Si parla di delitto

2945 Words
Si parla di delitto La stanza era di forma rettangolare. Lungo le pareti imbiancate a calce erano allineati degli scaffali a ripiani di legno greggio sui quali, alla rinfusa, si potevano ammirare i più disparati oggetti di ceramica. Si andava dal servizio di piatti di un bel blu cupo alle tazzine da caffè rosso fiamma, dagli anelli e collane dai colori allegri e un po’ pacchiani, alle ciotole e vasi di tutte le forme e misure. Tra quest’accozzaglia, l’occhio era attirato da qualche pezzo unico. Fosse in ceramica o in grès non importava, come non importavano le dimensioni dell’oggetto. Là dove la mano dell’artista si era battuta nello sforzo di creare, aveva lasciato il segno. Al centro della stanza c’era un lungo tavolo da lavoro sul quale erano chine tre persone in cappa bianca. L’uomo aveva finito da un pezzo di coprire con le terre colorate un gran piatto ed ora guardava le due donne lavorare. Si sentiva perfettamente rilassato. – Ecco fatto – disse Raffaella posando il pennello. Allontanò il vaso panciuto sul tavolo. – È uno dei pezzi che esporrò, sempre che il forno non mi tradisca. Cerere, con un pennellino sottile, mise la firma della sorella sul retro di una ciotola. – Verrà benissimo, sta pur certa, come tutto quello che fai. Ora però basta con la ceramica, mi sembra che il nostro Pace stia sbadigliando. – È l’aria di Alassio – ammise Alessandro Pace. – Mi fa sempre un certo effetto. Raffaella snodò il fazzoletto di cotone che le copriva la testa ed una massa di riccioli neri le si riversò sulle spalle. – Se è così dovresti venire più spesso a trovarci, l’ultima volta che sei stato qui ero ancora una vecchia ragazza non del tutto da buttare; guardami ora... – sorrise con civetteria spalancando gli occhi che erano grandi. Naturalmente Pace protestò, ma si rese conto che Raffaella aveva parlato seriamente. C’era stato un interrogativo nella sua voce. Eppure, si disse, porta bene i suoi anni. Doveva averne, se non sbagliava, quaranta. La sua figura si manteneva snella, e il viso, nonostante le rughe attorno alla bocca e agli occhi, era sempre quello di un angiolone arruffato e pieno di energia. Sentirà la solitudine, pensò. Una vita passata nella quiete di questa casa... Lei, si ricordava, era stata ambiziosa. Allora sognava il lavoro insieme ad altri artisti, le grandi mostre... Non era mai riuscita a sganciarsi da Alassio. Prima la malattia della madre, poi il fratello, l’unico uomo di casa da viziare finché una moglie non se l’era portato lontano, ed ora il lavoro che procede bene, l’abitudine... Non ha più l’energia per incominciare tutto daccapo e prova dei rimpianti. Pace guardò Cerere che velocemente stava sgomberando il tavolo. Non assomigliava alla sorella. Era più anziana di cinque anni ed il suo volto segnato da molte rughe, era di una bellezza calma. Portava i capelli lisci raccolti in un nodo sulla nuca, vestiva con pantaloni e blusa informi, che davano ad ogni suo movimento un ritmo armonico e riposante. Era piacevole guardarla. Per lei, pensò Pace, forse era stato più facile, non aveva grandi ambizioni. Dalla sorella aveva imparato il mestiere ed era diventata un ottimo artigiano. “Io non creo” soleva dire, “non sono un artista”. Cerere doveva aver rimuginato le parole di Raffaella perché ad un tratto sbottò: – In questa casa ci vorrebbe un uomo. È tanto grande, e poi scricchiola. – Cosa fa? – chiese Pace. – Scricchiola. Sì, tu non ci crederai, ma sono appena due giorni che sei arrivato e la casa si è calmata. Di solito geme e si lamenta come in un romanzo gotico. A volte è proprio lugubre. Pace rise: – È una bella casa invece, e molto allegra. Anche Camillo la sente amica e posso lasciarlo libero di girare dove vuole. Camillo se ne stava sdraiato sul davanzale della finestra, apparentemente intento a prendere il sole e a sonnecchiare. Aveva trovato posto tra un servizio da tè di ceramica rossa e due vasi neri di grès dalla forma allungata. Era talmente immobile da parere di smalto anche lui. – È un gran bel gatto – osservò Raffaella. – E che pelo! Così lungo e chiaro, e poi quel muso quasi blu... stupendo! Anche da cucciolo aveva fascino. Guarda come se la dorme beato. In realtà Camillo non dormiva, Pace se ne accorse alla prima occhiata, fingeva soltanto. Le orecchie erano basse, in una posizione tesa e innaturale, gli occhi una fessura a lama di coltello. Stava guardando ed ascoltando, era arrabbiatissimo. Sperava che lo portassi a Roma e di viaggiare in aereo. Ormai è fissato, pensò Pace. Negli ultimi mesi, Pace e Camillo per ragioni di lavoro, avevano fatto quasi settimanalmente il tragitto Genova-Roma in aereo. Una hostess, neppure la più carina a giudizio di Pace, si era prodigata in complimenti e carezze per Camillo. Forse quella donna aveva addosso un profumo speciale che lo faceva impazzire, o era il modo vagamente esotico di pronunciare il suo nome: un Caamillooo strascicato e con tante a e tante o a fargli effetto, sta di fatto che ogni volta che lei lo accarezzava, Camillo rincretiniva. Pace non gli aveva mai visto fare tante smorfie per nessuna gatta. Due giorni prima, capito che sarebbero partiti, Camillo, forse, si era preparato ad un nuovo incontro, invece si era ritrovato in treno deluso. Ad Alessandro Pace viaggiare in treno piaceva sin da bambino, gli procurava un trambusto interno, una sospensione piacevole. L’ansia di perderlo, imboccare il binario giusto, il posto da accaparrarsi vicino al finestrino, gli altri passeggeri da osservare, tutti un poco emozionati con i loro bagagli, tutti con una meta. E poi i suoni, lo stridio delle ruote sui binari, i fischi sibilanti, gli annunci di arrivi e partenze, i richiami, le risa, abbracci e baci: una specie di rappresentazione teatrale offerta a chi volesse guardarla. Un mondo a parte. Ormai adulto gli capitava sempre meno di usufruire di questo mezzo di trasporto, ma se il tragitto da farsi era breve, Pace ne approfittava. Camillo e Pace si erano dunque appena sistemati nel loro scompartimento quando una donna molto ciarliera aveva preso posto di fronte a loro. – Che micio meraviglioso – aveva esordito, attirandosi un’occhiataccia da parte di Camillo: lui si considerava gatto-gatto. – Ma è un micio, vero? Perché non lo sembra nemmeno. Sa, io me ne intendo, ne avevo tanti di quelli... come si dice? – Non ricevendo aiuto dal suo interlocutore, la signora si era decisa: – Bastardi, insomma. Ne avevo la casa piena: così affettuosi! Mi dormivano in braccio, in testa, sui piedi... poi ho dovuto darli via, mi sono risposata e a mio marito piacciono i cani. Ci siamo presi un dobermann. Certo i cani sono più intelligenti. Pace non osava guardare Camillo. – Ma questo micio perché è in gabbia, poverino? Un gatto in gabbia è una cosa orribile, i gatti devono starsene a casa. I miei non avrebbero mai accettato di essere chiusi in un’orribile gabbia. A quest’ultima osservazione, come avesse capito di cosa si parlasse, Camillo aveva emesso un brontolio; considerava la sua gabbia come un comodo e personale mezzo di trasporto, l’amava come tanti uomini amano la loro automobile; ne era geloso, e non aveva mai permesso di entrarvi neppure alla più affascinante delle sue conquiste. Se Pace, in quel momento, ne avesse aperto lo sportello certamente Camillo avrebbe dimostrato a quella signora cosa ne pensasse delle sue opinioni. Invece lo sportello era rimasto chiuso. È ancora indignato, constatò Pace e deluso per il viaggio, ma non può pretendere che io mi faccia Genova-Roma in aereo solo per fargli incontrare quella hostess... – Sono curiosa di vedere come verrà – stava dicendo Cerere prendendo in mano il piatto dipinto da Pace. Si diresse verso la porta. – Però non posso cuocerlo subito, c’è troppa roba che aspetta e questo va tenuto nella parte alta del forno altrimenti si rovina. Se viene bene devi regalarcelo – gridò dall’altra stanza. – Non solo perché hai talento e fai delle belle cose, ma anche perché ci farà pubblicità. – Cerere ha un meraviglioso senso pratico – rise Raffaella. – Ha ragione, lo appenderemo al muro e quando verranno i visitatori diremo “bello, vero? Lo ha dipinto il grande Pace, l’investigatore”. Vieni, andiamo di sopra: mi aiuterai a cucinare e io ti parlerò della mostra. Poco dopo erano in cucina, Raffaella intenta ai fornelli alla preparazione di un sughetto profumato alle erbe aromatiche, Alessandro Pace a sbucciare patate. Dal corridoio arrivava la voce di Cerere che telefonava: – Sì signorina Wasthahl, ho spedito tutto stamattina: i due servizi da caffè e quello per il tè... sì, anche le due ciotole grandi... stia tranquilla, le arriveranno in tempo... no, per la settimana prossima non è possibile e nemmeno per l’altra... mi dispiace ma abbiamo in preparazione una mostra, le manderemo l’invito, venga a vederla... non può? Peccato... va bene signorina Wasthahl, non appena ci sarà possibile... rosse! Sì... lo immaginavo. – Rosse! – esclamò Raffaella. – Dille che il rosso l’ho finito – urlò, – dille che è stato abolito, che è velenoso, dille quello che vuoi! Cerere comparve sulla soglia della cucina: – Inutile che strilli – disse pacata. – Ha riattaccato, e poi sai benissimo che quest’anno nel suo negozio espone solo materiale di quel colore; in fondo hai sopportato il suo periodo nero... Raffaella ficcò un cucchiaio di legno dentro alla pignatta e prese a rimestare con furia. – Quella megera! Mi ha fatto odiare il rosso, non sopporto più neppure il suono della parola. Senti, ma è vero che le hai spedito quella roba? – No, mia cara – ridacchiò Cerere. – Lo farò con comodo domani mattina, la Wasthahl aspetterà. Compiaciuta dalla risposta Raffaella si rivolse a Pace: – Dunque, ti dicevo della mostra... pittura e ceramica; una collettiva, come ti ho scritto. Piero Conti espone i suoi quadri, non è un grande artista ma piace, e incomincia ad avere buone quotazioni sul mercato. Lo conoscerai, è ospite dei nostri vicini, i Banti. – Banti? – ripeté Pace. – Se non sbaglio è lo stesso cognome di quella famiglia che in questi giorni è al centro dell’attenzione su tutti i giornali. Cerere lanciò un occhiata di intesa alla sorella: – Allude al delitto... Alla parola delitto, parve a Pace che gli occhi di Camillo si facessero tondi come scodelle, per ritornare subito due fessure. Raffaella ricambiò l’occhiata di Cerere: – Va bene Cerere, smettiamola, ora possiamo parlarne – disse con un sospiro. Pace guardò le sue amiche senza capire: – Cosa intendete? Raffaella mise un coperchio sulla pignatta di terracotta, abbassò la fiamma e si volse verso Pace: – Non ci vorrai far credere, mio caro investigatore, di non esserti accorto di nulla? – Di cosa? – chiese Pace stupito. – Da quando sei arrivato noi abbiamo evitato accuratamente di parlare del delitto. Un delitto orribile di cui sono piene le pagine dei giornali. È successo a pochi passi da noi, e noi zitte, come se non ci riguardasse. Evitiamo di parlarne. Non ti è parso strano? – Me ne sono accorto, ma pensavo che foste troppo impressionate per... c’è qualcos’altro? – A volte gli uomini intelligenti sono proprio ottusi! – sentenziò Cerere. Fece spostare Pace e le sue patate dal tavolo al lavandino; la cucina in quel momento era piena di sole e aveva deciso di apparecchiare lì, Raffaella voltava le spalle a Pace. – Eravamo gelose – disse. – Certo – sbuffò Cerere. – Non vieni mai a trovarci e per una volta che ti decidi, qui viene commesso un delitto. – Continuo a non capire. – È semplice: pensavamo che tu fossi venuto per vedere noi, la nostra mostra... e invece ora... così abbiamo deciso di punirti e di non parlare di quello che è accaduto per tutta la durata del tuo soggiorno. Ma come vedi, non ci siamo riuscite. Pace scoppiò a ridere: – È per questo? Ma è assurdo. Ho ricevuto il vostro invito il mese scorso e vi ho risposto immediatamente accettandolo. Quella ragazza è stata uccisa pochi giorni fa, come potevo immaginare allora che Silvana Musso... – Sa anche il nome – disse Cerere rivolta alla sorella. – Non è logico! – protestò Pace. Raffaella sorrise: – Va bene, non è logico, ma intanto il delitto c’è stato, tu sei qui e finirai per occupartene e ci trascurerai. Pace fece per aprire la bocca. – Non dirlo – lo prevenne Raffaella. – È stato orribile – disse Cerere seria. – E tu dovresti proprio occupartene. – Ma se un momento fa dicevate... – Sbagliavamo, mio caro. Una ragazza è stata uccisa in modo barbaro: sgozzata come l’agnello del sacrificio. Silvana Musso aveva diciotto anni e si guadagnava la vita lontano da casa. Stamattina, mentre tu dormivi, ci sono stati i funerali giù in città. C’era la sorella di Silvana, una contadina, piangeva da far pietà. C’erano i Banti, i nostri vicini di casa. La ragazza è stata uccisa nel giardino di casa loro e sono terrorizzati. – C’era tutta Alassio – aggiunse Cerere, disponendo sulla tovaglia azzurra i bei piatti blu notte. – Questo omicidio ha tolto il sonno a tutti; hanno paura, e l’abbiamo anche noi. Chi ha ucciso potrebbe ancora provarci. Va fermato, e tu caro Pace sei in grado di farlo. Dovresti davvero occupartene. Pace aveva finito di affettare l’ultima patata, i bastoncini erano tanto simili l’uno all’altro, da parer tagliati a macchina; li affidò a Raffaella e dopo essersi raschiato impercettibilmente in gola disse: – C’ero anch’io. Le sorelle si volsero a guardarlo. – Dove? – chiesero contemporaneamente. – Ai funerali. Mi sono svegliato presto – aggiunse in fretta. – Voi eravate già uscite, il tempo era magnifico e ho deciso di fare quattro passi alla spiaggia. Sono passato per il centro e sono finito in mezzo al funerale senza volerlo. – Ci hai viste? – chiese Raffaella. – Perché non ci hai chiamate? – No, non vi ho viste, tra tutta quella folla! – Pace girò intorno al tavolo ed andò a sedersi su una sedia in fondo alla cucina. – Ho visto invece Maria Bozzo, la sorella della vittima. Le ho anche parlato. O meglio... – farfugliò, – lei ha parlato a me. Le due sorelle si accostarono l’una all’altra e in silenzio si avvicinarono a Pace. A Pace parvero molto alte e leggermente minacciose; abbassò gli occhi e disse: – Voleva che mi occupassi del caso. Non ho detto di sì, ma neppure di no. Nel silenzio, si sentì chiaramente un miagolio soddisfatto. Camillo si alzò e scrollò la testa facendo ondeggiare il collare di pelo come una vaporosa criniera, poi fissò Alessandro Pace con un espressione che alle sorelle parve assai strana. Non così a Pace, lui sapeva che i gatti ridono. Era andata così: Pace transitava in piazza Stalla quando, sui gradini della chiesa di Sant’Ambrogio, vide un piccione, uno solo, che se ne stava immobile come un sasso. Intorno non si vedevano altri uccelli e Pace lo avvicinò chiedendosi se stesse male o se più semplicemente si godesse i raggi del sole. Stava ragionando su questo strano caso, quando lo sbattere di una portiera risolse i suoi dubbi: il piccione si scosse e volò via. Pace si volse per riprendere il suo cammino e con stupore vide che la piazza, prima quasi deserta, andava riempiendosi di gente. A due passi da lui era fermo un carro funebre. Un uomo aiutava una donna a scendere dall’auto. La donna vestiva di nero ed aveva gli occhi rossi dal pianto. L’uomo la sorreggeva goffamente e guardava Pace con strana insistenza. Una vera e propria folla stava circondando il veicolo e Pace si affrettò ad attraversare la strada con la sensazione che gli occhi di quell’uomo ancora lo seguissero. Nel budello di via Venti Settembre Pace riprese un’andatura lenta. Pensava a quella ragazza di diciotto anni che stava per essere sotterrata. Uccisa in modo brutale, da non si sa chi e non si sa perché, dicevano i giornali. Intanto lanciava un occhiata alla vetrina elegante di un negozio di abbigliamento o si fermava ad ammirare la bancarella di un fruttivendolo che aveva esposto fuori la sua merce preziosa. La strada, sempre affollata, era vuota, e riacquistava quella serena compostezza che ha Alassio nei periodi di bassa stagione, quando torna ad essere un piccolo borgo a misura d’uomo. Tutti al funerale, compresi i turisti, pensava Pace. Per solidarietà certo, per curiosità anche, ma soprattutto si sentono coinvolti: hanno fiutato il caso. La gente comune ha un intuito straordinario per queste cose, non si emoziona per un delitto da poco; se si è mossa è perché ha avvertito l’eccezione. Sarà senz’altro una indagine difficile. Anche i giornali lo lasciano capire... non vorrei essere nei panni della polizia. Era assorto in questi pensieri, quando si sentì chiamare. L’uomo che aveva visto sul sagrato della chiesa stava correndo verso di lui. – Lei è il signor Alessandro Pace? – chiese come l’ebbe raggiunto. – Guido Bozzo – si presentò. La mano che Pace strinse era ruvida e molle. L’uomo vestiva un completo grigio scuro e portava la cravatta che premeva sul pomo d’adamo prominente. Il viso abbronzato e pieno di rughe era più giovane di quello che a una certa distanza era parso a Pace. – Lei è l’investigatore Alessandro Pace, dunque non mi sono sbagliato! – ripeté ansando leggermente. Pace annuì. – Mi scusi per come l’ho fermata, ma non c’è tempo. Non so se lei mi ha visto poco fa dalla chiesa, al funerale di mia cognata. Ecco, vede, mia moglie... la sorella della povera Silvana Musso, vorrebbe parlarle. Sono scappato dalla chiesa per rincorrerla, devo assolutamente ritornare là. – Infilò una mano nella tasca della giacca e ne estrasse un foglio che porse a Pace. Questi lesse un indirizzo scritto in fretta, ma in bella grafia. – Siamo alloggiati in quest’albergo – spiegò Guido Bozzo. – I signori Banti volevano ospitarci a casa loro, ma mia moglie ha preferito così. – Scrollò le spalle, forse scontento di aver detto troppo. – Tra un’ora sarà tutto finito. La funzione, volevo dire. E noi l’aspetteremo nell’atrio dell’albergo. Alle undici partiamo per Scurtabò, il nostro paese. Portiamo anche Silvana. Mia moglie non vuole che sia sepolta lontano da casa. Ora vado – disse porgendo la mano a Pace. Inaspettatamente sorrise, le rughe sul viso divennero tantissime, con il risultato di farlo sembrare ancora più giovane. – Sa, io sono un suo ammiratore... se può venga, la prego. Si volse e in quattro falcate sparì. – Accidenti! – brontolò Pace. – Parlava come se io dovessi sapere tutto di lui, della sua famiglia e del delitto. Non mi ha lasciato aprire bocca. Ma forse aveva paura che gli dicessi di no.
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