II. LA MADRE.

1048 Words
II. LA MADRE. Fin dall’infanzia, Elisa era stata allevata dalla sua padrona con una certa parzialità, come il cucco di casa. Chiunque abbia viaggiato nel Sud poté scorgere il fare squisito, la dolcezza dei modi e del linguaggio che sono la precipua dote delle meticce e delle mulatte. Le grazie naturali vanno spesso unite, nelle prime, alla più rara bellezza, quasi sempre a leggiadre forme. Elisa non è una figura immaginaria; noi l’abbiamo dipinta quale la vedemmo nel Kentucky or sono alcuni anni. Oggetto delle vigili cure della sua padrona, essa cresceva lungi dalle tentazioni che fanno della bellezza un retaggio sì funesto per la schiava. Fu maritata ad un giovane mulatto, bello e intelligente, schiavo in una vicina piantagione. Questo giovane, dato a nolo dal suo padrone ad un fabbricante di sacelli, aveva mostrato nel suo lavoro una intelligenza ed una abilità che lo facevano considerare da tutti come il miglior lavorante della fabbrica. Egli aveva inoltre inventato una macchina per purgar la canapa, cosa invero straordinaria, ove si consideri la nascita e l’educazione dell’inventore. Giorgio, non meno intelligente che bello, e di gentili maniere, si era attirato ben presto tutti i cuori nella fabbrica. Nondimeno, perché innanzi alla legge egli non era un uomo, ma una cosa, le eminenti sue qualità rimanevano sotto il dominio d’un padrone stupido, volgare e tiranno. Avendo questi sentito parlare della famosa invenzione di Giorgio, volle un giorno andare a vedere che cosa quella sua proprietà intelligente avesse fatto. Il fabbricante si congratulò con lui che fosse possessore di uri simile schiavo. Ed eccolo a visitar la fabbrica, guidato da Giorgio stesso, il quale, con sembiante giulivo e animato, gli fa vedere le macchine, ma porta sì alta la fronte, parla sì correttamente, apparisce sì bello e sì virile ad un tempo, che il suo padrone, ascoltandolo e seguendolo con lo sguardo, non può a meno di sentire la propria inferiorità. Perché mai doveva quello schiavo correre il paese, inventar macchine, e tener alta la fronte come se fosse un gentleman ? «Ma» diceva tra sé «lo concerò io per il dì delle feste, e quando bisognerà vangare e zappare, vedremo che cosa sarà della stia superbia!» Perciò richiese il pagamento dovuto per il nolo di Giorgio, e, con stupore di tutti, dichiarò la sua intenzione di ricondurselo immediatamente a casa. — Ma, signor Harris, — gli osservò il fabbricante — questa determinazione non è troppo subitanea? — E quando ciò fosse, costui non è forse cosa mia? — Noi saremmo disposti, signore, a pagarvelo di più. — È inutile, ho ripensato bene: io non mi trovo in tal bisogno di dare a nolo i miei schiavi. — Ma questa occupazione, signore, sembra fatta apposta per lui! — Può darsi; so bene che in casa mia non fu mai capace di fare una sola delle cose che gli comandai! — E quando si pensa ch’egli inventò questa macchina! — esclamò inavvertitamente un lavorante. — Oh, sì! Ecco una macchina per risparmiar fatica, non è vero? Celebrate i negri per questo! E a qual pro, di grazia? Ciascuno di essi non è una macchina? — Giorgio stette come impietrito udendo la sua sentenza pronunziata da un’autorità alla quale era impossibile far resistenza. Incrociò le braccia e si morse le labbra; ma l’ira gli bolliva nel petto a guisa di un vulcano e pareva che una fiamma divoratrice gli scorresse nelle vene. Ansante, con gli occhi accesi, egli era in procinto di sfogare la sua bile; ma il buon fabbricante, ponendogli la mano sopra il braccio, gli disse a mezza voce: — Cedete, Giorgio; andate per ora; noi procureremo di trarvi di colà. — Il padrone tiranno si avvide di quell’ a parte , e ne comprese il senso; onde risolvette di star più saldo nella risoluzione presa, di valersi del suo potere sopra la sua vittima. Giorgio fu ricondotto e messo ai più duri e più bassi lavori della fattoria. Egli poteva ben reprimere ogni parola d’insubordinazione, ma il lampeggiare de’ suoi sguardi e l’aggrottamento delle sue ciglia dicevano chiaramente che non era possibile che l’uomo divenisse una cosa. Giorgio aveva conosciuto e preso in moglie la sua Elisa nel tempo in cui dimorava alla fabbrica. Possedendo la fiducia del suo capo, egli andava e veniva con tutta libertà. Il suo matrimonio aveva ottenuto la piena approvazione della signora Shelby, la quale, oltre al piacere tutto femminile che provava nel fare l’unione di due sposi, era veramente contenta di dare la sua bella protetta ad un uomo della stessa condizione di lei e quale per ogni rispetto le si conveniva. Essi ricevettero la benedizione nuziale nella gran sala della signora Shelby, che ornò ella medesima di fiori di cedro i bei capelli della sua schiava ed acconciò il candido velo sulla graziosa sua testa. Nulla mancò a quelle nozze, né i guanti bianchi, né i vini squisiti e le paste dolci, né i convitati per ammirare la bellezza della sposa e l’indulgente liberalità della sua padrona. Nel corso di due anni Elisa vide spesso suo marito, né la loro felicità fu interrotta se non dalla perdita di due bambini che essi amavano appassionatamente. La giovane madre li pianse con un cordoglio sì profondo, che la signora Shelby, la cui materna sollecitudine si adoperava continuamente a indirizzare verso il cielo quell’anima di fuoco, gliene dovette fare dolci rimproveri. Dopo la nascita di Enrichetto il dolore di Elisa si acquetò ed il suo cuore, riannodato da quel fanciullo alla vita, a poco a poco sentì le sue piaghe rimarginarsi. Essa fu felice fino all’istante in cui il suo marito venne strappato dalla fabbrica per mano di chi n’era il possessore legale. Fido alla sua parola, il fabbricante visitò Harris alcune settimane dopo l’avvenimento sperando di trovare acquetato il suo sdegno, e con tutti gli argomenti possibili si studiò di persuaderlo acciocché rimettesse il suo schiavo alle precedenti sue occupazioni. — Non mi venite a rompere il capo; — rispose quegli brutalmente — so quello che ho da fare! — Non era intenzione mia d’insegnarvelo, signore; ma pensavo che, considerato bene ogni cosa, voi avreste trovato il vostro interesse a cedermi quest’uomo alle condizioni che io vi proponevo. — Intendo. Non mi sfuggirono l’altro giorno i vostri segni d’intelligenza; ma io non ho paura di voi. Siamo in paese libero, sapete; quell’uomo mi appartiene, ed io faccio di lui ciò che voglio. E basta! — Cadeva in tal modo l’ultima speranza di Giorgio, che non aveva davanti a sé che un avvenire di lavori degradanti, resi più amari dalle vessazioni continue di una tirannia studiata.
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