, signore.» «Bene. Allora tieni il catino». E ciò dicendo tirò fuori il bisturi e aprì una vena. Non poco sangue si dovette cavare allo sciagurato prima ch’egli aprisse gli occhi e volgesse intorno il suo sguardo annebbiato. Prima riconobbe il dottore, con un brusco aggrottar di ciglia; poi posò gli occhi su me e apparve confortato. Ma d’improvviso cambiò colore e tentò di alzarsi, gridando: «Dov’è Cane Nero?» «Non c’è nessun Cane Nero, qui» disse il dottore, «all’infuori di quello che vi frulla per il capo. Avete bevuto del rum, voi, e vi ha preso un colpo, precisamente come vi avevo predetto, ed io vi ho tratto mio malgrado dalla fossa dove stavate già con un piede. E adesso, signor Bones…» «Non è questo il mio nome» interruppe lui. «Non importa» ribatté il dottore. «È il nome d’un filibustiere di mia conoscenza, lo uso per farla breve. Ecco cosa devo dirvi: un bicchiere di rum non vi ammazzerà: ma se voi ne berrete uno, ne berrete di certo un altro e poi un altro, e io scommetto la mia parrucca che se non vi decidete a troncar di netto, morirete, capite? Mo-ri-re-te, e ve ne andrete diritto al Creatore come l’uomo della Bibbia. Su, fate uno sforzo. Vi aiuterò a mettervi a letto, per questa volta.» Con non poca fatica riuscimmo a trasportarlo al piano di sopra e lo adagiammo sul suo letto. Il suo capo ripiombò sul guanciale come se egli dovesse svenire. «Dunque» aggiunse il dottore, «ricordatevi bene, ve 1o dico per scarico di coscienza: rum per voi significa morte». Detto ciò, prendendomi per un braccio, uscì per vedere mio padre. «Non è nulla» mi disse appena fummo fuori. «Gli ho cavato sangue abbastanza perché possa stare tranquillo per un po’. Il meglio per lui e per voi sarebbe che rimanesse una settimana dov’è. Ma se lo coglie un altro colpo, è finita.»
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