Lo squattrinato poeta da anni frequentava la corte dei Medici, era sotto la protezione di Lucrezia Tornabuoni che lo aveva scoperto e aveva portato le sue opere sull’amor cortese e sulle avventure eroiche-cavalleresche nei salotti della Villa di Careggi. Pulci, per riconoscenza, dedicò alla madre di Lorenzo la sua opera Morgante, uno dei testi più letti nelle corti.
Il Magnifico dovette proprio a Luigi Pulci la sua prima vocazione poetica e con slancio imitò lo stile e l’anima dei testi dell’amico. Da quando, però, la corte fiorentina era frequentata dal filosofo Marsilio Ficino e dal poeta Agnolo Poliziano, mentori della diffusione del neoplatonismo, Pulci non era più al centro della scena letteraria fiorentina e le discussioni con gli altri due umanisti divennero sempre più frequenti e violente.
“Donna Clarice fa parte di una delle più nobili famiglie, non solo romane, il nostro legame con lo Stato Pontificio deve essere solido, ricordiamoci che la nostra filiale medicea del Banco di Roma è la più redditizia,” disse Giuliano con la sua solita pacata schiettezza. Migliorare i rapporti con la Chiesa, che con i Medici erano sempre stati tesi, era fondamentale per la sua carriera ecclesiastica. Era intenzionato a prendere la porpora cardinalizia nonostante la scarsa vocazione.
“Giove transita nella vostra casa, amato Lorenzo, riceverete presto l’energia per trovare il giusto percorso.” La voce di Marsilio Ficino tuonò.
Il suo ruolo ormai esercitava le più svariate dottrine, aveva un’alta preparazione filosofica e umanistica ma era anche l’astrologo dei Medici. Non vi era incontro sociale o politico senza la presenza di un indovino che potesse prevedere gli eventi e il destino, non si poteva dichiarare guerra o scegliere la data propizia per un matrimonio politico senza avere consultato queste figure.
Lorenzo, incoraggiato e rasserenato dalle parole di Ficino, proseguì con maggiore ardore. “La questione qui non è certo la reazione dell’aristocrazia fiorentina al mio matrimonio, il vero problema è ben altro: Papa Paolo II e il Malatesta. Dopo la morte di Sigismondo Malatesta, il Papa veneziano ha dimostrato tutte le intenzioni di voler annettere anche Rimini sotto il suo dominio.”
“Sì ma è il fratello Roberto ora a essersi impadronito della città, come di diritto,” intervenne lesto Soderini, che non aveva mai tenuto nascosto la sua ostilità verso la Chiesa.
Lorenzo non si lasciò confondere: “Questo conflitto dura da troppo tempo, fratelli. Insieme a Milano e Napoli siamo intervenuti in aiuto di Roberto Malatesta ma non è stata una guerra rapida come avevamo creduto. Un conflitto così cruento contro il papato, per di più appoggiato da Venezia, è pericoloso, molto pericoloso”.
“In realtà solo il re di Napoli è sicuro dell’importanza dell’azione militare,” disse piano Giuliano.
“È giusto schierarci con re Ferdinando senza timore.” Messer Soderini insisteva.
“Non sono d’accordo, con la Chiesa non possiamo giocare al massacro,” alzò la voce Lorenzo, “dovremo rivedere la nostra posizione con i Malatesta.”
I rapporti tra il Magnifico e Tommaso Soderini erano sempre più tesi, Lorenzo non sapeva più se fidarsi come un tempo dello zio e ignorava che egli tramasse alle spalle, in combutta con il re di Napoli. Soderini mirava a indebolire l’immagine del nipote, considerato un principe anche al di fuori del suo stato.
“Non pensate solo alla questione di Rimini o ad altre guerre fuori dal nostro confine, fratello. Sono le rivolte interne quelle da temere adesso.”
“La guerra interna che temete è già esplosa, non voglio allarmarvi Giuliano ma Prato non tarderà a ribellarsi, ho i miei informatori. Come sapete non mi faccio intimorire da nessuno, non temo l’arroganza e il doppio gioco della fazione del Poggio, storici antimedicei, e ho tutte le intenzioni di riformare il Consiglio de’ Cento. Ultimamente sembra non fare più gli interessi del suo principe, non vengo più consultato nelle decisioni fondamentali. È giunto il momento di ripristinare l’ordine e assicurarsi che non ci siano cariche che fanno e disfano regole e leggi personali.”
Calò il silenzio, ognuno scrutò la reazione dell’altro per capire da che parte stava.
“Vi chiedo di stare attenti, di riferirmi ogni novità e ogni stranezza che noterete, nei prossimi giorni vi incaricherò di delicate ambasciate. I nostri incontri saranno più frequenti e più segreti, adesso dobbiamo fare in modo di far rispettare l’ordine.” Li congedò con un largo sorriso e uno sguardo di sfida, la sua espressione migliore.
“Vi aiuterò a eliminare gli influssi negativi di Saturno mio signore, sapete bene che sono la causa principale della vostra stanchezza e di una certa melanconia, non solo…” disse Ficino prima di chiudere quell’incontro col fare suadente che impostava quando aveva l’attenzione su di sé.
“Non solo…?” si allarmò Lorenzo come se tutte le questioni precedenti avessero perso importanza.
“Non solo… potreste soffrire presto di bile nera e malessere, ma troverò per voi un rimedio.” A Marsilio Ficino piaceva sentirsi stimato e ammirato, l’umiltà non era mai stata la sua dote migliore.
Uscirono che era già buio, i servi consegnarono al gruppetto delle candele per attraversare i lunghi corridoi. Giochi di luce disegnavano sui muri ombre allungate, parti degli affreschi emergevano dall’oscurità in un barlume flebile, qua e là compariva il volto di un putto, la mano di una madonna, la barba di un profeta.
Una volta in strada alcuni si affrettarono a ritornare a casa per riprendere da dove avevano interrotto con la cortigiana, altri puntarono verso una delle tante taverne che apriva le porte nei sotterranei del Lungarno. Ridevano e alzavano la voce, qualcuno rubava il cappello di un avventore sghignazzando, altri ancora imitavano qualche personaggio fiorentino tra le risate del gruppo.
Giuliano no, non rideva, Giuliano camminava a testa bassa senza guardare la strada. Poliziano lo osservò a lungo, intrigato dallo sguardo di brace, dai boccoli lucenti e dai lineamenti spigolosi che gli davano carattere, era ammaliato dall’energia del giovane principe sempre velata di malinconia.
Il poeta prediligeva la compagnia maschile a quella femminile, forse solo Lorenzo ne era a conoscenza e fece in modo di tenere nascosta la verità. Poliziano era un genio e la corte dei Medici voleva solo artisti e umanisti geniali, questo era tutto ciò che importava al principe.
“La vedrete presto,” la voce di Poliziano, sussurrata all’orecchio, fece trasalire il giovane Medici.
“Parlate piano, siete impazzito?” Giuliano lo trascinò via prendendolo per un braccio.
“Siete un ingenuo se pensate che nessuno lo sappia.”
“Piero Vespucci non deve saperlo, è sua nuora, buon Dio!”
“Il vostro è amor cortese mio signore, desiderate una creatura irraggiungibile, cercate un legame spirituale che mai sarà terreno. Non è forse così?” Il tono del poeta era fortemente ironico.
“Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali platoniche…” Marsilio Ficino si fece spazio tra i due e li prese sottobraccio citando una frase della sua opera De Immortalitate animorum. Giuliano lo ascoltò senza attenzione e quando l’argomento tornò alla politica cittadina lasciò gli amici per tornare col pensiero a quegli occhi di cielo.
La brama di potere non era tra i suoi bisogni, in fondo era uno dei principi di Firenze, viveva nel lusso, circondato dagli artisti e dalla bellezza, questo gli bastava. Non gli apparteneva l’ambizione sfrenata di Lorenzo, spesso bisognava pregarlo per fargli ricoprire qualche carica vacante all’interno dell’amministrazione cittadina, era più propenso alla caccia e alla pesca e, come il nonno Cosimo, era abile nel gioco degli scacchi, anzi, quella per gli scacchi era una vera passione.
Doveva ammettere a se stesso che l’aspettativa di essere consacrato cardinale con l’appoggio del fratello Lorenzo si stava facendo sempre più debole, lui stesso ne era sempre più demotivato poichè la sua indole era decisamente più predisposta alle arti, alle lettere, al piacere dei viaggi e all’innamoramento. La confusione lo dilaniava. L’unica certezza era quell’amore incerto.
Attenzione alla Venere tentatrice, è nemica di Saturno, avrebbe detto Marsilio Ficino.
Nel borgo di Ognissanti era facile trovare lo stemma di famiglia dei Vespucci rappresentante sette vespe su uno scudo rosso, simbolo dell’operosità e dell’ingegno.
Quando il monaco Simone Vespucci fece erigere l’Ospedale di San Giovanni di Dio la loro reputazione crebbe in città. A Firenze tutti rispettavano la ricca famiglia di banchieri e notai.
Lorenzo apprezzava la fedeltà e le capacità di Piero Vespucci nel campo delle finanze e del commercio, divenne, infatti, uno degli uomini della sua cerchia e fu nominato ambasciatore mediceo alla corte del re di Napoli.
I Vespucci, con cui si imparentò Simonetta sposando Marco, nipote del più noto Amerigo, erano in origine armatori e mercanti, possedevano navi di proprietà nei porti di Piombino e di Livorno e, tra l’oligarchia fiorentina, erano noti come grandi mecenati di pittori e scultori.
Il loro quartiere fiorentino era il rione di Ognissanti, sulle sponde dell’Arno, il borgo degli artisti e dei galigai, i famosi conciatori di pelli. I pittori facevano parte dell’aggregazione dell’Arte dei Medici, Speziali e Merciai, ogni maestro teneva a bottega dei giovani lavoranti che, prima di raggiungere la propria autonomia, studiavano a lungo la tecnica e lo stile. Alcuni entravano già a sette anni, dopo qualche anno potevano dipingere, iniziando con elementi semplici o figure di sfondo, solo i più talentuosi, a sedici anni, sostituivano il maestro in opere minori.
Era stato così per Botticelli che si era formato nello studio dei grandi maestri, anche lui aveva pagato le lezioni garantendosi, oltre che il futuro mestiere, anche il vitto e l’alloggio. Dopo avere lavorato per Andrea del Verrocchio e per Filippo Lippi, Alessandro Filipepi, ebbe finalmente una sua bottega. Tutti lo conoscevano però come Botticelli, così soprannominato per il nome che i fiorentini avevano dato a suo fratello Giovanni, un uomo tozzo e dedito ai piaceri del vino, chiamato in gergo botticello.
Il suo maestro, Filippo Lippi, era morto da poco senza avere ancora terminato gli affreschi di una cappella del Duomo di Spoleto. Dal suo mentore Botticelli apprese la tecnica della prospettiva, la luminosità e le trasparenze, ben presto però la sua espressione pittorica si sarebbe arricchita di allegorie, simboli ed elementi esoterici, la filosofia neoplatonica aveva coinvolto anche lui che, tra la tradizione pagana e il misticismo cristiano, celava importanti significati nei suoi quadri. Un uomo di pensiero laico, amante della libertà come Lorenzo de’ Medici non poteva non apprezzare quel giovane pittore. Più severa fu la Chiesa che non approvò affatto i soggetti pagani di quel Botticelli.
Da bambino, Alessandro Filipepi, era sempre stato malaticcio e il suo fisico rimase esile, ma l’allegria, l’acuta curiosità e la genialità che sprizzava dallo sguardo fecero di lui un uomo di grande energia. Lo studio, dove l’artista offriva, durante le trattative, della frutta e del buon vino liquoroso, era anche un luogo di ritrovo dove, quando egli non dipingeva, si parlava di lettere e filosofia. Vi era sempre una grande confusione di tele, tempere e attrezzi e un andirivieni di committenti. Il maestro era diventato uno scaltro uomo d’affari, prendeva le ordinazioni, parlava con i messeri che entravano interessati e li stordiva di concetti artistici impartendo ordini ai suoi giovani lavoranti.
Nonostante il pittore più amato da Lorenzo fosse Andrea del Verrocchio, che aveva formato i grandi pittori del tempo, inclusi Leonardo, il Perugino, il Ghirlandaio e lo stesso Botticelli, era il periodo quello in cui Alessandro Filipepi cominciava a ricevere molte commissioni dall’aristocrazia cittadina e dalla famiglia de’ Medici.
Proprio i Medici gli commissionarono la Fortezza, anche se in realtà per l’incarico dovette ringraziare il pittore Piero del Pollaiolo a cui fu chiesto di realizzare le Sette Virtù in decoro delle spalliere del Tribunale della Mercanzia , l’artista realizzò sei tavole e ordinò al collega di eseguire l’ultima opera, proprio la Fortezza.
Botticelli era ossessionato dalla figura di Simonetta Cattaneo in Vespucci, il volto della giovane donna sarebbe comparso in seguito nella maggior parte delle sue opere, era per lui una madonna terrena, una musa, così irraggiungibile e così vicina. L’arrivo di quell’incanto a Firenze avrebbe cambiato e segnato la sua vita artistica e di uomo.