III.

1225 Words
III.Auclair faceva un discreto commercio di droghe, di erbe e di medicine di sua composizione, ma i clienti lo ricompensavano poco, e pochissimi in denaro. E poi, si fermavano a discorrere, e così gli facevano perdere tempo, e lo distraevano dallo studio delle piante canadesi. Come la maggior parte dei filosofi, egli non era alieno dal discorrere, ma in generale i discorsi erano chiacchiere e pettegolezzi; ai coloni piaceva andare in quella casa con un pretesto qualunque; per coloro che erano nati in Francia, l’interno ne richiamava un po’ la patria. In qualche mattinata pesante, quando le nubi di spessa nebbia grigia s’alzavano dal San Lorenzo, faceva piacere andare in un luogo che ricordava una farmacia di laggiù: dare un’occhiata alla comoda sala fra gli alti scaffali e i cassettoni che la separavano dalla bottega senza nasconderla interamente. Euclide Auclair era venuto col Conte di Frontenac otto anni prima, come suo medico e farmacista, e aveva perciò potuto portare tutto quel che gli era piaciuto delle sue cose personali: era venuto con un completo rifornimento di droghe e di specifici, col suo apparecchio di distillazione, e mortai, bilance, storte, alambicchi, tutti gli accessori della sua professione e perfino il piccolo alligatore impagliato, portato molto tempo prima dalle Indie occidentali a Parigi da qualche marinaio, e acquistato dal nonno di Auclair per ornare la bottega sul Quai des Célestins. Madame Auclair aveva portato le sue robe di casa, senza le quali non poteva nemmeno immaginare la vita, e la sala dietro la bottega somigliava molto alla vecchia sala di Parigi. V’era lo stesso tappeto di Lione un po’ frusto, la tavola di noce, i due grandi seggioloni a braccioli, e il sofà con l’alto schienale tappezzato di velluto rosso rame; alle finestre lunghe tende di velluto della stessa qualità orlate di bruno. Sul caminetto lo stesso candelabro e lo stesso pastorello di porcellana; sulle pareti, le stesse stampe a colori di scene pastorali. Madame aveva portato in Canada la bella biancheria abbondante che era stata il suo corredo di sposa, i letti di piume, le coperte, i guanciali. Finché era vissuta, aveva fatto tutto il possibile per rendere la nuova vita uguale alla vecchia. Quando cominciò ad avere la certezza che non sarebbe più stata tanto bene da poter tornare in Francia, sua cura principale fu di educare la figliola in modo che potesse continuare in quell’ordine di vita anche dopo la sua scomparsa. Madame Auclair era stata occupata fino a poche settimane prima della sua morte. Quando la prese la tosse (era morta di malattia di petto) e fu costretta a starsene coricata sul sofà rosso, sotto la finestra, chiamava Cécile a sederle vicino sopra uno sgabello. Dopo aver ripreso respiro ed essersi riposata, le dava dolcemente spiegazioni sul ménage. «Tuo padre ha lo stomaco delicato» mormorava, «e qui il vitto è grossolano. Se non è preparato con cura, egli non mangerà e si ammalerà. Ed egli non può dormire fra le coperte di lana, come qui fanno molti, perché ha la pelle sensibile. Bisogna cambiare le lenzuola ogni due settimane, ma non cercare di lavarle nell’inverno: ne ho portate tante che possono bastare; quelle sporche mettile su, al freddo, piegate, e in aprile, quando le piogge di primavera riempiono tutti i recipienti di acqua limpida, chiama la grossa Jeannette, che ti faccia un gran bucato: affidale la casa, e lasciale parecchi giorni perché faccia il suo lavoro. Dille di stirare con cura le lenzuola: sono del miglior lino, e dureranno per tutta la tua vita, se saprai tenerle bene». Madame Auclair non parlava mai della sua morte vicina, ma diceva frasi di questo genere: «Fra un po’ di tempo, quando io sarò troppo ammalata per aiutarti, troverai forse faticoso fare tutte queste cose da sola, e sempre. Ma col tempo finirai con l’amare il tuo compito, come faccio io. Vedrai che tutta la felicità di tuo padre dipende dall’ordine e dalla regolarità, e avrai in ciò il premio. Senz’ordine, la nostra vita sarebbe disgustosa, come quella dei poveri selvaggi. A casa, in Francia, abbiamo imparato a fare tutte queste cose nel modo migliore, perciò ci dicono il popolo più civile d’Europa, e le altre nazioni ci invidiano». Dopo simili avvertimenti, Madame Auclair fissava la fanciulla negli occhi, che si facevano così scuri quando il suo cuore era commosso, proprio come l’azzurro delle calendule canadesi, e ripeteva fra sé e sé: «Oui, elle a beaucoup loyauté». Durante l’ultimo inverno della sua malattia, ella rimaneva per molto tempo su quel sofà rosso, venuto di tanto lontano su quella rocca d’un paese selvaggio. Fuori, di tra la neve ammucchiata contro i vetri delle finestre, filtrava nella stanza una luce grigia, ed ella poteva udire Cécile muoversi leggera per la stanza, a metter legna nella stufa di ferro o a lavare le casseruole. Allora pensava timorosa a tutto quello che affidava a quella testolina rasata: qualche cosa di prezioso, di intangibile; un senso della vita che era venuto a lei attraverso tanti secoli, e che ella aveva portato con sé attraverso l’annientatrice immensità dell’oceano brutale. Il senso della “nostra maniera” – questo ella desiderava lasciare a sua figlia. Aveva bisogno di credere che anche quando ella avrebbe dormito in quella rude terra canadese, la vita avrebbe proseguito quasi immutata in quella stanza, con le cose a lei care (e per lei belle), e che sarebbero state rispettate tutte le convenienze, tutte le piccole sfumature del sentimento che facevano e fanno bello il vivere. La personalità, il carattere, per così dire, della casa di Auclair non erano fatte solo del legno, delle stoffe, dei vetri e di quel po’ d’argento che si vedeva, ma era fatta in realtà delle belle qualità morali di due donne: la ferma fedeltà della madre a certe tradizioni, e l’attaccamento della figlia ai desideri della madre. Por queste cose che ricordavano il passato, e per il genere di vita che vi si viveva, i concittadini approfittavano di ogni pretesto per fermarsi nella bottega dello speziale. Anche lo strano, rancoroso, misterioso vescovo Laval (più intrattabile e chiuso che mai, ora che il nuovo vescovo era tornato e pareva fare a lui così poco caso), entrava col suo passo pesante nella bottega, per prendere pillole di calomelano o bende per le sue gambe varicose, e dava un’occhiata, non scortese, alla sala. Una volta aveva chiesto un ramoscello di prezzemolo che qui cresceva in un vaso anche nell’inverno, e se l’era portato via in mano, quantunque, lo sapevano tutti, egli si negasse qualunque delicatezza della tavola e mangiasse solo i cibi più meschini e meno appetitosi. In un angolo celato alla bottega dagli alti scaffali, e ben riparato dalle correnti della finestra, v’era il letto di Auclair, con quattro colonne e pesanti cortine. Sotto, v’era un letto da bambini, dove Cécile dormiva ancora nella fredda stagione. Qualche volta, nelle notti più rigide, quando la tenaglia del freddo immoto e intenso serrava la rocca come se avesse voluto spegnervi l’ultima scintilla di vita, lo speziale udiva sua figlia alzarsi in silenzio, a muovere qualche cosa, a coprire qualche cosa. Mettendo fuor delle cortine il suo berretto da notte, chiedeva: «Que fais-tu, petite?» E una voce ansiosa e assonnata rispondeva: «Papa, j’ai peur pour le persil». Esso non era mai gelato al tempo di sua madre, e non doveva gelare ora che l’aveva lei in custodia.
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