Modernità di una donna del secolo passato
di Cristina Tagliaferri
Ci sono libri che non perdono mai il potere di trasmettere verità universali e senza tempo, anche quando a modificarsi radicalmente è il mondo intorno, non più assimilabile, nella sue strutture sociali e nel modo di vivere le relazioni interpersonali, a quello di un passato più o meno lontano.
Ci si potrebbe insomma chiedere perché un romanzo scritto oltre un secolo fa e qualificabile come un ‘classico’ come quello di Sibilla Aleramo, alias Marta Felicina Faccio, detta Rina (Alessandria 1876-Roma 1960), risulti ancora attuale. Pubblicato nel lontano 1906 e ristampato nel corso degli anni in molteplici edizioni, esso nasce dall’esperienza autobiografica dell’autrice ed è frutto di quei fermenti sociali che portarono alla nascita del femminismo, di cui lei stessa si sentì parte attiva.
Un tema centrale soggiace infatti alla gestazione del romanzo, la ‘questione muliebre’, avvertito profondamente dalla Aleramo a partire dalle idee emancipatorie che ben si accordavano con l’educazione ricevuta dal padre e con le sue stesse esperienze di vita. Lo rivela appunto in Una donna, dove la vicenda umana e il percorso letterario s’intrecciano in maniera inscindibile:
Dacché avevo letto uno studio del movimento femminile in Inghilterra e in Scandinavia […] avevo provato […] una simpatia irresistibile per quelle creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte sino a recidere in sé i più profondi istinti, l’amore, la maternità, la grazia. Quasi inavvertitamente il mio pensiero s’era giorno per giorno indugiato un istante di più su questa parola: emancipazione, che ricordavo d’aver sentito pronunciare nell’infanzia, una o due volte, da mio padre seriamente, e poi sempre con derisione da ogni classe d’uomini e di donne. Indi avevo paragonato a quelle ribelli la gran massa delle inconsapevoli, delle inerti, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione, e di cui io, le mie sorelle, mia madre, tutte le creature femminili da me conosciute, eravamo degli esemplari. E come un religioso sgomento m’aveva invasa. Io avevo sentito di toccare la soglia della mia verità, sentito ch’ero per svelare a me stessa il segreto del mio lungo, tragico e sterile affanno… (cap XII)
Man mano che il libro andava componendosi – affiancato da letture, collaborazioni giornalistiche, appunti e riflessioni personali – la scrittura diveniva per lei strumento di un processo autoconoscitivo di cui sono specchio la coerenza, il realismo e l’equilibrio compositivo. Il substrato letterario è costituito da grandi narratori, pensatori e drammaturghi fra i quali Platone, Maeterlinck, Amiel, Ibsen, Goethe.
Nel suo iter di formazione, la Aleramo designa una vicenda comune, per molti aspetti, ad altre donne del tempo, ma che ancora non aveva trovato analoga espressione nella produzione letteraria coeva, reclamando coraggiosamente, sul piano della specificità della scrittura al femminile, un proprio integrale riconoscimento. Se ne ha conferma nella posizione assunta dall’autrice contro lo stereotipo sociale della donna letterata, polemizzando con la più celebre Neera (Anna Radius Zuccari).
Personaggio emblematico di un mutamento in atto, la piemontese Rina Faccio si trasferisce con la famiglia a Porto Civitanova Marche, dopo una parentesi milanese nel periodo della scuola elementare e senza proseguire gli studi, formandosi eccezionalmente da autodidatta. Nel 1893, ancora adolescente, si sposa con il ragazzo operaio Ulderico Pierangeli che nella fabbrica di vetri del padre ha abusato fisicamente di lei. Nel 1895, dopo un aborto, nasce il figlio Walter ma la precoce infelicità coniugale ne segna inesorabilmente la giovane esistenza, già caratterizzata da un forte desiderio di fuga e di ribellione; così, nel 1897, tenta il suicidio col laudano. Pochi mesi dopo scopre L’Europa giovane del positivista Guglielmo Ferrero e le Menzogne convenzionali di Max Nardou, prendendo coscienza della necessità di superare la condizione di oppressione, di subalternità e di disuguaglianza che la civiltà aveva costruito a partire dalla differenza di genere.
Ai primi esperimenti letterari che ricalcano temi e toni dannunziani, segue presto l’inizio di un’attività giornalistica incentrata su tematiche sociali: suoi contributi compaiono sulla «Gazzetta letteraria» di Trieste, sulla «Vita Internazionale» e sulla «Vita Moderna». Nel 1899 a Milano nasce il settimanale «L’Italia Femminile»; ritornando nella città lombarda ne assume la direzione su invito della fondatrice Emilia Mariani. Nel 1900 rientra nelle Marche, ma la sempre più difficile convivenza familiare, dopo il licenziamento del marito a opera del padre, la portano a compiere il passo decisivo con il trasferimento a Roma presso la sorella Iolanda, abbandonando anche il figlio. Siamo nel 1902; un anno prima ha steso “il nucleo generatore di Una donna”, incentrato sul tema della maternità.
Rina Faccio inizia una battaglia per ottenere la separazione legale e la custodia del bambino, ma ne uscirà totalmente sconfitta: le verranno perfino interdetti i rapporti epistolari con lui. Per alcuni anni rimarrà legata sentimentalmente al poeta Giovanni Cena (il primo di una lunga e proverbiale serie di amanti), redattore capo della «Nuova Antologia», in un periodo ricco di frequentazioni letterarie, impegnandosi anche come volontaria per l’elevazione culturale dei contadini dell’Agro Romano. Esperienze queste, confluite nel suo primo romanzo, nato insieme allo pseudonimo di Sibilla Aleramo.
Il libro si compone di tre parti: le prime due in rapporto di specularità anche tematica, l’ultima dedicata al finale e all’epilogo. Raccontando l’uscita dall’età infantile, caratterizzata dall’idealizzazione del padre e dai primi sentori di una disarmonia familiare che solo più tardi la protagonista avrebbe coscientemente inteso, si delineano i passaggi cruciali di un’adolescenza violata in conseguenza di tragici eventi: il tentato suicidio della madre, l’abbandono dei figli da parte del padre, lo stupro di cui la ragazza è vittima, generano in lei una volontà di morte che nemmeno la nascita del proprio bambino sarà in grado di sanare («In me la madre non s’integrava nella donna», cap. VII). Non meno gravose, infatti, sono le pene arrecate dal matrimonio ‘riparatore’ con l’uomo che un anno prima l’ha bruscamente iniziata alla sessualità adulta; e poi la demenza materna e un aborto, prima della nuova gravidanza.
Il senso della propria solitudine interiore si accresce nella Sibilla del romanzo di pari passo con l’emergere di una riflessione che a partire dalla sfera privata si allarga a quella sociale, interessando la donna in attesa di riscatto da una condizione di pericolosa sudditanza anche morale. Essa scaturisce in primis dal confronto inevitabile con la sventurata madre:
La sua debolezza, la sua rinuncia alla lotta mi esacerbavano tanto più in quanto ero costretta a riconoscermi ora dei punti di contatto con lei nella mia rassegnazione al destino. (cap. V)
Povera, povera anima! Non le erano valse la bellezza, la bontà, l’intelligenza. La vita le aveva chiesto della forza: non l’aveva.
Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo e forse di tutte le donne? (cap. VI)
A differenza di lei, però, la tensione alla rinascita è per la protagonista molto forte e ciò lo si ravvisa nei momenti cruciali della sua trasformazione, a partire dal tema centrale della maternità, cui l’autrice conferisce un potere vivificante, con la dedizione pressoché assoluta e appagante alla nuova creatura: «Ero necessaria a mio figlio quanto egli a me; […] ero ben io che lo portavo avanti, senza posa, io sola ostinatamente. Egli mi apparteneva, perché io sola me gli davo». Da cui il senso forte di quell’esternazione, apparentemente ambigua, gridata nella conclusione del romanzo in ripresa analettica: «Ma egli è mio. Egli è mio, deve somigliarmi! Strapparlo, stringerlo, chiuderlo in me!... E sparire io, perché fosse tutto me!».
Essenziale è la fase che segue il tentato suicidio, cui è dedicata la seconda parte del libro. Questa si apre infatti con la prospettiva di chi sfiorando la fine ha percepito la vita «Da un’altra sponda…Come nel punto di darmi la morte io considerai il mondo e me stessa con occhi affatto nuovi, rinascendo» (cap. X). E con grande abilità narrativa l’autrice ripercorre i fatti che portano la donna a definirsi in un orizzonte di senso più vasto, dove un ruolo primario è affidato alla parola e alla scrittura, grazie a cui ella può riscattarsi e in ragione delle quali quelle stesse pagine acquistano un significato dichiaratamente memoriale, trait d’union tra lei e il figlio, oltre la vita.
È l’incontro col pensiero del sociologo famoso, trovando nel suo libro «una causa di salvezza», a inaugurare il processo di formazione che porterà la donna a trasformarsi in ‘eroina’, seppure in assenza di atti rilevanti:
Non piansi non mi esaltai, non sentii in me nessuna rivoluzione. Quelle pagine rispondevano in sostanza ad un ordine di idee che in me si svolgeva fin dall’infanzia. Ma appunto perché non mi spalancavano abissi ignoti, appunto perché con un vigore delicato, quasi inavvertito, mi riconducevano a regioni popolate di pensieri latenti, come sussurrandomi d’una ricchezza troppo a lungo trascurata, esse mi furono provvidenziali, in quell’ora. Un lento fascino m’avvolgeva […] partecipavo inconsciamente all’ideale costruzione d’un mondo. E quel fascino faceva indietreggiare in silenzio i recenti fantasmi disperati, rendeva benefica la solitudine, mi difendeva fra le piccole realtà ostentanti la loro irrimediabile miseria. (cap. XI)
Si noti inoltre, come il marito, cagione della sua sofferenza, concorra invece di lì a poco alla sua rinascita, compiendo un gesto apparentemente privo di straordinarietà eppure cruciale nel processo di individuazione della coscienza di sé:
Mi portò a casa un grosso fascicolo di carta bianca, che guardai sentendo il rossore salirmi alla fronte. Fino a quel punto poteva giungere l’incoscienza? Ma qualche giorno dopo […] io mi ritrovai colla penna sospesa in cima alla prima pagina del quaderno. Oh, dire, dire a qualcuno il mio dolore, la mia miseria; dirlo a me stessa anzi, solo a me stessa, in una forma nuova, decisa, che mi rivelasse qualche angolo ancora oscuro del mio destino!
E scrissi, per un’ora, due, non so. Le parole fluivano, gravi, quasi solenni: si delineava il mio momento psicologico; chiedevo al dolore se poteva diventare fecondo; affermavo di ascoltare strani fermenti del mio intelletto, come un presagio di lontana fioritura. Non mai, in verità, avevo sentito di possedere una forza d’espressione così risoluta e una così acuta facoltà d’analisi. (ivi)
Similmente, intervengono nella costruzione del Bildungsroman, culminante nel raggiungimento della pace interiore e nella «sensazione costante d’essere nell’ordine», personaggi con cui la donna si trova a misurare le proprie debolezze oppure i desideri e le aspirazioni che, trovando riscontro nelle esperienze di vita, faranno di lei un nuovo essere: il forestiero seduttore, il medico di campagna, la scrittrice illustre, la disegnatrice norvegese, il ‘profeta’. Figure delineate con grande vividezza, tali da risultare facilmente impresse nella memoria del lettore.
Nell’intento di rivelare, per la prima volta, «l’anima femminile moderna», con grande spirito realistico la Aleramo compone pagine di aperta denuncia e di critica sociale, affrontando argomenti come la povertà e l’ignoranza, le differenze regionali, il socialismo e naturalmente la condizione svantaggiosa da cui la donna avrebbe dovuto riscattarsi; fino all’incontro decisivo della protagonista con la «parola dall’aspro suono» – femminismo – e alla sua volontà di scrivere, riponendo in quei fogli la parte migliore di sé.
Nello svolgersi degli avvenimenti, in cui alla moglie e madre è resa sempre più evidente e imperiosa la necessità di conquista della propria libertà morale, a costo del sacrificio estremo, si compone insomma un quadro dell’epoca di cui l’autrice è acuta testimone. Ne risulta un documento storico-sociale, oltre che umano, davvero esemplare per il periodo cui appartiene.
Qualità artistiche a parte (esso entusiasmò critici e letterati dell’importanza di Luigi Pirandello, Emilio Cecchi, Ugo Ojetti e Stefan Zweig), sono molte le annotazioni riflessive che, per mezzo della voce narrante, contribuiscono a mantenere vivo l’interesse del libro a chi sappia cogliere analogie e convergenze con realtà non tanto diverse oggi, nelle premesse, sul piano delle problematiche generate dalla differenza fra i sessi e dalla costruzione dell’identità sessuale. Seppure in un’epoca di ormai raggiunta emancipazione femminile e di grande attenzione, dal punto di vista legislativo, alla tutela della donna.
E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana.
E come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale, ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia? (cap. XII)
Altri tempi, si dirà. Ma la nitida evidenza di considerazioni come queste non può lasciare indifferenti; così come quelle emblematiche parole: «Signora di sé stessa la donna non era di certo ancora: lo sarebbe mai?».
Potremmo chiedercelo anche noi oggi, alla luce di situazioni ed episodi addirittura estremi, resi sin troppo manifesti dalla cronaca quotidiana. Constatando che un altro vocabolo – atroce più che aspro – ha soppiantato quello tanto idealizzato, oltre un secolo addietro, dalla Aleramo e dal movimento in cui ella trovò siffatta affinità di pensiero.
Dal momento poi che la vera indipendenza della persona coinvolge presupposti di natura culturale e psicologica, prima ancora che materiale, suonano davvero profetiche le parole di Rina Faccio in una lettera scritta a Mondadori il 5 agosto 1956, alla soglia degli ottant’anni:
Vi dicevo che se io fossi nata in un qualunque altro paese, avrei in quest’occasione onoranze nazionali. Perché sono un poeta, la sola donna poeta oggi nel paese, perché il mio primo libro Una donna avrà a novembre cinquant’anni, perché i giovani si stupiscono ch’io, mezzo secolo fa, scrivessi per i giovani d’oggi e per quelli che vivranno il secolo venturo.
[…]
Io ho dinanzi a me il futuro, anche se voi non lo credete.
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