III
30 ottobre 1974 – Ore 18:00 (Aeroporto militare di Patuxent River)
Prima di presentarsi al comandante dell’aeroporto militare Johnson ha voglia di rinfrancarsi con un caffè caldo. Può starsene tranquillo al bar senza dover sostenere conversazioni futili. Nessuno lo conosce qui…
Donald Repo… Robert Loft… I nomi gli ronzano in testa. Cosa dirà l’ultima parte dell’articolo sulle apparizioni degli aviatori periti? Il fatto che l’aereo da cui è sceso fosse pilotato da due ufficiali con gli stessi nomi è una coincidenza?!… O è stato appena coinvolto in una delle apparizioni dei fantasmi del Volo 401?!
Il caffè allontana il freddo, non l’inquietudine. Leonard ama volare e ama gli aerei, ma… lo aspettano ore di volo sopra l’oceano e forse poco fa ha incontrato gli spettri di due colleghi morti! Deve leggere assolutamente l’ultimo paragrafo di quell’articolo, ma non c’è tempo. Il cielo è buio. Si osserva riflesso nella vetrata che affaccia sulla pista deserta. Vorrebbe tanto che nell’immagine ci fossero pure Shirley e Alex. Decide di telefonare a casa. Vuole almeno sentire le loro voci. Il comandante può aspettare! Dopo tutto, è perfettamente in tempo per il lavoro che deve svolgere. Cerca qualche moneta nelle tasche dell’impermeabile. Ne raduna a sufficienza per una breve conversazione. Raggiunge un telefono seminascosto da una pianta artificiale molto impolverata. Introduce le prime tre monete e compone il numero. L’apparecchio rimane muto.
«Non funziona?» domanda al barman.
«Non saprei, signore, fino a poco fa l’hanno usato!»
Riaggancia. Preme il pulsante per riavere indietro le monete e ripete l’operazione. Si interrompe. Dinanzi agli occhi ha adesso l’immagine delle poltrone vuote memorizzata mentre scendeva dal National 666! L’aereo deve proseguire per Norfolk… perché sono scesi tutti?! A pensarci bene, gli assistenti di volo non hanno invitato i passeggeri a scendere per questioni di sicurezza, come quando si fa scalo per rifornimento di carburante… Possibile che tutti siano scesi a Patuxent River, come lui, e l’aereo prosegua vuoto per poi caricare passeggeri a Norfolk? Strana, ma è l’unica spiegazione…
Un ultimo tentativo con il telefono. Il comandante dell’aeroporto avrà saputo che il National 666 è atterrato da quasi mezz’ora! I militari non amano aspettare…
Il telefono resta ancora muto dopo che ha selezionato il numero. Poi una scarica nella cornetta, tanto forte da costringerlo ad allontanarla dall’orecchio, gli strappa un’imprecazione! Guarda verso l’esterno. Eccolo là il National 666: sta decollando… Il fragore della scarica nel microtelefono si unisce al rombo dei quattro turboelica, poi cessa nel momento in cui il muso del velivolo si solleva verso il buio.
Niente da fare con il telefono...
E quella scarica ha acuito il disagio che lo accompagna da quando è sceso dall’aereo. Ha bisogno di urinare. Raccoglie le sue cose. Stavolta non dimentica la rivista. Raggiunge il bagno. Il sollievo fisico della minzione lo calma un poco. Cerca di riordinare le idee. In fondo che c’è di tanto strano in quello che sta accadendo? Due casi di omonimia, rari, ma possibili… Un aereo che si svuota al primo scalo e prosegue senza passeggeri verso l’aeroporto di destinazione, antieconomico per la compagnia, ma del tutto plausibile in bassa stagione e su una tratta secondaria… Un telefono che non funziona… Cose assolutamente normali! Tira l’acqua, esce dalla latrina e raggiunge i lavandini. Si rinfresca il viso e ravvia i capelli. Lascia le toilette, imbocca un corridoio e si dirige verso una porta su cui è appesa una targa d’ottone con scritto Direzione. Bussa.
«Avanti» risponde una voce dopo alcuni secondi lasciati trascorrere per rimarcare autorità. Tutti uguali i militari…
Il comandante dell’aeroporto militare di Patuxent River è un ufficiale sulla cinquantina, alto e ben piazzato. Una certa somiglianza con Richard Burton, anche se i lineamenti sono meno raffinati e la pelle olivastra lascia intuire origini del sud.
«Leonard Johnson, vero?» domanda l’ufficiale, anche se già conosce la risposta, si capisce. Un subalterno, infatti, sarebbe entrato e si sarebbe messo sull’attenti. E non molti civili devono aver accesso alla base, ancor meno all’ufficio del capo.
«Sono io.»
«Barry Staton, colonnello Barry Staton, benvenuto a Patuxent River!» si presenta l’altro guardando l’orologio con una smorfia eloquente.
«Grazie, colonnello.»
Con un sottoposto Staton avrebbe sicuramente alzato la voce. Leonard gode a immaginare la frustrazione del gallonato che dinanzi a un civile deve ingoiare la boria.
La scrivania del colonnello sembra una portaerei… per dimensioni, ma anche per la presenza di numerosi modellini di bombardieri, disposti in rigoroso ordine cronologico, dalle fortezze volanti della seconda guerra mondiale ai B-52. A Staton piace avere la storia dell’aviazione americana a portata di occhi!
«Leonard George Johnson… Kadina, dal ’65 al ’69!»
Sa pure a memoria il suo stato di servizio! E ci tiene a farglielo sapere… Piccola rivincita: io so tutto di te, tu sai niente di me…
«Sono stato in Vietnam anche io – continua il colonnello – e questo è un regalo dei Vietcong! Grazie a loro devo rimanere a terra… mi manca il cielo!» dice mostrando la mano sinistra dentro un guanto nero. Una mano di legno.
«Mi dispiace.»
«Ho qui le carte di volo: rotta, lista dei passeggeri, situazione meteorologica…» Staton tronca ogni convivialità.
«Grazie. Ah, colonnello, posso chiederle una cosa?»
«Prego…»
«Perché mi avete fatto venire fin qui con un altro volo? Non avrei potuto partire da Washington con l’aereo che dovrò pilotare stanotte?»
L’ufficiale cerca di mascherare la sorpresa per una domanda tutto sommato ovvia. Prende tempo accendendo una pipa presa da una rastrelliera di radica dove sta insieme con altre sei. Sulla base della rastrelliera, sette targhette d’ottone con i giorni della settimana incisi in caratteri corsivi. Il colonnello ha preso la terza pipa. È mercoledì. Tutti uguali i militari…
È abituato a essere obbedito e non s’è preoccupato di studiare una risposta! Gliel’ho messo al c…, considera Leonard.
«Capitano Johnson, l’aereo che piloterà trasporterà un carico preziosissimo per la sicurezza nazionale. In realtà neanche avrei dovuto dirglielo, ma… sappia che si tratta di qualcosa di veramente importante!»
«E le famiglie dei militari?»
«Quelle ci sono. Trentacinque passeggeri. Vanno a Lajes a spese dello Stato per incontrarsi con i parenti che si congedano da varie basi in Italia, Francia, Germania Ovest… ci sarà un ricevimento e…»
«… e lo Stato è ben lieto di pagar loro questa vacanza pur di usarli come copertura per trasportare su un jet civile un apparato militare segreto! Ho indovinato?»
«Lo ha detto lei!»
«Di che si tratta?»
«Non posso dirlo!»
«E se rifiutassi di pilotare l’aereo? Sono un pilota civile… non prendo ordini dai militari!»
«Capitano Johnson, non starò qui a rammentarle i suoi doveri verso la Patria, né ad appellarmi ai suoi lusinghieri trascorsi nell’aviazione degli Stati Uniti… Le ricordo soltanto che ha una famiglia e che al giorno d’oggi mantenere una moglie e dei figli costa denaro, molto denaro! Da sempre lei vola. Da militare o da civile, lei vola… Cos’altro sa fare? Volare: una cosa meravigliosa, esaltante! So io la sofferenza che provo per dover restare a terra, o volare solo da passeggero… Una volta imparato a volare, si può solo continuare a volare… Cosa farebbe se la Eastern le scucisse le ali dal berretto? E se tutte le compagnie aeree degli Stati Uniti le sbattessero la porta in faccia? Riuscirebbe a garantire alla sua famiglia il tenore di vita attuale volando su un vecchio biplano a irrorare di insetticida qualche campo di mais?»
«È un ricatto?»
«Lo chiami come crede! Io parlerei piuttosto di missione. Ogni cittadino americano dovrebbe rispondere affermativamente quando la Patria chiama!»
«Per carità, mi risparmi il fervorino!»
Gli viene in mente Dürrenmatt: Patria, si fa chiamare lo Stato ogniqualvolta si accinge a uccidere! Ma evita di citarlo a Staton. Sarebbe una provocazione…
«Capitano, come dicevo, non avrei nemmeno dovuto farle la confidenza sul carico del suo aereo… l’ho fatto perché pensavo di poter riporre in lei massima fiducia! Non la conoscevo, ma il suo stato di servizio mi aveva persuaso che potessi contare incondizionatamente su di lei! Evidentemente mi sbagliavo!»
Il colonnello è inquieto. Ha come paura di essersi sbilanciato troppo e così di essersi macchiato della stessa colpa che imputa a Johnson: insubordinazione?! Una bestemmia nella cattedrale di disciplina e patriottismo che è il suo ufficio.
«O mi dice di che si tratta o non piloterò quel Boeing!» Leonard torna a strapazzare la pazienza del colonnello.
«Le ho detto già che non ha scelta!»
«O mi dice di che si tratta o rivelerò la cosa alla stampa! Al diavolo le conseguenze…» Pure Leonard si scalda, ma poi si controlla: le conseguenze, a pensarci bene, non ricadrebbero solo su di lui, come ai tempi del Vietnam… Ci sono Shirley e Alex! Deve pensare a loro…
«Si vorrebbe spacciare per un pacifista tipo make love not war, capitano Johnson?! Chi le crederebbe? Luccica di medaglie come un albero di Natale, ha ammazzato più Vietcong di quanto riesca a fare la malaria e percepisce uno stipendio da favola! Lei, senta a me, è un’icona dell’imperialismo americano!»
«Non sono un fricchettone, ha ragione! Ma proprio perché ho fatto la guerra ho capito che merda sia! E perché ho famiglia, come lei mi ricorda, vorrei sapere i rischi che corro! Sarò io a comandare quell’aereo e ho il diritto di sapere che cosa trasporto!»
«Non posso dirlo! Non vuol dire che non vorrei… non posso!»
Chiuso. Staton non rivelerà una virgola in più, ragiona Leonard. Se abbandonasse l’incarico rischierebbe il posto e Dio sa cos’altro potrebbe succedere a lui e alla sua famiglia. I militari sono capaci di tutto pur di proteggere i loro segreti. Ne sanno qualcosa certi colleghi di suo padre, quelli che volevano svelare la verità sull’UFO-crash del 1947 a Roswell, sull’Esperimento di Philadelphia e su avvistamenti e contatti con presunte navi o visitatori alieni! Il professor Morris Jessup, per esempio: indagava proprio sull’Esperimento di Philadelphia quando un tardo pomeriggio dell’aprile 1959, dopo aver parcheggiato la macchina vicino casa, ha infilato con tutta calma l’estremità di un tubo di gomma nello scappamento e l’altra parte all’interno dell’abitacolo attraverso lo spiraglio di un finestrino. Morto per avvelenamento da monossido di carbonio. È vero, Jessup era depresso… – Leonard ricorda le cose che diceva suo padre sull’amico scomparso – la moglie lo aveva lasciato e aveva avuto pure un grave incidente d’auto, ma… Quel “ma” lo fa rabbrividire! Perché Staton, adesso è chiaro, gli ha teso una trappola tanto semplice quanto micidiale. Confidandogli col contagocce scarne informazioni sulla missione, lo ha messo con le spalle al muro: sa troppo poco perché i media o chiunque altro possa credergli, se decidesse di parlare, ma nel contempo sa troppo per illudersi che i militari lo lascerebbero tornare a casa tranquillo se rifiuterà di pilotare il jet fino a Lajes. Volente o nolente dovrà far volare quel 707. È l’unico modo per salvare se stesso e la sua famiglia. Ma… c’è un altro ma: davvero si salverà? Cos’hanno caricato sull’aereo? Come viaggia questo carico-preziosissimo-per-la-sicurezza-nazionale? Con uno dei passeggeri? O, forse, il carico preziosissimo è uno dei passeggeri? Oppure si tratta di un ordigno nucleare, di un’arma strategica? Qualsiasi cosa sia, dove l’hanno sistemata? Nella stiva, probabilmente. O in cabina? E quanto potrà esser grande?
«Ok, colonnello!» preferisce troncare. Vuole andarsene. Il fumo aromatico che sulle prime gradiva ora lo soffoca. Ha l’articolo sul Volo 401 da terminare…
«Piloterò il jet. Lo farò per gli Stati Uniti d’America!» Retorica del tutto strumentale. Ma Staton non se ne avvede. Di fronte allo spirito patriottico, pensa Leonard, forse il colonnello spenderà qualche parola a suo favore qualora altri ufficiali più in alto decidessero di liquidare i partecipanti alla missione, come nell’antico Egitto o nella antica Cina venivano sepolti con il re quelli che avevano progettato o semplicemente costruito il suo mausoleo.
Anche Staton sembra sollevato dalla soluzione della diatriba. Consegna il resto dei documenti di volo a Johnson e lo congeda con una frase che ha il sapore acre dell’avvertimento:
«Arrivederci, Capitano Johnson… ha fatto la scelta giusta!»
In verità non aveva scelta. L’“arrivederci”, però, sul momento gli sembra promettente. Per quanto… chi negherebbe un arrivederci all’ignaro condannato a morte?! No, riflettendoci, il saluto non garantisce il ritorno. La seconda parte della frase, piuttosto, in qualche maniera può rassicurarlo circa il futuro di Shirley e Alex. Ha fatto “la scelta giusta”, si è mantenuto sul retto sentiero intrapreso in Vietnam e, anche se non tornasse, la sua famiglia non subirà conseguenze. Magari non gli conferiranno la medaglia in memoriam, perché non è più militare e perché la missione è coperta dal segreto, ma quasi certamente assumeranno Shirley alla Eastern Airlines e le elargiranno una cospicua somma a titolo di indennizzo per “la grave perdita” e… per non farsi e non fare domande sulla fine del marito.
Si chiude alle spalle la porta con scritto Direzione. L’aria nel corridoio è fresca. Sosta un istante per scacciare il groviglio di congetture che lo attanaglia. Da quando ha lasciato l’aviazione militare è convinto di aver allontanato il fantasma della morte. Ama volare e ama gli aerei, pur restando conscio dei rischi, ma dacché i velivoli che pilota devono battersi solo con correnti d’aria, temporali e wind share invece che con la contraerea e con i proiettili traccianti, è certo di essersi assicurato un futuro relativamente lungo. Tutto a un tratto, invece, lo spettro è tornato, con il ghigno senza espressione visto tante volte sui volti di nemici e commilitoni uccisi, arsi dal napalm, dagli ordigni incendiari, abbandonati alla decomposizione.