Arrampicandosi per gli argini dei cupo fiume, Carol ne ascoltava le fiabe dell’immenso West, reame di gialle acque e di ossa dì bufalo calcinate, e delle banchine del mezzogiorno, coi negri cantanti e le palme verso cui scorreva misteriosamente, in eterno; udiva di nuovo le campane d’allarme e gli sbuffi e i sibili dei vapori stracarichi naufragati sulle secche del fiume sessantanni prima. Vedeva sui ponti i missionari, i giocatori con gii alti cappelli duri e i capi Dakota avvolti in coperte scarlatte... Sibili lontani, di notte, intorno alla curva del fiume, tonfi di pagaie riecheggiate fra i pini e riflessi dorati sulle nere acque fluenti...
La famiglia di Carol bastava a se stessa: viveva una vita fantastica tutta sua, con feste di Natale che erano un rito pieno di sorprese e di tenerezza, mascherate spontanee e gioiosamente assurde. In casa Milford gli animali mitologici del focolare domestico non erano le lubriche bestie notturne che sbucano dai ripostigli per divorare le fanciullette, ma benefiche creaturine dagli occhi lucenti: il tara htab che è lanoso e azzurro e abita nelle camere da bagno e corre in fretta in fretta a scaldare i piedini intirizziti; la vecchia stufa a petrolio rugginosa che ronza e racconta tante storie; lo skitmarigg che giocherà con le bambine prima di colazione se salteranno dal letto e chiuderanno la finestra al primo verso della canzone sulle puellas che papà canticchia mentre si rade.
Il metodo pedagogico del giudice Milford era di lasciar che i fanciulli leggessero tutto quello che volevano, sicché nella sua biblioteca marrone Carol aveva divorato Balzac e Rabelais, Thoreau e Max Muller. Suo padre le aveva gravemente insegnato l’alfabeto sul dorso dei volumi dell’Enciclopedia, e i cortesi visitatori che s’informavano dei progressi intellettuali della cara piccina strabiliavano nell’udirla recitare con fervore: — A-And, And-Aus, Aus-Bis, Bis-Cal, Cal-Cha.
Carol aveva nove anni quando sua madre morì. Il babbo si ritirò dalla professione quando lei ne aveva undici, e condusse la famiglia a Minneapolis dove morì, due anni dopo. Sua sorella, una brava creatura sempre affaccendata a dare consigli, maggiore di lei, le era diventata estranea fin da quando abitavano nella stessa casa.
Da quei giorni infantili marrone e. argento e dall’indipendenza da qualunque genere di parenti Carol aveva tratto una ferma volontà di essere diversa dalla gente attiva ed efficiente che non legge libri e ristinto d’osservare stupita il loro darsi da fare anche quando ne prendeva parte ella stessa. Ma ora, si diceva soddisfatta avendo scoperto la propria vocazione d’ideare città, ora sarebbe stata affaccendata ed efficiente anche lei.
Un mese dopo, l’ambizione di Carol era notevolmente offuscata. Le riassaliva l’antica incertezza a proposito della carriera dell’insegnante. Riteneva di non essere abbastanza forte per sopportare quel trantran, non riusciva a vedersi ipocritamente autorevole e decisa in un cerchio di ragazzini sghignazzanti. Il desiderio di creare una bella città, tuttavia, persisteva. Quando s’imbatteva in un articolo sui circoli femminili nelle cittadine di provincia o nella fotografia d’una Via Principale appena abbozzata si sentiva piena di nostalgia, le sembrava di esser defraudata del proprio lavoro.
Fu per consiglio del professore d’inglese che s’indirizzò verso la carriera delle biblioteche in un istituto specializzato di Chicago. La sua fervida immaginazione disegnò e colorì il progetto. Si vide occupata a persuadere schiere di fanciulli a leggere belle fiabe, ad aiutare giovani volenterosi a trovare libri di meccanica, a favorire, oh, tanto gentilmente!, vecchi signori a caccia di giornali: la stella della biblioteca, un’autorità in fatto di libri, ospite a pranzi in onore di poeti e di esploratori, conferenziera acclamata in un circolo di distinti studiosi.
L’ultimo ricevimento del college prima della fine dell’anno. Cinque giorni ancora e li avrebbe inghiottiti il ciclone degli esami.
La casa del preside era invasa di palme che facevano pensare a sale d’aspetto di eleganti imprenditori di pompe funebri, e nella biblioteca, una stanza di tre metri quadrati con un mappamondo e il ritratto di Whittier e di Martha Washington, l’orchestra degli studenti suonava la Carmen e Madame Butterfly.
Carol era stordita dalla musica e dall’emozione delle prossime separazioni. Le palme le sembravano una giungla; agli occhi suoi, le lampadine elettriche sfumavano in una bruma opalina e i professori occhialuti sedevano come una schiera di dèi dell’Olimpo. Si sentiva rattristata dal pensiero delle ragazze timide con le quali « aveva sempre voluto fare amicizia », e della mezza dozzina di giovanotti pronti a innamorarsi di lei.
Aveva incoraggiato solamente Stewart Snyder che era tanto più virile degli altri, perfino d’un bel bruno caldo, della stessa tinta del vestito di serie con le spalle imbottite che indossava quel giorno. Stava seduta con lui, e con due tazze di caffè e un pasticcino di pollo, su una pila di soprascarpe presidenziali nello sgabuzzino sotto le scale; e nel soffocato ronzio della musica, Stewart le bisbigliava:
— Non ci posso pensare, separarci dopo quattro anni! Gli anni più felici della vita!
Essa lo credeva, in quel momento.
— Oh, lo so! Pensare che fra pochi giorni ci divideremo, e chissà quanti della brigata non li rivedremo più!
— Carol, stammi a sentire! Tu te la scapoli sempre quando cerco di parlarti sul serio, ma questa volta devi starmi a sentire. Io sarò un grande avvocato, forse anche un giudice, e ho bisogno di te e ti proteggerei...
Le circondò le spalle col braccio. La musica insinuante paralizzava le sue aspirazioni all’indipendenza. Disse, mestamente:
— Davvero ti prenderesti cura di me?
E gli toccò la mano: calda, solida.
— Perdiana! Faremo... oh Signore, ce la passeremo così bene a Yankton dove mi sistemerò...
— Ma io voglio fare qualche cosa della mia vita.
— Che c’è di meglio che farsi una bella casetta e tirar su' dei bei bambini e avere un bel cerchio di amici simpatici?
Era, da tempo immemorabile, la risposta del maschio alla donna inquieta. Così parlavano alla giovane Saffo i venditori di meloni; cosi i capitani a Zenobia; cosi, nell’umida caverna, sulle ossa rosicchiate, il villoso progenitore protestava contro la donna sostenitrice del matriarcato. Nel gergo di Blodgett, ma con la voce di Saffo, suonò la risposta di Carol:
— Certo. Lo so. Forse è vero. Francamente, i bambini mi piacciono. Però, vedi, ci sono tante donne per i lavori di casa, ma io... insomma, quando si ha un’educazione universitaria è un dovere servirsene per fare qualche cosa a favore degli altri!
— Lo so, ma potresti servirtene anche a casa tua. E poi pensa un po’, Carol, andare in macchina con una brigatella d’amici, a fare una merenda in campagna, una bella sera di primavera!
— Già.
— E le corse in slitta, d’inverno, e pescare...
Brrrrr! l’orchestra esplose in un inno militare e lei protestò:
— No! No! No! Sei tanto caro, ma io voglio fare qualche cosa! Non mi capisco ancora bene, ma voglio... tutto quello che c’è al mondo! Forse non potrò cantare o scrivere, ma sento di poter essere qualcuno nel campo delle biblioteche. Pensa un po’ se mi capitasse d’incoraggiare un ragazzo che poi diventasse un grande artista! Lo voglio fare! Lo farò! Oh, Stewart, caro, non posso rassegnarmi a lavare i piatti e niente altro!
Due minuti dopo - due minuti vertiginosi - furono disturbati da un’altra coppia imbarazzata che aspirava alTidillica intimità dello sgabuzzino delle soprascarpe.
Dopo il diploma Carol non vide più Stewart Snyder. Gli scrìsse una volta alla settimana... per un mese.
Carol trascorse un anno a Chicago. Lo studio della compilazione dei cataloghi, degli schedari e della collocazione dei libri le riuscì facile e non troppo papaverico. Frequentò con entusiasmo l’Istituto d’Arte, i concerti sinfonici, di violino e di musica da camera, il teatro e le rappresentazioni di danze classiche. Stette lì lì per rinunciare alla biblioteca per diventare una di quelle giovani donne che danzano avvolte in veli al lume di luna. Fu condotta a una vera e propria riunione artistico-politica in uno studio, con birra, sigarette, capelli. corti e un’ebrea russa che cantò l’Inno dei Lavoratori. Non sappiamo se Carol avesse qualche cosa di significativo da dire a quei bohémiens, Ella fu timida con loro, si sentì ignorante e scandalizzata da quella libertà di maniere che aveva sognato per anni; udì, tuttavia (e ricordò) discussioni su Freud e Romain Rolland, il sindacalismo, la Confederazione Generale del Lavoro, l’harem e il femminismo, le liriche cinesi, la nazionalizzazione delle miniere, la Christian Science e la pesca nell’Ontario.
Tornò a casa, e quello fu il principio e la fine della sua vie de bohème.
Una seconda cugina del marito di sua sorella che abitava a Winnetka, l’invitò una domenica a pranzo. Ella tornò indietro traverso Winnetka e Evanstone, scoprì nuove forme d’architettura suburbana e ricordò l’antico sogno di costruire villaggi. Decise di abbandonare le biblioteche e, per un miracolo non chiaramente precisato, trasformare un paesotto della prateria in un gruppo di case georgiane e di bungalows giapponesi.
Il giorno seguente, in classe, dovette leggere un tema sull’uso dell’indice comulativo e fu trascinata così a fondo nella discussione che rimandò per il momento la carriera della creazione delle città: e nell’autunno fu assunta nella Biblioteca Municipale di St. Paul.
Nella Biblioteca di St. Paul Carol non fu né infelice né entusiasticamente felice. Dovette confessarsi, a poco a poco, che, a quanto pareva, non influenzava la vita altrui. Mise dapprima, nei suoi contatti con frequentatori, una buona volontà che avrebbe mosso le montagne: ma tanto poche di quelle stolide montagne volevano lasciarsi muovere. Quando età di servizio nella stanza delle riviste, i lettori non chiedevano suggerimenti su saggi elevati, ma borbottavano: — Be’, dove sta la Gazzetta Cuoi e Pellami di febbraio? — Quando passò a distribuire i libri, la domanda che si sentì rivolgere più spesso era: — Mi può indicare una bella storia d’amore leggera, emozionante e facile da leggere? Mio marito starà via una settimana.
Voleva bene alle altre bibliotecarie e s’inorgogliva delle loro aspirazioni; e per il semplice fatto d’averi fra le mani lesse mucchi di libri che non avevano niente a che fare con la sua fresca e gaia gioventù: volumi d’antropologia con pagine intere di note in caratteri minuscoli, poeti parnassiani, ricette indù per il curry, viaggi alle isole Salomone, teosofia aggiornata all’americana, trattati per conquistarsi il successo negli affari di compra e vendita dei beni stabili. Fece passeggiate e fu ragionevole in fatto di scarpe e di nutrizione. E mal, nemmeno una volta, si senti conscia di vivere.
Andò a balli e cene a case di amiche e compagne di scuola. Qualche volta ballava compostamente l’one-step; tal altra, nel terrore di sentir fuggire la vita, si trasformava in una specie di baccante e scivolava per la sala coi dolci occhi lucenti, la gola tesa.
Durante i suoi tre anni di biblioteca, parecchi uomini mostrarono un assiduo interesse per lei: il contabile di una ditta di pelliccerie, un professore, un giornalista e un piccolo funzionario delle ferrovie. Nessuno riuscì a ispirarle il più fugace interesse. Per mesi e mesi, nessun uomo emerse dalla massa. Poi, dai Marbury, conobbe il dottor Will Kennicott.