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1832 Words
Intanto Caio cominciava a ricordare. Si disegnavano nel vino i drappi di velluto purpureo che ornavano il Palazzo Imperiale, gli si affacciava alla mente una figura di donna bianchissima, un incedere altero e l’espressione superba di quel volto infantile. Aveva la fronte ampia e gli zigomi altissimi, tagliati in maniera elegante, che rivelavano la chiara appartenenza alla stirpe dei Cotta: Aurelia stessa, madre di Giulio Cesare avrebbe potuto avere quel volto. L’aveva vista spesso a corte, troppo per una vergine vestale il cui compito era la custodia del fuoco della dea in silenzio e castità. Di frequente, la sua veste monacale e il suo copricapo a molteplici matasse di lana, si confondevano tra le dame multicolori che popolavano il Palazzo Imperiale. La cosa interessante era che ogni volta Lelia pareva avere una scusa plausibile per essere presente e riusciva a far sembrare quei piaceri terreni così infinitamente lontani e staccati dalla sua eterea persona che ci si dimenticava di dubitare. Non parlava mai e fra tante donne famose per il loro spirito, quel silenzio incuriosiva. Quella sua aria lontana che non era sufficienza e non era disprezzo ma che aveva molto di entrambi, unita al voto di castità, eccitava la fantasia degli uomini fin troppo. Caio si chiese se lei, con i suoi diciassette anni, se ne rendeva conto e se, anzi, la sua giovinezza, castrata dalla monacazione, non le avesse reso i sensi più acuti ed esasperato i desideri. Persino Nerone l’aveva notata, sensuale e folle come sempre, colpito da quella grazia fragile esaltata dal rigore dell’abito e dopo l’ultima sua apparizione a corte, ne aveva parlato per giorni. L’ultima volta che Caio l’aveva vista, infatti, Lelia accompagnava la vestale Massima Lucrezia Domiziana a porgere gli auguri al Pontefice Massimo e Imperatore: era il compleanno di Nerone. La festa era stata organizzata in un clima di segretezza assoluta, poiché i costruttori della nascente Domus Aurea avevano preparato una sorpresa per gli ospiti del Principe. Si era ben lontani dall’avere completato il palazzo. I progetti di Nerone per la Domus Aurea, con plastici e disegni, occupavano un’area enorme e venivano continuamente mutati per il capriccio del principe o per quella che Nerone definiva un’intollerabile mancanza di spazio. D’altra parte, fuori dalla Domus Aurea vi era pur sempre Roma, e neppure a Nerone pareva possibile invadere i suoi quartieri senza ritegno. Ma le parti già terminate erano di un lusso superiore a ogni possibile immaginazione. Il palazzo nascente era la cornice ideale per quella corte di persone brillanti, alcune delle quali di origine piuttosto dubbia, che s’impegnavano nel compito di aiutare Nerone a sperperare i miliardi di sesterzi dell’erario romano. Il sogno di entrare a far parte degli Augustiani, i favoriti del Principe, dilagava tra i nobili e i cavalieri, così come l’ambizione di una folgorante carriera politica e militare aveva dominato i desideri dei loro antenati. Quello nella corte degli Augustiani era un posto che non si poteva comprare e che di rado la sola nobiltà era sufficiente a ottenere. Gravitavano, in quell’ambiente, ricchissime ereditiere o importanti personaggi che avevano bisogno del favore imperiale per vivere e la cui fortuna doveva servire a pagare le follie di qualche mantenuto dipinto caro a Cesare; ma per la maggior parte si trattava di uomini e donne di stirpe patrizia, coltissimi, dall’educazione perfetta, spiritosi e cinici, abituati a un’eleganza che nessuno sapeva imitare, ma che loro, spesso, non potevano pagare. Presiedeva in perpetuo la corte colui che era universalmente conosciuto come “l’arbitro d’eleganza”, Caio Petronio, nobile di antichissima stirpe e incomparabile raffinatezza, che, anche quella sera di alcuni mesi prima, sedeva immobile con un sorriso distante, circondato dai suoi intimi. L’illuminazione non era mai eccessiva a palazzo. Quando Caio era arrivato, gli ospiti erano già riuniti nella sala dei banchetti e nei corridoi esterni si incontravano soltanto schiavi che andavano e venivano reggendo mantelli o ventagli di dame, corone di fiori, o che si sistemavano gli abiti davanti agli specchi, impeccabili come il cerimoniere dell’Imperatore aveva insegnato loro ad essere. Entrato nella sala, dopo avere dato una breve occhiata intorno che gli permise di scorgere la sua precedente amante, Calvia Crispinilla, che lo aveva da poco lasciato, Caio avanzò verso il letto triclinare dove giaceva l’Imperatore. Nerone sorrise tendendo le mani verso l’amico e il dono che gli portava. Gli occhi chiari dell’Imperatore scintillarono di gioia mentre apriva la custodia di seta. Era un antico pugnale orientale carico di gemme che Caio aveva acquistato poco tempo prima proprio per quell’occasione. L’Imperatore finse perplessità. «È per uccidermi, Caio Sulpicio?». «È per difenderti, Cesare!», replicò questi con un inchino. Nerone, batté le mani alla risposta arguta e alzandosi a metà dal letto triclinare sul quale era disteso, fece avvicinare Caio per baciarlo. Pure, la paura di essere assassinato, lo afferrava sempre più spesso, al punto da renderlo paranoico. La musica era lieve e non si poteva capire da dove provenisse. Erano presenti tutte le più celebri bellezze romane, donne ambigue, dai gusti ricercati e con migliaia di sesterzi in gemme cuciti sugli abiti. Caio si guardò intorno per cercare un posto di suo gusto e notò un angolo libero accanto alla famosa etera Epicari. Inutile descrivere lo stupore generale quando fu messo in funzione il meccanismo che doveva essere la sorpresa della serata: il corpo centrale del salone prese lentamente a ruotare su se stesso mentre dal soffitto d’avorio intarsiato scendevano nuvole di profumo e petali di rosa sugli ospiti. I contorni della sala si sfumarono in una nube purpurea. I cortigiani balzarono dai divani terrorizzati con palese divertimento dell’Imperatore che, dal suo posto rialzato al centro della sala, brindava alla salute degli ospiti e veniva fatto girare in tondo come una statua di Dioniso, montata su un assurdo giocattolo musicale. Epicari, la chioma bruna nascosta da una parrucca turchese, non aveva mostrato più che un blando interesse per la famosa sorpresa di Nerone e tendeva le braccia a Caio con uno sguardo più che invitante. La curva dei seni che emergevano dalla scollatura catturò lo sguardo del patrizio. Ma l’interesse di Caio fu distratto di colpo. Era entrata, abbastanza in ritardo per essere notata, ma non tanto da apparire scortese, una sua vecchia conoscenza. «Cecilia Metella», commentò Epicari, seguendo con gli occhi la donna bruna dall’aria un po’ orientale. «Direi di sì», rispose Caio facendo finta di nulla, ma in realtà seccato perché corteggiava Cecilia da settimane e lei non pareva notarlo. Da un punto di vista sentimentale, era decisamente un periodo nero. Epicari gli accarezzò il viso ricatturando la sua attenzione. «Ricordati che ci sono altre donne a Roma… e che io aspetto di poterti compiacere da troppo tempo». «Nessuna quanto te mi potrebbe rendere difficile dimenticarlo, signora», sussurrò automatico il cortigiano che era in Caio, sfiorandole il collo con le labbra. Epicari si stirava leggermente, tendendo indietro il capo per meglio offrire il collo ai suoi baci e Caio cominciò ad avvertire una piacevole sensazione in fondo al ventre. Certo, Epicari era una prostituta, ma era la cortigiana più alla moda di Roma e le sue grazie erano giudicate ineguagliabili. Sentiva che era calda per lui e che non aveva che da prenderle la mano e condurla in una qualunque stanza ombrosa che non fosse già occupata, dove consumare con calma un po’ di sesso ben fatto o semplicemente stuzzicare i sensi e semi-possederla, semi-amarla, assaggiarla soltanto per poi rimandare il piacere a luoghi più intimi. Il clima licenzioso era d’obbligo. Voleva sciuparsi la serata per una donna anziché gustarla insieme a un’altra? Caio cercò di scacciare dalla mente sia Calvia che Cecilia e strinse Epicari più forte stordendosi del suo profumo. La sua pelle era rovente e salda. Quando si distese più comodamente dietro di lei sul letto triclinare e con la disinvoltura della pratica, le infilò una mano sotto all’abito pressoché senza scomporlo, lei dischiuse subito le cosce. Decisamente era il caso di trovare un angolo più appartato perché la serata era ancora troppo giovane per giocare a questi giochi in pubblico… Ma che piacere sarebbe stato sedurre l’incrollabile Cecilia, sorella di quel Metello che gli aveva rubato la sua Calvia e restituire in parte il favore… Aveva scommesso con Petronio sul proprio successo entro i Saturnali2 e si avvicinava il tempo della sconfitta. Il meccanismo che muoveva la sala fu fermato quando, tra gli abiti multicolori degli augustiani, comparvero le stole bianche delle vestali. Sul momento Caio non vi fece caso, ma ripensandoci, un fremito percorse la sala. Le due donne comparvero sotto la volta decorata della porta: Lucrezia sui quarant’anni, alta, emaciata per le veglie e i digiuni, il volto arcigno, portava i capelli strettamente raccolti sotto la candida infula di matasse di lana; ma Lelia no. Il nastro che legava la tradizionale fascia di lana bianca avvolta intorno al capo era allentato, volontariamente o per noncuranza e lasciava sfuggire un unico indiscreto ricciolo rosso al lato della fronte pallida. Aveva un passo da regina e un’aria lontana che seducevano all’istante. Fu davvero impossibile non notare il moto di disappunto che Poppea non seppe reprimere quando Nerone volle ringraziare per il dono simbolico che le vestali gli offrivano baciando la mano bianca di Lelia e si dilungò nel discorso al solo scopo di trattenerle. Una ruga netta era scivolata tra le sopracciglia di Lucrezia mentre l’Imperatore sfiorava con le labbra la mano della sua protetta e poi, del tutto inopportunamente, la guancia. Ovviamente fu uno scandalo. In nessun caso era consentito baciare una vestale! La vestale Massima sussultò come se l’avessero bruciata. Poppea, che sedeva al fianco di Cesare, pur essendo ancora sposata a Otone, inorridita, aveva fatto cadere un calice. I maligni ebbero occasione di sogghignare. Lelia invece era una sfinge, sondava i volti attorno a lei con distacco apparente senza voltare la testina superba ma frugando con gli occhi tra la gente. Caio allora non poteva sapere che cercava qualcuno. Così, quando il senatore si era ormai dileguato per consumare il suo piacere con la più nota cortigiana del momento e Cecilia si era appartata con una zia più anziana, smodatamente ricca, la cui compagnia, o la speranza della cui eredità, pareva preferire ai complimenti maschili, l’amante ufficiale di Petronio, Silia, prese a succhiare con impegno un acino d’uva e i suoi occhi ebbero un lampo d’intesa con quelli dell’amante. «Domani ci sarà tempesta», sentenziò con aria assorta mentre Nerone congedava con evidente rammarico le due vestali. Tutti sapevano che le profezie di Silia si avveravano sempre. La confidenza che Nerone si era preso era inaccettabile. L’amante imperiale, Poppea, non si era divertita e aveva commesso l’errore di lasciarlo capire. Tutti si dissero che doveva esserci di più. Ci furono delle chiacchiere. Si parlò di un litigio, si disse che l’augusta coppia aveva discusso irosamente per l’intera nottata. E si disse altro ancora. E poi, col tempo, tutto svanì in una nuvola di fumo al comparire di nuovi, più avvincenti pettegolezzi. Poppea mostrò di avere scordato l’episodio, Nerone forse lo scordò davvero e Caio si ritrovò solo con Aspro senza alcuna certezza salvo il fatto che una donna sacra era morta e che se il caso non si poteva risolvere alla svelta, un capro espiatorio andava trovato in fretta.
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