Capitolo 1

2082 Words
1 PARKER «Piano, bello. Non ti farò del male,» mormorai, cercando di usare il mio tono di voce più mite. Fissavo lo sguardo su un cane marrone non di razza che sembrava sul punto di scattare. Non c’era alcun posto dove potesse andare in quella aperta prateria. Solamente campi sconfinati e, oltre ad essi, terreni incolti ancora più sconfinati. Sembrava un bel cane e probabilmente era affamato. Guardandomi attorno, mi chiesi dove avrebbe potuto bere. Un ruscello? C’erano dei pioppi in lontananza il che significava acqua, ma ad ogni modo... Qualche bastardo doveva averlo abbandonato a bordo strada. I suoi occhi castani incrociarono i miei, il corpo immobile, i muscoli tesi e tremanti. «Vuoi un panino? Possiamo fare a metà.» Indietreggiai lentamente così che non sarebbe scappato – non potevo lasciarlo là fuori e non volevo rincorrerlo – ed estrassi il mio panino al prosciutto incartato dalla console centrale. Spezzandone metà, la lanciai verso di lui. Lui balzò indietro, poi annusò. Andai al portellone sul retro del mio SUV e lo aprii, gettando l’altra metà del panino sul sedile di plastica. Non era un prigioniero, ma avrebbe avuto bisogno di un bagno prima di sedersi sul sedile davanti. Mi appoggiai contro un lato dell’auto e distolsi lo sguardo così da non intimorirlo. Con la coda dell’occhio, lo vidi riflettere prima di avvicinarsi in punta di piedi – se i cani ne fossero stati capaci – al panino a terra e divorarlo. Sollevando il muso, annusò l’aria. Non era stupido e sapeva esattamente dove si trovasse l’altra metà. Dovevo solamente sperare che fosse abbastanza intelligente da saltare su per prenderlo. Lo fu. Saltò nel baule per prendersi il resto del suo spuntino. Io chiusi il portellone e feci il giro fino al posto di guida, infilandomi dietro al volante. «Pam, mi trovo sulla regionale numero sette e ho recuperato un cane randagio. Affamato. Penso che debba essere visitato da un veterinario,» dissi alla mia radio della polizia. «C’è un posto sulla Quattro, a due isolati dalla Main,» replicò lei, la voce metallica attraverso l’altoparlante. Lanciai un’occhiata nel retro, dove il cane si stava leccando i baffi, avendo chiaramente apprezzato il panino più di quanto non avrei fatto io. Si sedette sul sedile e mi fissò, piegando la testa di lato. Un po’ labrador, un po’ basset hound, un po’... cosa ne sapevo io di cani a parte il fatto che quello fosse marroncino? Non ne avevo mai avuto uno crescendo. Sembrava contento di starsene lì, come se avesse già trascorso abbastanza tempo in una macchina da sapere che lo stavo portando da qualche parte. E che non era solo. Già, ti capivo, amico. Era bello sentirsi desiderati, avere qualcuno a prendersi cura di te – e intendevo a premermi contro la porta o piegarmi a novanta sul letto una volta tornata a casa da lavoro facendomi dimenticare di ogni singola telefonata o comparsa in tribunale. Volevo che lui mi aiutasse a uscire dalla mia insignificante uniforme e mi spogliasse. Assumesse il controllo così che io potessi sottomettermi. Lasciarmi andare. Arrendermi. Dio, sì. E con lui intendevo due uomini, perché uno per me non bastava. Avevo bisogno di una porzione extra di predominio, della costante potenza di cui aveva bisogno la mia forte libidine. Non ero trascurata – se ne occupava il mio vibratore – né abbandonata sul ciglio della strada come l’amico peloso che mi stava guardando. Ero di nuovo nella mia città natale, avevo un nuovo lavoro, mia madre era lì vicino ed io avevo un sacco di pile per il mio s*x-toy ben sfruttato... non c’era nulla di cui lamentarmi. Tuttavia, per quanto non fossi sola, io – o meglio, la mia figa – mi sentivo decisamente tale. Un po’ di cazzo sarebbe stato ottimo. Due cazzi, possibilmente, perché avevo molto da offrire. Avevo la sensazione di essere troppo per un uomo solo poiché avevo un sacco da offrire. Mamma mi chiamava “ossa grandi”. Io mi consideravo più un’Amazzone che altro. Alta poco meno di un metro e ottanta, superavo la maggior parte degli uomini in città. E quelle ossa grandi? Già, al di sopra c’erano dei muscoli e un bel po’ di imbottitura. Tette grandi, culo grande. Non troppi uomini erano interessati a tutto ciò che avevo. Avevo avuto dei ragazzi – non ero affatto vergine – ma era passato un po’ di tempo. Discriminavo ed ero decisamente esigente, quando si trattava di chi si sarebbe infilato nel mio letto. O mi avrebbe premuta contro la parete. E poi c’era il fatto che fossi lo sceriffo della Contea di Raines e che ciò comportasse una cintura piena di attrezzi, un paio di manette e una camicia dell’uniforme che mi faceva sembrare più un uomo che una donna. Non ero un tipo mite e timido. Non ero delicata. Minuta. La maggior parte degli uomini voleva indossare i pantaloni in una relazione e il mio lavoro non mi permetteva di mettermi la gonna. Jeans, stivali e la camicia della divisa. Perfino una cintura con più gadget di Batman. Sospirai. Il lavoro mi aveva scelta ed eccomi lì. Raines, Montana, in un SUV da sceriffo con un cane randagio. Dubitavo che avrei mai trovato un uomo, figuriamoci due, se non altro fino a quando avessi avuto quell’incarico. Mi appuntai mentalmente di aggiungere altre pile alla mia lista della spesa. Ne avrei avuto bisogno. «Dieci-quattro,» risposi, mettendo via la radio e avviando di nuovo l’auto verso il paese. Ogni giorno a lavoro era diverso. Scartoffie, del tempo in tribunale, blocchi del traffico. Diamine, perfino il salvataggio di un cane. Per essere una piccola cittadina, quel lavoro non era noioso. Finora, non era stato poi così male. Quando avevo frequentato la scuola di legge, non mi sarei mai immaginata di nuovo nella mia città natale. Ero stata via dieci anni ed ero tornata da due mesi. Lanciai un’occhiata nello specchietto retrovisore e scrutai il cane. Avrei voluto rintracciare il bastardo che l’aveva abbandonato, ma invece parcheggiai di fronte al piccolo studio veterinario. «Vado dentro a prendere un guinzaglio,» gli dissi mentre gli lanciavo un’occhiata attraverso la grata di metallo che separava l’abitacolo dal retro. Lui sollevò un orecchio come se mi avesse ascoltata con attenzione. «Non esiste che ti inseguo per tutta la città.» Scesi ed entrai. Una campanella sopra la porta suonò per segnalare la mia presenza. Non c’era nessuno al bancone, ma arrivò un ragazzo da in fondo a un lungo corridoio. E non solamente un ragazzo qualunque. Per la miseria. Gus Duke. Eravamo stati insieme – se così lo chiamavano i diciottenni – appena dopo aver preso il diploma e per la maggior parte dell’estate. Primo amore. Primo tutto. Avevamo avuto un sacco di feeling, specialmente quando si era preso la mia verginità nel suo pickup lungo una stradina impolverata a notte fonda. Anch’io mi ero presa la sua. Era stato intenso – le sensazioni, il desiderio che avevamo condiviso durante quella calda estate. Dio, avevo avuto bisogno di ciò che Gus mi aveva dato, avevo adorato ogni singolo minuto di quell’estate bollente. Tuttavia, crescendo, mi ero resa conto che ciò che avevamo fatto non bastava per me. Io ero diversa, avevo dei desideri sessuali insoliti. Era quasi come se fossi stata programmata in maniera diversa. Farlo come tutti gli altri non faceva per me. Ripensandoci, dovetti chiedermi se, avessimo avuto più tempo insieme, avremmo potuto fare altro che non solo scopare come conigli. Sesso forte, eccitante e intenso. Giunto Agosto, ce n’eravamo andati entrambi al college e non ci avevamo più ripensato. Oh, io avevo pensato a lui fin troppo spesso. Al sesso, soprattutto. Eravamo stati degli adolescenti arrapati interessati a raggiungere l’orgasmo e non a come arrivarci. Mi ci erano voluti degli anni per capire che funzionava meglio quando premevo tutti i punti giusti. Dovetti chiedermi se Gus avrebbe saputo come trovare i miei... o se avrebbe voluto farlo. Specialmente quando mi resi conto, nonostante stessi fissando la sua attuale bellezza, che lui non mi sarebbe bastato. All’età di diciotto anni, era stato carino. Figo. Perfino sexy. Adesso, però, era stupendo. Era sempre stato alto – una delle cose che mi erano piaciute di lui, facendomi sentire quasi bassa – ma all’età di ventotto anni, si era gonfiato, aveva messo su all’incirca quindici chili di muscoli ben definiti che non si potevano non notare sotto i jeans attillati e la maglietta aderente. L’avevo visto una volta da quando ero tornata. C’era stato un incidente al ranch dei Duke, un intruso, e loro avevano chiamato la polizia. Il fratello di Gus, Tucker, era al momento al comando del ranch, ma tutta la famiglia si era trovata lì per un picnic. Io ero stata di turno e mi ero presentata con un agente che era stato pronto ad abbattere quel tizio se necessario. Non lo era stato, dal momento che quello stronzo – potevo confermare che lo fosse a giudicare dalle oscenità che aveva vomitato per tutto il tempo che l’avevamo tenuto in custodia – era stato legato come un tacchino a Natale quando eravamo arrivati. Così non avevo fatto altro che rivolgere un piccolo cenno di saluto a Gus con la mano – e lui mi aveva fatto l’occhiolino in risposta – prima di portarci via quel tizio. Non avevo avuto occasione di rifarmi gli occhi. Adesso, però, potevo. E lo feci. Capelli scuri, occhi scuri che mi stavano osservando tanto attentamente quanto stavo facendo io con lui. La barba era una novità – dubitavo che avesse avuto più che un paio di peli a diciotto anni. Tagliata corta, perfino dall’altra parte dell’ingresso riuscivo a scorgervi degli accenni di rosso. Indossava una camicia di flanella e dei jeans. Stivali in pelle robusti. Tutto ciò che gli mancava per completare il suo look da cowboy era un cappello, ma sapevo che ne aveva uno dal momento che l’aveva indossato quando l’avevo visto al ranch dei Duke. Non sembrava un veterinario, bensì un modello da calendario per i Cowboy Sexy del Montana. «Parker,» mi disse, e nient’altro. La sua voce profonda mi penetrò facendomi indurire i capezzoli. Dio, una parola ed io ero già nei guai. Dieci anni furono semplicemente spazzati via ed io tornai ad essere quella ragazzina che si era presa una cotta... una vera e propria cotta per il sexy Duke. C’erano un decennio di cose da dire, ma non avevo idea di dove cominciare. Vuoi ricominciare da dove abbiamo lasciato? Se non ricordo male, io ero nuda nel retro del tuo pickup e tu ti eri trovato felicemente in mezzo alle mie cosce aperte. Magari un letto questa volta? E porta un amico! Era la mia figa a pensare e lei non era al comando. Se non altro non in quel preciso istante, per cui indicai alle mie spalle con un pollice. «Gus. Io... um, ho trovato un cane randagio. Ce l’ho in macchina. Pensavo che magari potevi dargli un’occhiata.» Lui andò a prendere un guinzaglio di corda da un gancio su una parete che ne teneva diversi. «Certo. Andiamo a prenderlo.» Mi scortò fuori dalla clinica, lasciandosi la porta aperta alle spalle. Il tempo era asciutto e caldo, considerando il fatto che ci stavamo inoltrando in autunno. Io andai al SUV e lui mi seguì. Quando aprii il baule, lo vidi guardarmi il culo. Lui sogghignò, senza vergognarsi affatto di essere stato beccato. Già, non era cambiato poi così tanto. Prima che Gus potesse mettergli il guinzaglio, il cane saltò giù, trotterellò sul marciapiede fino a un piccolo arbusto, ci pisciò accanto e poi proseguì entrando dritto nello studio veterinario. Gus lo guardò e scosse leggermente la testa. «Immagino che non sarà una paziente difficile.» «Una?» domandai, fissando la clinica come se fossi stata ancora in grado di vedere il cane. «Pensavo che lei fosse un lui.» Gus mi lanciò un’occhiata, il sorriso ancora stampato sulle labbra – labbra che mi ricordavo a baciarmi così bene – e inarcò un sopracciglio scuro. «Lei si è accucciata per pisciare. Non ha sollevato la zampa.» Aveva senso. «Non mi sono fermata a controllarle le... parti basse.» Il sopracciglio si inarcò ancora un po’ e le sue labbra piene si incurvarono in quella maniera sexy che mi ricordavo con tanto affetto. «Io mi ricordo le tue parti basse.» Si avvicinò di un passo e riuscii a sentire il suo odore. Sapone, natura e quell’odore famigliare che era semplicemente Gus. «Dimmi, folletto, ce l’hai ancora quel neo nell’interno coscia destro? Proprio accanto alle labbra della tua bella figa?»
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