1. 2018, Montreal, Canada

2103 Words
1. 2018, Montreal, Canada 2018, Montreal, Canada 30 maggio È uno strano posto, Montreal, l’ho sempre pensato. Qua non importa se sei bianco, giallo o nero, non importa se ti copri i capelli con un velo o con un turbante, non conta quale sia la tua lingua di origine. La nostra è una delle città più civili del mondo. Ne andiamo orgogliosi. Quattro milioni di abitanti, immigrazione qualificata, praticamente zero razzismo. Eppure c’è una divisione che non siamo ancora riusciti a superare: quella tra gli anglofoni e i francofoni. È buffo. Se sei nato in una famiglia francofona, finisci per conoscere quasi solo francofoni, lavorare in un posto dove lavorano altri francofoni, andare a bere e a mangiare in locali francofoni e così via. Lo stesso se sei anglofono. I vecchi rancori storici sono ormai quasi del tutto sopiti, ma questa separazione resta. Ed è buffo, lo ripeto. È buffo, considerato dove stavo per finire. +++ Mi chiamo Audrey Clark, ho trentatré anni, la mia famiglia è anglofona. Al contrario della maggior parte dei miei conoscenti lavoro in un ambiente misto, il SPVM, Service de police de la Ville de Montréal, o, come viene chiamato in inglese, Montreal Police Service. Qua tutto si fa in due lingue, anche se più passa il tempo più prevale il francese. Come sono finita a fare la poliziotta nessuno lo sa. Sono la pecora nera della famiglia. Mio padre è un professore di filosofia alla McGill, mia madre una storica ormai in pensione e mio fratello Mark lavora nella redazione della Montreal Gazette. Io... boh. Ho sempre voluto diventare un’investigatrice, nessuno ha mai capito perché. Non era stato facile farlo andare giù alla mia famiglia, ma alla fine ce l’avevo fatta. E, dopo l’università, mi ero arruolata. Da ormai due anni lavoravo nella sezione investigativa con il grado di sergente. E da circa sei mesi facevo coppia con Patrick Dubois, il mio parigrado francofono. Mentirei se dicessi che non avrei volentieri fatto coppia con lui anche in un altro senso. Patrick era... uno di quegli spilungoni con le gambe storte come i cowboy dei fumetti, ma con due spalle che ti facevano soprassedere su qualsiasi imperfezione. E aveva gli occhi blu, sempre messi in ombra dalla zazzera bionda. Anche se era più vecchio di me solo di un anno, se la tirava da grande conoscitore del mondo. Visto che probabilmente non gli dispiacevo neanch’io, flirtavamo da circa sei mesi, senza aver ancora concluso nulla. E in realtà... non era male, quella sospensione. Rendeva le cose più interessanti. Quel trenta maggio fatale ci raggiunse una chiamata mentre eravamo in pausa pranzo. Io stavo otturando le mie arterie con un cheeseburger gigantesco, Patrick si era tenuto più leggero con dei nugget di pollo. L’agente a uno degli ingressi del deposito container del porto aveva segnalato la presenza di un sospetto di cui avevamo diffuso la foto una settimana prima. Il caso era di omicidio. Un intermediatore finanziario della Bourse de Montréal era stato trovato ucciso nel suo ufficio. Un colpo di pistola alla fronte. Lavoro pulito, pistola silenziata. I nostri sospetti andavano in direzione di un’esecuzione i cui mandanti dovevamo cercare nella malavita, dato che il morto aveva frequentazioni piuttosto equivoche e clienti dalla reputazione tutt’altro che immacolata. Erano casi difficilissimi, in cui raramente si arrivava a qualcosa, se nessuno tradiva. Il killer probabilmente era un professionista – in ogni caso non aveva lasciato tracce... tranne una, molto incriminante: il fotogramma di una videocamera. Era stato ripreso a sua insaputa, perché nell’atrio dell’edificio era stata installata da poco una telecamera nascosta per controllare un distributore automatico di bevande, più volte vandalizzato nell’ultimo periodo. Pura sfortuna, per l’assassino. Pura fortuna per noi, ma non credevamo che qualcuno avrebbe davvero segnalato la presenza del tizio che si vedeva (male) in quel breve filmato dalla qualità scadente. E invece. «Secondo te è lui?» mi chiese Patrick, in francese, mentre andavamo verso il porto. Io guidavo. Mi strinsi nelle spalle. «Non so, sembra una fortuna eccessiva, no? Pensavamo che il killer si fosse allontanato da un pezzo». «Al porto, poi... nella città dei container? Che cosa può esserci andato a fare? Sarà qualcuno che gli assomiglia». Neanch’io ero molto ottimista. Arrivammo all’ingresso da cui era venuta la segnalazione e parlammo con l’agente che aveva chiamato. Era un ragazzo giovane, volenteroso. Forse anche troppo, pensammo entrambi privatamente. Gli mostrammo di nuovo la foto. Era presa dall’alto e la faccia si vedeva a stento. «Non sono del tutto sicuro, ma gli assomiglia molto. Guardate». Aveva fatto una foto attraverso il vetro della guardiola, usando la telecamera collegata al computer. Un tizio moro e pallido al volante di un furgoncino. In effetti assomigliava al nostro sospetto. «Il nome sulla documentazione che mi ha dato era Cameron Anderson. È nella zona F 146, non è ancora uscito». Io e Patrick ci consultammo. «Secondo te è lui?». «Mah, ho qualche dubbio». «Dobbiamo chiamare rinforzi e circondare la zona?». Ci guardammo. Il porto di Montreal era uno dei più grandi al mondo. La zona container in cui eravamo, da sola, era delle dimensioni di una piccola città. Per controllare tutti gli ingressi ci sarebbero servite venti pattuglie, e ancora non avremmo avuto la certezza di beccare il nostro sospetto, se avesse deciso di fuggire scavalcando una recinzione. «Mmm... forse è meglio se segnaliamo la targa del veicolo». Lo facemmo. «Poi possiamo aspettarlo qua e incrociare le dita, o andarlo a cercare nella zona F 146». Ci facemmo spiegare dall’agente che cosa era venuto a fare lì Cameron Anderson, almeno secondo i suoi documenti. «Un controllo qualità sulla merce di un container in transito. La F 146 è un’area adibita alle ispezioni». Avevo un’idea molto vaga di che cosa parlasse. Del porto si occupa una squadra apposta della polizia, oltre alla polizia di frontiera, la CBSA. Io e Patrick ci consultammo di nuovo. «Pensi che dovremmo chiamare un collega della CBSA?». «Non se vogliamo beccarlo. Non sappiamo neppure con sicurezza se sia ancora qua». Aveva senso. Decidemmo di andare nella zona F 146 e vedere se lo trovavamo. Ci saremmo avvicinati con calma e gli avremmo mostrato le nostre credenziali. Tra l’altro, il fotogramma che lo ritraeva era ben poco incriminante, non avevamo nessun potere di arrestarlo, potevamo giusto fermarlo e interrogarlo. Dopo di che lui avrebbe chiamato il suo avvocato e sarebbe stato libero in poche ore. Era piuttosto frustrante. Ci rimettemmo in macchina e seguimmo le indicazioni verso la zona F 146. Patrick aveva l’espressione stoica che metteva su quando sapeva di star perdendo tempo, ma di non avere altra scelta che perderlo. Un’evenienza tutt’altro che rara, se sei un poliziotto. Attorno a noi, la città di container formava larghi corridoi metallici, i cui colori vivaci erano coperti da strati di sporco pluriennali sui container più vecchi, ancora brillanti su quelli nuovi. Era un labirinto nel quale rischiavi di perderti non perché fosse intricato, ma per l’assoluta omogeneità. I container si ripetevano con poche permutazioni: il colore, la scritta sulle fiancate e la patina grigia più o meno marcata. A indicare la direzione, solo cartelli pieni di numeri e lettere, ermetici per chi non ne conoscesse il linguaggio. Unici abitanti di quell’enorme Tetris, camionisti isolati nelle piccole cabine dei loro imponenti mezzi, qualche tecnico nei piccoli furgoni o nei cart elettrici e, su in alto, gli uomini che manovravano le gru, lontani come dèi. Per lo più quel posto immenso era privo di vita. «Forse dovremmo tornare all’ingresso e aspettare lì. O scegliere un qualsiasi altroingresso» dissi, a un certo punto. Ero stata presa da un’inquietudine priva di spiegazioni razionali. «Forse» disse Patrick, con un sorriso. Mi diede una strizzata a una coscia, ma in basso, vicino al ginocchio. «Solo che ormai siamo qua. Suppongo che non troveremo proprio nessuno. Mi sembra che siano già passati degli anni». Aprì un filo di un finestrino per far entrare un po’ di fresco, visto che l’abitacolo era diventato fin troppo caldo ed entrambi stavamo sudando. Ma dall’esterno non venne aria fresca. Invece, sembrò che qualcuno avesse puntato un phon contro il finestrino. «E quest’aria torrida?» chiesi. «Boh? Sarà per via del metallo dei container». Aveva senso, ma, in qualche modo, era una spiegazione che non mi convinceva del tutto, il trenta maggio, a Montreal. Alla fine arrivammo alla zona F 146. Qua i container erano disposti singolarmente sull’asfalto, non a blocchi e impilati. Erano pronti per essere ispezionati dagli incaricati delle compagnie, se così prevedeva il loro piano di spedizione. Non c’era segno di vita, ma su un lato un furgoncino come quello che ci aveva descritto l’agente al varco d’entrata aspettava il ritorno del proprietario con una portiera aperta. Parcheggiammo dietro di lui e spegnemmo il motore. Scendemmo. L’aria era afosa. Portavo una giacca sportiva sopra un maglione di filo e stavo crepando di caldo. Per non parlare dei piedi: gli stivali piatti e al ginocchio che indossavo mi sembravano due fornaci. «Lo aspettiamo qua?» chiese Patrick. «Penso che sia meglio. In mezzo ai container ci perderemmo e basta». Aspettammo. Anche se eravamo convinti che si trattasse di un falso allarme, l’atmosfera era elettrica lo stesso. Entrambi avevamo una mano pronta ad afferrare la pistola, entrambi eravamo attenti, sul chi vive. Ci guardavamo attorno, e dietro alle spalle, ogni pochi secondi. Di nuovo Patrick mi diede una strizzata a una coscia, questa volta più in alto, visto che eravamo fianco a fianco. «Non preoccuparti» disse. «Mi chiedo la prossima volta che cosa palperai, per tranquillizzarmi». Si voltò verso di me con una buffa espressione, in parte divertita, perché era convinto al novanta percento che scherzassi, in parte cauta, perché comunque sapeva di essersi preso una libertà che avrei anche potuto non gradire. «Pensavo il culo, ma forse ci sono altre parti più rassicuranti» disse, alla fine. «Una tetta, per esempio. Un simbolo materno». Sbuffai. «Ah, quindi per rassicurare me penseresti di attaccarti alle mie tette come un bebè. Non fa una grinza». Patrick sorrise. «No, okay, hai ragione. Quello rassicurerebbe solo me. Meglio il culo, quindi». Stavo per rispondergli con un’altra osservazione sarcastica quando vedemmo un uomo dai capelli scuri uscire dall’ombra tra due container. Patrick fece un passo avanti e stava per tirare fuori il distintivo, quando mi accorsi che anche il nostro sospetto stava estraendo qualcosa. «Giù!» gridai, buttandolo fisicamente a terra. Due proiettili ci fischiarono sopra la testa. Rotolammo e sparammo. Avevamo un addestramento, dopo tutto. Il killer – perché era ormai chiaro che Anderson lo era – si appiattì dietro l’angolo di un container. È buffo, ricordo con precisione che cosa successe dopo, ma non ricordo se ci scambiammo parole di qualsiasi tipo. Non ricordo se io o Patrick gridammo “fermo”, o “polizia, non ti muovere”, o qualche altra frase. Forse sì, ma quella parte di ricordo è andata persa e, se ci ripenso ora, ricordo solo i colpi di pistola. Uno scambio serrato, ma non frenetico; un colpo ogni pochi secondi, ma nessuna sequela veloce. Le pallottole bucarono la carrozzeria della nostra macchina, dietro la quale ci eravamo riparati. Poi capimmo che Anderson stava scappando. Patrick lo seguì, mentre io lo coprivo. Altri colpi di pistola. Sembrava il Far West. Continuò così, spigolo di container, dopo spigolo di container. Patrick che avanzava, io che lo coprivo e poi avanzavo a mia volta, il killer che ci sparava addosso e si ritirava sempre di più. Senza dubbio il suo scopo era perdersi tra i container e darsela a gambe, ma lo stava facendo in modo ordinato, lucido. Credo che chiamai i rinforzi. Non ne sono sicura, perché i miei ricordi, come dicevo, sono privi di parole. Sono comunque convinta che li chiamai: era la procedura. Avanzammo ancora, Patrick davanti, io dietro. Il sibilo delle pallottole di Anderson. Pum-pum, il mio fuoco di copertura, mentre Patrick correva avanti. E poi io che correvo, con i polmoni brucianti e il cuore che pompava forte, il corpo invaso di adrenalina e terrore. Avevamo quasi finito i proiettili. Ero al secondo caricatore e mi restavano ancora sei colpi, forse Patrick era messo un po’ meglio, ma non molto. Poi, all’improvviso, qualcosa di diverso. La monotona sequela di passaggi tra i container si interruppe, diventando un passaggio senza uscita, chiuso ai tre lati da altrettante pareti metalliche. Anderson capì di essersi ficcato in un cu-de-sac e bersagliò l’angolo dietro cui eravamo con un fuoco omogeneo e fitto. Quando i colpi si interruppero provai a guardare. Un ulteriore sparo quasi mi beccò a una mano e mi fece saltare via la pistola. Subito dopo Patrick sparò ancora. Questa volta lo colpì a un fianco. Mi resi conto che Anderson stava cercando di aprire il portello di un container, forse per barricarsi all’interno. Patrick avanzò. Sono sicura che gridò qualcosa, ma ancora una volta... non ricordo parole, in quei momenti. Non ricordo di avergli detto che ero disarmata e non potevo coprirlo, anche se sono sicura che lo feci. So solo che Anderson riuscì ad aprire la porta del container e che tutto fu come inondato di luce bianca. Una luce bianca e fortissima, che mi accecò completamente. Chiusi gli occhi, li strizzai, ma quella luce era così forte da trapassare le palpebre. Mi coprii la faccia con le mani... quando riaprii gli occhi non ero più lì.
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