“Coloro che combattono la religione imparino almeno qual ella sia, prima di combatterla. Se questa religione si vantasse d'avere una veduta chiara di Dio, e di possederlo senza velo, sarebbe un combatterla il dire che non si vede niente nel mondo che lo mostri con tanta evidenza. Ma poiché dice, anzi, essere gli uomini nelle tenebre e lontani da Dio, il quale s'è nascosto alla loro cognizione, ed essere appunto il nome ch'egli si dà nelle Scritture, Deus absconditus... qual vantaggio possono essi trarre, allorché nella negligenza che professano quanto alla scienza della verità, gridano che la verità non vien loro mostrata?”
Più sotto era scritto (parole dello stesso autore):
“Non trattasi qui del lieve interesse di qualche persona straniera; trattasi di noi medesimi e del nostro tutto. L'immortalità dell'anima è cosa che tanto importa, e che toccaci sì profondamente, che bisogna aver perduto ogni senno per essere nell'indifferenza di saper che ne sia.”
Un altro scritto diceva:
“Benedico la prigione, poiché m'ha fatto conoscere l'ingratitudine degli uomini, la mia miseria, e la bontà di Dio.”
Accanto a queste umili parole erano le più violente e superbe imprecazioni d'uno che si diceva ateo, e che si scagliava contro Dio come se si dimenticasse di aver detto che non v'era Dio.
Dopo una colonna di tai bestemmie, ne seguiva una di ingiurie contro i vigliacchi, così li chiamava egli, che la sventura del carcere fa religiosi.
Mostrai quelle scelleratezze ad uno de' secondini, e chiesi chi l'avesse scritte.
“Ho piacere d'aver trovata quest'iscrizione:” disse “ve ne son tante, ed ho sì poco tempo da cercare!”
E senz'altro, diessi con un coltello a grattare il muro per farla sparire.
“Perché ciò?” dissi.
“Perché il povero diavolo che l'ha scritta, e fu condannato a morte per omicidio premeditato, se ne pentì, e mi fece pregare di questa carità.”
“Dio gli perdoni!” sclamai. “Qual omicidio era il suo?”
“Non potendo uccidere un suo nemico, si vendicò uccidendogli il figlio, il più bel fanciullo che si desse sulla terra.”
Inorridii. A tanto può giungere la ferocia? E siffatto mostro teneva il linguaggio insultante d'un uomo superiore a tutte le debolezze umane! Uccidere un innocente! un fanciullo!
CAPO X
In quella mia nuova stanza, così tetra e così immonda, privo della compagnia del caro muto, io era oppresso di tristezza.
Stava molte ore alla finestra la quale metteva sopra una galleria, e al di là della galleria vedeasi l'estremità del cortile e la finestra della mia prima stanza. Chi erami succeduto colà? Io vi vedeva un uomo che molto passeggiava colla rapidità di chi è pieno d'agitazione. Due o tre giorni dappoi, vidi che gli avevano dato da scrivere, ed allora se ne stava tutto il dì al tavolino.
Finalmente lo riconobbi. Egli usciva della sua stanza accompagnato dal custode: andava agli esami. Era Melchiorre Gioia!
Mi si strinse il cuore. “Anche tu, valentuomo, sei qui!” (Fu più fortunato di me. Dopo alcuni mesi di detenzione venne rimesso in libertà.)
La vista di qualunque creatura buona mi consola, m'affeziona, mi fa pensare. Ah! pensare ed amare sono un gran bene. Avrei dato la mia vita per salvar Gioia di carcere; eppure il vederlo mi sollevava.
Dopo essere stato lungo tempo a guardarlo, a congetturare da' suoi moti se fosse tranquillo d'animo od inquieto, a far voti per lui, io mi sentiva maggior forza, maggiore abbondanza d'idee, maggior contento di me. Ciò vuol dire che lo spettacolo d'una creatura umana, alla quale s'abbia amore, basta a temprare la solitudine. M'avea dapprima recato questo benefizio un povero bambino muto, ed or me lo recava la lontana vista d'un uomo di gran merito.
Forse qualche secondino gli disse dov'io era. Un mattino, aprendo la sua finestra, fece sventolare il fazzoletto in atto di saluto. Io gli risposi collo stesso segno. Oh quale piacere mi inondò l'anima in quel momento! Mi pareva che la distanza fosse sparita, che fossimo insieme. Il cuore mi balzava come ad un innamorato che rivede l'amata. Gesticolavamo senza capirci, e colla stessa premura, come se ci capissimo: o piuttosto ci capivamo realmente; que' gesti voleano dire tutto ciò che le nostre anime sentivano, e l'una non ignorava ciò che l'altra sentisse.
Qual conforto sembravanmi dover essere in avvenire quei saluti! E l'avvenire giunse, ma que' saluti non furono più replicati! Ogni volta ch'io rivedea Gioia alla finestra, io faceva sventolare il fazzoletto. Invano! I secondini mi dissero che gli era stato proibito d'eccitare i miei gesti o di rispondervi. Bensì guardavami egli spesso, ed io guardava lui, e così ci dicevamo ancora molte cose.
CAPO XI
Sulla galleria ch'era sotto la finestra, al livello medesimo della mia prigione, passavano e ripassavano da mattina a sera altri prigionieri, accompagnati da secondini; andavano agli esami, e ritornavano. Erano per lo più gente bassa. Vidi nondimeno anche qualcheduno che parea di condizione civile. Benché non potessi gran fatto fissare gli occhi su loro, tanto era fuggevole il loro passaggio, pure attraevano la mia attenzione; tutti qual più qual meno mi commoveano. Questo triste spettacolo, a' primi giorni, accresceva i miei dolori; ma a poco a poco mi v'assuefeci, e finì per diminuire anch'esso l'orrore della mia solitudine.
Mi passavano parimente sotto gli occhi molte donne arrestate. Da quella galleria s'andava, per un voltone, sopra un altro cortile, e là erano le carceri muliebri e l'ospedale delle sifilitiche. Un muro solo, ed assai sottile, mi dividea da una delle stanze delle donne. Spesso le poverette mi assordavano colle loro canzoni, talvolta colle loro risse. A tarda sera, quando i romori erano cessati, io le udiva conversare.
Se avessi voluto entrare in colloquio, avrei potuto. Me n'astenni, non so perché. Per timidità? per alterezza? per prudente riguardo di non affezionarmi a donne degradate? Dovevano esservi questi motivi tutti tre. La donna, quando è ciò che debb'essere, è per me una creatura sì sublime! Il vederla, l'udirla, il parlarle, mi arricchisce la mente di nobili fantasie. Ma avvilita, spregevole, mi perturba, m'affligge, mi spoetizza iI cuore.
Eppure... (gli eppure sono indispensabili per dipingere l'uomo, ente sì composto) fra quelle voci femminili ve n'avea di soavi, e queste - e perché non dirlo? - m'erano care. Ed una di quelle era più soave delle altre, e s'udiva più di rado, e non proferiva pensieri volgari. Cantava poco, e per lo più questi soli due patetici versi:
Chi rende alla meschina la sua felicità?
Alcune volte cantava le litanie. Le sue compagne la secondavano, ma io aveva il dono di discernere la voce di Maddalena dalle altre, che pur troppo sembravano accanite a rapirmela.
Sì, quella disgraziata chiamavasi Maddalena. Quando le sue compagne raccontavano i loro dolori, ella compativale e gemeva, e ripeteva: “Coraggio, mia cara; il Signore non abbandona alcuno.”
Chi poteva impedirmi d'immaginarmela più bella e più infelice che colpevole, nata per la virtù, capace di ritornarvi, s'erasene scostata? Chi potrebbe biasimarmi s'io m'inteneriva udendola, s'io l'ascoltava con venerazione, s'io pregava per lei con un fervore particolare?
L'innocenza è veneranda, ma quanto lo è pure il pentimento! Il migliore degli uomini, l'uomo-Dio, sdegnava egli di porre il suo pietoso sguardo sulle peccatrici, di rispettare la loro confusione, d'aggregarle fra le anime ch'ei più onorava? Perché disprezziamo noi tanto la donna caduta nell'ignominia?
Ragionando così, fui cento volte tentato di alzar la voce e fare una dichiarazione d'amor fraterno a Maddalena. Una volta avea già cominciato la prima sillaba vocativa: “Mai!...” Cosa strana! il cuore mi batteva, come ad un ragazzo di quindici anni innamorato; e sì ch'io n'avea trentuno, che non è più l'età dei palpiti infantili.
Non potei andar avanti. Ricominciai: “Mad!... Mad!...” E fu inutile. Mi trovai ridicolo, e gridai dalla rabbia: “Matto! e non Mad!”
CAPO XII
Così finì il mio romanzo con quella poveretta. Se non che le fui debitore di dolcissimi sentimenti per parecchie settimane. Spesso io era melanconico, e la sue voce m'esilarava: spesso, pensando alla viltà ed all'ingratitudine degli uomini, io m'irritava contro loro, io disamava l'universo, e la voce di Maddalena tornava a dispormi a compassione ed indulgenza.
Possa tu, o incognita peccatrice, non essere state condannata a grave pena! Od a qualunque pena sii tu stata condannata, posse tu profittarne e rinobilitarti, e vivere e morir care al Signore! Possa tu essere compianta e rispettata da tutti quelli che ti conoscono, come lo fosti da me che non ti conobbi! Possa tu ispirare, in ognuno che ti vegga, la pazienza, la dolcezza, la brama della virtù, la fiducia in Dio, come le ispiravi in colui che ti amò senza vederti! La mia immaginativa può errare figurandoti bella di corpo, ma l'anima tua, ne son certo, era bella. Le tue compagne parlavano grossolanamente, e tu con pudore e gentilezza; bestemmiavano, e tu benedicevi Dio; garrivano, e tu componevi le loro liti. Se alcuno t'ha porto la mano per sottrarti dalla carriera del disonore, se t'ha beneficata con delicatezza, se ha asciugate le tue lagrime, tutte le consolazioni piovano su lui, su' suoi figli, e sui figli de' suoi figli!
Contigua alla mia, era una prigione abitata da parecchi uomini. Io li udiva anche parlare. Uno di loro superava gli altri in autorità, non forse per maggiore finezza di condizione, ma per maggior facondia ed audacia. Questi facea, come si dice, il dottore. Rissava e metteva in silenzio i contendenti coll'imperiosità della voce e colla foga delle parole; dettava loro ciò che doveano pensare e sentire, e quelli, dopo qualche renitenza, finivano per dargli ragione in tutto.
Infelici! non uno di loro che temperasse le spiacevolezze della prigione esprimendo qualche soave sentimento, qualche poco di religione e d'amore!
Il caporione di que' vicini mi salutò, e risposi. Mi chiese come io passassi quella maledetta vita. Gli dissi che, sebben trista, niuna vita era maledetta per me, e che, sino alla morte, bisognava procacciar di godere il piacer di pensare e d'amare.
“Si spieghi, signore, si spieghi.”
Mi spiegai, e non fui capito. E quando, dopo ingegnose ambagi preparatorie, ebbi il coraggio d'accennare, come esempio, la tenerezza carissima che in me veniva destata dalla voce di Maddalena, il caporione diede in una grandissima risata.
“Che cos'è? che cos'è?” gridarono i suoi compagni. Il profano ridisse con caricature le mie parole, e le risate scoppiarono in coro, ed io feci lì pienamente la figure dello sciocco.
Avviene in prigione come nel mondo. Quelli che pongono la lor saviezza nel fremere, nel lagnarsi, nel vilipendere, credono follia il compatire, l'amare, il consolarsi con belle fantasie che onorino l'umanità ed il suo Autore.
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CAPO XIII
Lasciai ridere, e non opposi sillaba. I vicini mi diressero due o tre volte la parole; io stetti zitto.
“Non sarà più alla finestra... se ne sarà ito... tenderà l'orecchio ai sospiri di Maddalena... si sarà offeso delle nostre risa.”
Così andarono dicendo per un poco. E finalmente il caporione impose silenzio agli altri che sussurravano sul mio conto.
“Tacete, bestioni, che non sapete quel che diavolo vi dite. Qui il vicino non è un sì grand'asino come credete. Voi non siete capaci di riflettere su niente. Io sghignazzo, ma poi rifletto, io. Tutti i villani mascalzoni sanno far gli arrabbiati, come facciamo noi. Un po' più di dolce allegria, un po' più di carità, un po' più di fede ne' benefizi del Cielo, di che cosa vi pare sinceramente che sia indizio?”
“Or che ci rifletto anch'io,” rispose uno “mi pare che sia indizio d'essere alquanto meno mascalzone.”
“Bravo!” gridò il caporione con urlo stentoreo “questa volta torno ad aver qualche stima della tua zucca.”
Io non insuperbiva molto d'essere solamente reputato alquanto meno mascalzone di loro; eppure provava una specie di gioia, che que' disgraziati si ricredessero circa l'importanza di coltivare i sentimenti benevoli.
Mossi l'imposta della finestra, come se tornassi allora. Il caporione mi chiamò. Risposi, sperando che avesse voglia di moralizzare a modo mio. M'ingannai. Gli spiriti volgari sfuggono i ragionamenti serii: se una nobile verità traluce loro, sono capaci di applaudirla un istante, ma tosto dopo ritorcono da essa lo sguardo, e non resistono alla libidine d'ostentar senno ponendo quella verità in dubbio e scherzando.
Mi chiese poscia s'io era in prigione per debiti.
“No.”
“Forse accusato di truffa? Intendo accusato falsamente sa.”
“Sono accusato di tutt'altro.”
“Di cose d'amore?”
“No.”
“D'omicidio?”
“No.”
“Di carboneria?”
“Appunto.”
“E che sono questi carbonari?”
“Li conosco così poco che non saprei dirvelo.”
Un secondino c'interruppe con gran collera, e dopo d'aver colmato d'improperii i miei vicini si volse a me colla gravità non d'uno sbirro, ma d'un maestro, e disse: “Vergogna, signore! degnarsi di conversare con ogni sorta di gente! Sa ella che costoro son ladri?”
Arrossii e poi arrossii d'aver arrossito, e mi parve che il degnarsi di conversare con ogni specie d'infelici sia piuttosto bontà che colpa.
CAPO XIV
Il mattino seguente andai alla finestra per vedere Melchiorre Gioia, ma non conversai più co' ladri. Risposi al loro saluto, e dissi che m'era vietato di parlare.
Venne l'attuario che m'avea fatto gl'interrogatorii, e m'annunciò con mistero una visita che m'avrebbe recato piacere. E quando gli parve d'avermi abbastanza preparato disse: “Insomma, è suo padre; si compiaccia di seguirmi.”