- Ma ora vi toccherà di colpo un milioncino e più, e questo come minimo. Oh, Signore Iddio! - e l’impiegato batté le palme.
- Ma a lui che gliene fa, dite un po’ per favore! - disse Rogozin, tornando a indicarlo con un cenno irritato e malevolo. - A te, già, non darò nemmeno una copeca, anche se tu ti mettessi a camminarmi davanti coi piedi in aria.
- E lo farò, lo farò.
- Ve’! Ma, sai, non ti darò niente, niente, anche se ballerai per una settimana intera!
- E non mi dar niente! È quel che merito; non mi dar niente! Ma io ballerò. Pianterò mia moglie e i miei piccini, e ballerò davanti a te. Chiamami, chiamami!
- Puh, come sei! - e il bruno sputò. - Cinque settimane fa, solo con un fagottino, ecco, come voi adesso, - disse rivolgendosi al principe, - scappai dalla casa di mio padre a Pskov, dalla zia, e là mi misi a letto con la febbre, e lui intanto morì. Un accidente lo buttò giù. Sia benedetta la sua memoria, ma quel giorno per poco non mi aveva accoppato! Lo credete, principe? com’è vero Dio! Se allora non scappavo, mi ammazzava di sicuro.
- L’avevate fatto andare in collera? - domandò il principe, osservando con una certa speciale curiosità il milionario in pelliccia di agnello. Ma sebbene ci potesse essere nel fatto del milione e dell’eredità qualche cosa di interessante, il principe era meravigliato e incuriosito anche per altro, e Rogozin stesso, chi sa perché, aveva scelto con una speciale compiacenza il principe come interlocutore, benché di un interlocutore paresse aver bisogno per ragioni meccaniche più che morali; più che per semplicità di cuore, perché era distratto, inquieto, agitato; per poter guardare qualcuno in faccia e menare in qualche modo la lingua. Pareva che avesse tuttora il delirio o almeno la febbre. Quanto poi all’impiegato, quello pendeva addirittura dal labbro di Rogozin, non osava più respirare, e afferrava e pesava ogni sua parola come se cercasse un brillante.
- Per andare in collera, era andato in collera, e forse c’era di che, - rispose Rogozin, - ma più di tutto mi fece uscir dai gangheri mio fratello. Della mamma non c’è nulla da dire, è una donna anziana, che legge il Menologio e passa il suo tempo con le vecchie, e come stabilisce mio fratello Sen’ka, così ha da essere. Ma lui perché non m’informò in tempo? Capisco bene! È vero che allora io non ero in sentimento. Dicono anche che fu mandato un telegramma. Ma il telegramma arrivò alla zia. E lei, vedova da trent’anni, se ne sta sempre coi santoni da mattina a sera. Monaca non è, ma peggio ancora. Del telegramma si spaventò e, senza nemmeno aprirlo, lo portò al commissariato, e così è rimasto là giacente fino a ora. Solo Konev, Vasilij Vasil’ic, mi venne in aiuto e mi scrisse tutto. Dalla coltre di broccato che copriva la bara di nostro padre, mio fratello, di notte, tagliò via le nappe d’oro massiccio, dicendo: “Oibò, chi sa quanto valgono!” Ma sapete, per questo solo potrebbe andare in Siberia, se volessi, perché è un sacrilegio. Ehi, tu, spaventapasseri! - disse, rivolgendosi all’impiegato. - Cos’è secondo la legge: sacrilegio?
- Sacrilegio! Sacrilegio! - confermò subito l’impiegato.
- Per questo si va in Siberia?
- In Siberia, in Siberia! Dritto in Siberia!
- Loro mi credono ancora malato, - seguitò Rogozin parlando al principe, - e io, senza dir nemmeno una parola, alla chetichella, non ancora guarito, mi son messo in treno, e ora vado là: aprimi, fratello mio Semen Semenyc! Sparlava di me con mio padre buon’anima, lo so. Ma che io allora avessi fatto arrabbiare mio padre, per via di Nastas’ja Filippovna, è vero. Qui, poi, ci ho colpa io solo. Fu il peccato a tentarmi.
- Per via di Nastas’ja Filippovna? - proferì in tono servile l’impiegato, come se riflettesse.
- Ma se non la conosci! - gli gridò Rogozin, impaziente.
- Si, che la conosco! - rispose trionfante l’impiegato.
- Oibò! Di Nastas’je Filippovne ce n’è tante! E poi, ho da dirtelo, che essere impudente sei tu! Be’, lo sapevo che qualche essere di questa fatta mi si sarebbe subito appiccicato! - seguitò, rivolto al principe.
- E se la conoscessi? - domandò agitandosi l’impiegato. - Lebedev sa tutto! Voi, eccellenza, mi sgridate, ma se io ve lo proverò? Sì, è proprio quella Nastas’ja Filíppovna per la quale vostro padre volle farvi assaggiare il bastone, e Nastas’ja Filíppovna è una Baràskova, una signora, per così dire, perfino illustre, e anche lei, nel suo genere, una principessa, e va con un certo Tockij, Afanasij Ivànovic, ed esclusivamente con lui, un proprietario e gran capitalista, che fa parte di compagnie e di società, e come tale è legato da grande amicizia col generale Epancin...
- Eh, eh! ma che dici mai? - disse Rogozin, e finì col meravigliarsi sul serio. - Diavolo, ma la conosce per davvero!
- Sa tutto! Lébedev sa tutto! Io, eccellenza, ho scarrozzato per due mesi anche con Aleksaska Lichacev, al quale pure era morto il padre, perciò conosco tutti i cantucci e i chiassoli, e s’era giunti al punto che senza Lébedev non si faceva un passo. Ora è in prigione per debiti, ma allora ebbe modo di conoscere Armance e Corallina e la principessa Packaja e Nastas’ja Filippovna, e del resto molte cose ebbe modo di conoscere.
- Nastas’ja Filíppovna? Ma forse che lei e Lichacev... - Rogozin lo guardò con ira e gli si sbiancarono e gli tremarono perfino le labbra.
- N-niente! N-n-niente! Proprio niente! - disse, riprendendosi e parlando più in fretta, l’impiegato. - Lichacev, voglio dire, non poté spuntarla con tutto il suo denaro! No, lei non è come Armance. Qui non c’è che Tockij. E la sera se ne sta nel suo palco al Gran Teatro o al Teatro Francese. Gli ufficiali lì chissà quante ne dicono tra loro, ma anch’essi non possono provar niente: “Ecco, - dicono, - è proprio quella Nastas’ja Filippovna”, e basta; più in là non possono dir nulla! Perché non c’è nulla!
- Tutto questo è proprio così, - confermò Rogozin cupo e accigliato, - la stessa cosa me la disse un giorno anche Zalezev. Un giorno, principe, attraversavo di corsa il Nevskij con addosso un pastrano di mio padre vecchio di tre anni, ed eccola uscire da un negozio e montare in carrozza. Mi sentii bruciare da parte a parte. Incontro Zalezev; quello non era come me: sempre azzimato come un commesso che venga dal parrucchiere, col monocolo all’occhio, mentre noi a casa nostra ci distinguevamo portando gli stivali unti di sego e mangiando la minestra di cavoli. Quella, mi dice, non è per te; quella è una principessa, si chiama Nastas’ja Filippovna, di cognome Baràskova, e vive con Tockij; Tockij adesso non sa come liberarsi di lei, perché, essendo arrivato a un’età rispettabile, cinquantacinque anni, vorrebbe sposare la prima bellezza di Pietroburgo. Mi fece anche capire che quel giorno stesso avrei potuto vedere Nastas’ja Filippovna al Gran Teatro, al balletto; sarebbe stata là, nel suo palco di prim’ordine. Da noi, da mio padre, se ti provavi ad andare al balletto, il castigo era uno solo: ti ammazzava! Io però ci scappai per un’ora, di nascosto, e rividi Nastas’ja Filippovna; tutta quella notte non dormii. La mattina mio padre buon’anima mi dà due titoli al cinque per cento, di cinquemila rubli ciascuno: “Va’”, dice, “vendili, e settemilacinquecento portali al banco degli Andreev, in pagamento, e il resto dei diecimila rubli, senza andare in nessun altro posto, vieni a consegnarmelo: ti aspetterò”. I titoli io li vendetti, il denaro lo presi, ma al banco degli Andreev non ci andai; mi diressi a precipizio al negozio inglese e scelsi un paio di buccole con un brillante ciascuna, che sarà stato grosso così, quasi come una nocciola, spendendo tutto e restando debitore di quattrocento rubli; dissi il mio nome, mi fecero credito. Corro da Zalezev, con le buccole: è così e così, andiamo, amico, da Nastas’ja Filippovna. Ci avviammo. Che cosa ci fosse allora sotto i miei piedi, e davanti a me, e dai lati, di tutto questo io non so nulla e non ricordo nulla. Entrammo difilato da lei, in salotto; lei stessa ci venne incontro. Allora non dissi chi ero. “Da parte di Parfen Rogozin”, disse Zalezev, “come ricordo dell’avervi incontrata ieri; compiacetevi di accettarlo”. Lei aprì la scatoletta, guardò, sorrise: “Ringraziare”, disse, “il vostro amico signor Rogozin della sua gentile attenzione”, salutò e si ritirò. Ma perché non morii là sul momento? Se c’ero andato, era stato perché pensavo: “Tanto, non tornerò indietro vivo!”. Ma più di tutto mi parve mortificante che quel briccone di Zalezev avesse fatto ogni cosa come per conto suo. Io, piccolo di statura e vestito come un servo, me ne stavo muto, con gli occhi sgranati su di lei, perché avevo vergogna, mentre lui, vestito all’ultima moda, impomatato e arricciato, colorito in viso, con una cravatta a scacchi, non faceva che strisciare i piedi e inchinarsi, e di sicuro lei dovette scambiarlo per me! “Be’”, gli dissi, dopo che fummo usciti, “ora guardati bene anche dal pensarci, capisci?”. Lui rise: “E ora come farai a render conto a Semen Parfenovic?” Io, a dir la verità volevo già quasi andarmi a buttar nel fiume, senza passare a casa, ma pensai: “Del resto, ormai fa lo stesso”, e tornai a casa come un dannato.
- Eh, eh! - disse l’impiegato contorcendosi, quasi preso da un tremito: - è un fatto che il defunto non dico per diecimila, ma per dieci rubli avrebbe spedito uno all’altro mondo, - disse con un cenno al principe.
Il principe osservava con curiosità Rogozin; questi era ancora più pallido in quel momento.
- All’altro mondo! - ripeté Rogozin: - tu che ne sai? Venne subito a saper tutto, - seguitò parlando al principe, - e poi Zelezev si era messo a ciarlare con chiunque gli capitava davanti. Mio padre mi afferrò, mi chiuse in una stanza di sopra, e mi dette una lezione che durò un’ora buona. “Questo non è che un assaggio”, mi disse, “verrò ancora a salutarti prima di notte”. Che cosa credi? Il vecchio andò da Nastas’ja Filippovna, le fece degli inchini fino a terra, supplicò e pianse; alla fine essa gli portò la scatoletta e gliela gettò in faccia: “Eccoti, vecchio barbone, i tuoi orecchini”, disse, “ma ora per me valgono dieci volte di più, se Parfén se li è procurati con tanto rischio. Saluta”, disse, “e ringrazia Parfen Semenovic”. Be’, io intanto, col consenso di mia madre, mi ero fatto dare venti rubli da Serezka Protusin e avevo preso il treno per Pskov, dove arrivai con la febbre; là quelle vecchie si misero a recitarmi le litanie, mentre ero ubriaco; poi me ne andai per le bettole a spendere gli ultimi soldi e passai tutta la notte disteso sulla strada, fuori di sentimento; la mattina mi venne una febbraccia, e intanto, la notte, i cani mi avevano anche morsicato. A stento tornai in me.
- Via, via, ora si che la nostra Nastas’ja Filippovna starà allegra! - e l’impiegato ridacchiò fregandosi le mani; - adesso, signor mio, altro che buccole! Gliene regaleremo di quelle!...
- Bada che, se dirai ancora una parola di Nastas’ja Filippovna, com’è vero Dio, ti frusterò, anche se te la sei scarrozzata con Lichacev, - gridò Rogozin, agguantandolo forte per il braccio.
- Se mi frusti, vuoi dire che non mi cacci via. Frustami pure! Chi frusta qualcuno, gl’imprime il suo suggello... Ma eccoci arrivati.
Entravano infatti in stazione. Sebbene Rogozin avesse detto di esser partito alla chetichella, già lo aspettavano varie persone. Esse lo salutarono gridando e agitando i berretti.
- To’, c’è qui anche Zalezev! - mormorò Rogozin, guardandoli con un sorriso di trionfo e quasi di rabbia, e a un tratto si rivolse al principe: - Principe, io non so perché ti ho messo affezione. Forse perché ti ho incontrato in un momento come questo, ma ho incontrato anche lui, - e gli indicò Lébedev, - eppure non gli ho messo affezione. Vieni a trovarmi, principe. Ti toglieremo coteste ghette, ti farò indossare una bellissima pelliccia di martora; ti farò fare una marsina di prim’ordine, un panciotto bianco, o come vuoi tu, ti empirò le tasche di denaro e... andremo da Nastas’ja Filippovna! Verrai o no?
- Date retta, principe Lev Nikolaevic! - saltò su con tono suggestivo e solenne Lébedev. - Oh, non lasciatevi scappare l’occasione! non lasciatela scappare!
Il principe Myskin si alzò a mezzo, porse cortesemente la mano a Rogozin e gli disse affabile:
- Verrò col massimo piacere e vi ringrazio molto di avermi messo affezione. Anzi verrò forse oggi stesso, se farò in tempo. Perché, ve lo dico francamente, anche voi mi siete piaciuto assai, soprattutto mentre raccontavate di quelle buccole coi brillanti. Già prima mi eravate piaciuto, sebbene la vostra faccia sia tetra. Vi ringrazio anche dei vestiti e della pelliccia che mi promettete, perché effettivamente di un vestito e di una pelliccia avrò presto bisogno. Quanto a denaro, in questo momento sono quasi senza un centesimo.
- Denaro ce ne sarà, verso sera ce ne sarà, vieni!
- Ce ne sarà, ce ne sarà, - confermò l’impiegato, - ce ne sarà ancora prima di sera.
- E per le donne, principe, ci avete molta inclinazione? Ditelo prima.
- Io n-n-no! Perché io,.. Voi forse non lo sapete, ma io, per la malattia che ho dalla nascita, non conosco affatto le donne.
- Ma se è così, - esclamò Rogozin, - tu, principe, sei addirittura un santo, e quelli come te Dio li ama!
- Quelli come voi Dio li ama, - ripeté l’impiegato.
- E tu seguimi, scribacchino, - disse Rogozin a Lebedev, e tutti scesero dal treno.
Lebedev aveva finito col vincerla. Ben presto la rumorosa brigata si allontanò in direzione del Voznesenskij prospèkt. Il principe dovette svoltare verso via Litéjnaja. Il tempo era umido e piovoso; il principe interrogò i passanti: la sua meta era distante un tre verste, ed egli si decise a prendere una vettura.