ZELANDA
Se prima che io mi determinassi a fare un viaggio in Olanda, un professore qualunque di geografia m’avesse fermato allo svolto d’una strada, domandandomi bruscamente:—Dov’è la Zelanda?—sarei rimasto senza parola, e non credo d’ingannarmi, supponendo che un buon numero dei miei concittadini, a cui si facesse quella domanda, non troverebbero subito una risposta. Per gli Olandesi medesimi la Zelanda ha del mistero; pochissimi ci sono stati, e tra questi i più non fecero che attraversarla in battello; quindi se ne parla di rado e come d’un paese lontano. Dalle prime parole che intesi dire ai viaggiatori che salirono con me sul bastimento, quasi tutti belgi e olandesi, m’accorsi che anch’essi avrebbero veduto quella provincia per la prima volta; eravamo dunque tutti curiosi ad un modo; e il bastimento non era ancora partito che avevamo attaccato discorso, e ci aguzzavamo la curiosità reciprocamente, con domande alle quali nessuno sapeva rispondere.
Allo spuntare del sole, il bastimento partì, godemmo per un pezzo la vista del campanile della cattedrale d’Anversa, fatto di trina di Malines, come diceva Napoleone I, che n’era innamorato; e dopo aver toccato il forte di Lillo e il villaggio di Doel, uscimmo dal Belgio ed entrammo nella Zelanda.
Nel punto che si passa per la prima volta la frontiera d’uno Stato, per quanto si sappia che lo spettacolo non cangia tutt’a un tratto, si guarda intorno curiosamente come se tutto dovesse essere cangiato. Tutti infatti s’appoggiarono al parapetto del bastimento come per assistere all’apparizione improvvisa della Zelanda.
Per un buon tratto la curiosità rimase delusa: non si vedevano che lo sponde piane e verdi della Schelda, larga come un braccio di mare, e sparsa di banchi di sabbia, su’ quali raccoglievano il volo degli stormi di gabbiani gettando dei leggieri gridi; e il cielo purissimo non pareva punto cielo d’Olanda.
Si navigava fra l’isola di Zuid-Beveland e quella lista di terra che forma la riva sinistra della Schelda, chiamata Fiandra degli Stati o Fiandra Zelandese.
La storia di questa lista di terra è assai curiosa. Per lo straniero che entra in Olanda, essa è come la prima pagina della grande epopea che s’intitola: la lotta col mare. Nel medio evo non era che un vasto golfo con poche isolette. Questo golfo, sul principio del sedicesimo secolo, non esisteva più; con quattrocento anni di lento lavoro lo avevan cangiato in una fertile pianura difesa da dighe, solcata da canali e popolata di villaggi, che si chiamava la Fiandra Zelandese. Quando scoppiò la guerra dell’indipendenza, gli abitanti della Fiandra Zelandese, piuttosto che cedere la loro terra agli eserciti spagnuoli, apersero le dighe, il mare irruppe e distruggendo in un giorno il lavoro di quattro secoli riformò il golfo del medio evo. Finita la guerra d’indipendenza, si ricominciarono i lavori di prosciugamento, e dopo trecento anni la Fiandra Zelandese risalutò il sole e fu restituita al continente, come una figliuola risorta. Così in Olanda le terre sorgono, spariscono e riappaiono, a somiglianza dei regni delle novelle arabe, al tocco delle verghe dei maghi. La Fiandra Zelandese, divisa dalla Fiandra Belga dalla doppia barriera politica e religiosa, e separata dall’Olanda dalla Schelda, conserva i costumi, le credenze, l’impronta intatta del sedicesimo secolo. Le tradizioni della guerra contro la Spagna vi sono ancora vive e parlanti come d’un avvenimento del tempo. La terra è fertile, gli abitanti godono d’una prosperità straordinaria, hanno costumi severi, scuole, stamperie, e vivono così in pace nel loro frammento di patria rinata ieri, fino al giorno che il mare non la ridomandi per una terza sepoltura. Un Belga, mio compagno di viaggio, che mi diede queste notizie, mi fece osservare giustamente che gli abitanti della Fiandra Zelandese, quando inondarono le loro terre, benché già sollevati contro la dominazione spagnuola, erano ancora cattolici, e che per conseguenza era seguito a quella provincia lo strano caso di sprofondarsi nelle acque cattolica, e di tornare a galla protestante.
Il bastimento, con mia grande meraviglia, invece di continuare a discendere la Schelda per girare intorno all’isola di Zuid-Beveland, arrivato a un certo punto, entrò nell’isola infilando uno stretto canale, che l’attraversa da un capo all’altro, o meglio la spacca in due, e congiunge così i due bracci del fiume, che formano l’isola stessa.
Era il primo canale olandese per il quale passavo: fu un’impressione nuova. Il canale è fiancheggiato da due alto dighe che nascondono la campagna; il bastimento scorreva così quasi di soppiatto, come se avesse preso quella via traversa per riuscire improvvisamente alle spalle di qualcuno; e come non v’era una barca nel canale nè un’anima viva sulle dighe, la solitudine e il silenzio davano ancor meglio a quella corsa nascosta l’aria d’un tradimento da pirati.
Uscendo dal canale, si entrò nel braccio orientale della Schelda.
Eravamo nel cuore della Zelanda. A destra avevamo l’isola di Tholen, a sinistra l’isola di Noord-Beveland, dietro quella di Zuid-Beveland, dinanzi quella di Schouwen. Fuori che l’isola di Valcheren, si vedevano tutte le principali isole dell’arcipelago misterioso.
Ma in questo consiste il mistero: quelle isole non si vedevano, s’indovinavano. A destra e a sinistra del fiume larghissimo, davanti e dietro al bastimento, non si vedeva che la linea diritta delle dighe, come una striscia verde a fior d’acqua, e dietro questa striscia, qua e là, cime d’alberi, punte di campanili, comignoli rossi di tetti, che pareva facessero capolino per vederci passare. Non una collina, non un rialto di terra, non una casa scoperta da nessuna parte: tutto era nascosto, tutto pareva immerso nell’acqua; si sarebbe detto che quelle isole erano sul punto d’esser sepolte dal fiume e si guardava ora l’una ora l’altra come per assicurarsi che c’erano ancora. Pareva di attraversare un paese nel giorno del diluvio e si provava un piacere a pensare che si era su un bastimento. Di tratto in tratto il bastimento si arrestava e qualche passeggiero zelandese scendeva in una barca che si dirigeva verso la riva. Benché fossi curioso anch’io di visitare la Zelanda, pure guardavo quella gente con un certo sentimento di compassione, come se quelle che parevano isole non fossero che balene mostruose, che si dovessero sprofondare nell’acqua all’avvicinarsi della barca.
Il capitano di bastimento, olandese, passandomi accanto, si soffermò a guardare una piccola carta della Zelanda che avevo tra le mani; io afferrai l’occasione pel ciuffo e lo tempestai di domande. Per mia fortuna m’ero imbattuto in uno di quei pochi Olandesi che hanno comune con noi Latini la debolezza di amar il suono della propria voce.
“Qui, in Zelanda,” mi disse colla serietà d’un maestro che fa la lezione, “le dighe, più ancora che nelle altre provincie, sono quistione di vita o di morte. A marea alta tutta la Zelanda rimane al di sotto delle acque. A ogni diga che si rompesse, sparirebbe un’isola. E il guaio è che qui la diga non deve soltanto resistere all’urto diretto dell’onda; ma ad un’altra forza anche più pericolosa. I fiumi si gettano verso il mare, il mare si getta contro i fiumi, e in questa lotta continua, si formano delle correnti basse che rodono la base delle dighe, sin che le fanno sprofondare tutt’a un tratto, come farebbe una mina ad un muro. Gli Zelandesi debbono stare continuamente all’erta. Quando una diga è in pericolo, ne fanno un’altra più addentro, e aspettano l’assalto delle acque dietro a questa, e così guadagnan tempo, e o rifanno la prima diga, o continuano a dare addietro di fortezza in fortezza, o la corrente si svia e son salvi.”
“E non potrebbe darsi,” domandai sempre avido di notizie poetiche, “che un giorno la Zelanda non esistesse più?”
“Tutto il contrario,” mi rispose con mio rammarico; “può venire il giorno in cui la Zelanda non sia più arcipelago ma terraferma. La Schelda e la Mosa portano continuamente limo che rimane in fondo ai bracci del mare e che alzandosi a poco a poco ingrandisce le isole e chiude nella terra città e villaggi ch’erano sulla riva e avevano i loro porti. Axel, Goes, Veere, Arnemiuden, Middelburg, erano città marittime e ora sono città di terra. Verrà dunque un giorno in cui fra le isole della Zelanda non passeranno più che le acque dei fiumi e si stenderà una rete di strade ferrate su tutto il paese, che sarà congiunto al continente, come gli è già congiunta l’isola di Zuid-Beveland. La Zelanda, nella lotta col mare, ingrandisce. Il mare potrà riuscire a qualche cosa dalle altre parti dell’Olanda; ma qui ha la peggio. Lei conosce lo stemma della Zelanda: è un leone che nuota e vi è scritto su: Luctor et emergo.”
Qui rimase qualche momento senza parlare e gli brillava negli occhi un barlume d’alterezza che si estinse subito; poi ricominciò colla gravità di prima:
“Emergo; ma non emerse sempre. Tutte le isole della Zelanda, una dopo l’altra, dormirono per più o men tempo sott’acqua. Tre secoli fa l’isola di Schouwen fu inondata dal mare, che annegò abitanti e bestiami da un capo all’altro e la ridusse un deserto. L’isola di Noord-Beveland fu sommersa tutta intera poco tempo dopo, e per parecchi anni non si videro più che le punte dei campanili fuor dell’acqua. L’isola di Zuid-Beveland ebbe la stessa sorte verso la metà del quattordicesimo secolo. L’isola di Tholen, la stessa sorte in questo medesimo secolo, nel 1825. L’isola di Walcheren la stessa sorte nel 1808, e nella città di Middelburg, sua città capitale, lontana parecchie miglia dalla costa, ci fu l’acqua sino ai tetti.”
A sentir sempre parlar d’acqua, d’inondazioni, di paesi sommersi, ero ridotto che mi pareva strano di non essere ancora annegato. Domandai al capitano che gente fosse quella che stava in quei paesi invisibili, coll’acqua sotto i piedi e sopra la testa.
“Agricoltori e pastori,” mi rispose. “Noi diciamo che la Zelanda è un gruppo di fortezze difese da un presidio di agricoltori e di pastori. In fatto d’agricoltura la Zelanda è la provincia più ricca dei Paesi Bassi. La terra d’alluvione di queste isole è d’una fertilità meravigliosa. Il frumento, la colza, la robbia, il lino vi fanno come in pochissimi altri paesi. Vi sono dei bestiami stupendi e dei cavalli colossali, più grandi ancora che i cavalli fiamminghi. Il popolo è bello e forte, conserva i suoi costumi antichi e vive contento nella sua prosperità e nella sua pace. La Zelanda è un paradiso nascosto.”
Mentre il capitano mi faceva questo discorso, il bastimento entrava nel canale di Keete che divide l’isola di Tholen dall’isola di Schouwen, famoso per il guado che vi fecero gli Spagnuoli nel 1575 com’è famoso il braccio orientale della Schelda per il guado del 1572. Tutta la Zelanda è piena di memorie di quella guerra. Questo piccolo arcipelago di sabbia, mezzo sepolto nel mare, per le particolari corrispondenze che vi riteneva Guglielmo d’Orange, antico signore di molte terre nelle isole, e per gl’impedimenti d’ogni natura che opponeva agl’invasori, era il focolare della guerra e dell’eresia, e il Duca d’Alba smaniava d’impadronirsene. Quindi seguirono su quelle rive delle lotte accanite, che riunivano tutti gli orrori delle battaglie di terra e delle battaglie di mare. I soldati guadavano i canali di notte, stretti gli uni agli altri, coll’acqua alla gola, minacciati dalla marea, flagellati dalla pioggia, fulminati dalle rive; i cavalli e le artiglierie affondavano nel fango; i feriti eran travolti dalla corrente o sepolti vivi nelle fitte; l’aria suonava di voci tedesche, spagnuole, italiane, fiamminghe, vallone, le fiaccole illuminavano qua e là i grandi archibugi, i pennacchi pomposi, i volti strani, e le battaglie parevano funerali fantastici; ed erano davvero i funerali della grande monarchia spagnuola che s’annegava lentamente nell’acque dell’Olanda, coperta di maledizioni e di fango. Chi ha peccato di soverchia tenerezza per la Spagna, se vuol fare ammenda, non ha che da andare in Olanda. Non ci son forse mai stati due popoli che avessero un maggior numero di buone ragioni per detestarsi con tutta la forza dell’anima, e che abbian fatto valere più rabbiosamente tutte queste buone ragioni. Mi ricordo, per notare uno solo dei mille contrasti, dell’impressione che mi faceva l’udir parlare di Filippo II in termini così diversi da quelli in cui ne avevo inteso parlare pochi mesi prima di là dai Pirenei. In Spagna il meno che se ne dicesse era gran re; in Olanda, tiranno vigliacco.
Il bastimento entrò fra l’isola di Schouwen e la piccola isola di San Philipsland, e in pochi minuti sboccò nel largo braccio della Mosa, chiamato Kramer, che divide l’isola di Overflakkee dal continente. Pareva di navigare per una catena di grandi laghi. Le rive eran lontane e presentavano ancora l’aspetto delle rive della Schelda: dighe a perdita d’occhio, dietro le dighe cime d’alberi, punte di campanili e tetti di case nascoste, che davano al paesaggio un’aria di mistero e di solitudine. Solamente su qualche sporgenza delle rive, che formava quasi una breccia negli immensi bastioni delle isole, si vedeva come un bozzetto di paesaggio olandese, una casetta colorita, un mulino a vento, una barca, che parevano la rivelazione d’un segreto, fatta per destare la curiosità dei viaggiatori, e deluderla, appena desta.