3.

1135 Words
3.Mi portano in stanza. È una camerata a quattro letti abbastanza grande e con le pareti azzurre e bianche. Il posto letto vicino a me è vuoto. Quello di fronte è occupato da un ragazzo nordafricano in tuta che si legge “La Gazzetta dello Sport”, steso, con le gambe accavallate. Nell’altro riposa a fatica un signore anziano. Non riesco a stimarne l’età: ansima, ha le guance scavate, la pelle grigia e rugosa, gli occhi chiusi e addensati in un’espressione sofferta. Tre flebo pendono dal braccio sinistro, più una pompa a infusione continua: morfina, suppongo. Respira a fatica con profondi rantoli grazie alla mascherina dell’ossigeno. Ogni volta che prende fiato la pancia si introflette, come se riempire i polmoni richiedesse uno sforzo sovrumano. Non serve una laurea in medicina per capire che non se la sta passando bene. A me non resta che buttarmi sul letto e iniziare le varie telefonate per dire a tutti che sì, sono ricoverato ma sto bene e che non è niente di grave. Mi toccherà chiamare anche mia madre e Barbara. Spero non si precipitino qui entrambe a farmi una testa così ma temo sia inevitabile. Le mie speranze, purtroppo, si vanificano attorno alle diciannove e trenta. Arrivano quasi assieme, iniziano con le solite domande trite e ritrite. Se ho mangiato, se sto bene, se ho bisogno di qualcosa. A parte che uno ricoverato per una colica epatica non sta bene di sicuro e non ha fame, e la domanda mi sembra un po’ fuori luogo, rassicuro entrambe e aggiungo che, no, non ho bisogno di nulla: solo di starmene in pace e uscire al più presto da qui. Meno male che ci pensano Bruno e Andre a salvarmi. Provo a far capire al Ceva con uno sguardo che me ne voglio stare da solo. Lui, caso strano, afferra il concetto alla prima: dà una gomitata ad Andre e gli sussurra qualcosa di rapido all’orecchio. E nel giro di dieci minuti portano via sia mia madre sia Barbara. Poco dopo, la mia stanza piomba nel silenzio. Mi assopisco, cercando una posizione in cui il fianco non mi pulsi e non mi dia troppo fastidio. Quando la trovo e mi addormento, la porta della stanza che sbatte mi riporta alla realtà. Nella camera entrano due agenti in divisa. Sono della polizia penitenziaria: si fermano di fronte al capezzale del vecchio che, nel frattempo, a quanto pare era riuscito ad appisolarsi. Uno dei due agenti, quello più giovane, rifila un calcio ad una delle gambe del letto che risponde con un sobbalzo. Il vecchio prende fiato, quasi impaurito, e spalanca gli occhi. Alza la testa con fatica e poi la ricaccia giù. “Ancora voi?” L’agente annuisce. “Il solito controllo.” L’uomo cerca di prendere fiato ad occhi chiusi. “Ma siete venuti anche ieri. E l’altro ieri.” “E verremo anche domani.” “Comunque bel modo di merda di svegliare la gente”. Il più anziano dei due agenti stringe il braccio del suo collega, come a volerlo trattenere. “Lo sai che sono controlli di prassi, Roveri.”, dice. “Nulla di personale.” L’uomo a letto si gira sul fianco, dando la schiena ai due poliziotti. “Sono io. Come lo ero ieri. E andate a fanculo.” L’agente colpisce il letto con un altro calcio e punta l’indice verso il mio compagno di stanza. “Ehi. Stai attento, camoscio. Anche se sei malato ci metto un secondo a farti sbattere di nuovo in carcere a Marassi.” “Fai un po’ il cazzo che vuoi”, gli risponde sempre dandogli le spalle. L’agente scuote il letto: il suo collega prova a fermarlo ma senza successo. Sto perdendo la pazienza. All’ennesimo bercio la perdo del tutto e mi alzo a fatica. “Senta un po’”, dico con tono scortese, “ma le sembra il modo di comportarsi verso un uomo malato e ricoverato? Si dia una calmata. Grandissimo incivile che non è altro.” “Lascia stare”, dice il mio compagno di stanza scuotendo appena la testa. L’agente giovane si avvicina al mio letto. È almeno dieci centimetri più basso di me, una testata di capelli folti color castano sovrastano come un lichene gli occhi marroni. “Lei, mi dia un documento e si faccia identificare”, mi dice. Sgrano gli occhi. “Io? Si identifichi lei per primo. Che domani vediamo come finisce questa storia.” Lui si avvicina ancora. “Mi favorisca subito un documento o per lei si mette male.” Me lo dice quasi ringhiando. “Non ci penso nemmeno”, rispondo. “Lei sta abusando del suo potere con un povero cristo malato. Mi dia il suo numero di matricola o chiamo qualcuno.” L’agente più vecchio alza gli occhi al cielo, gli si avvicina e inizia a strattonarlo. “Ma lei ha idea di che feccia sta difendendo? Lo sa chi è questo qui?”, urla. Io faccio spallucce. “Non mi interessa né voglio saperlo. Ho di fronte un uomo malato in un letto d’ospedale. E vedo un ragazzetto presuntuoso che abusa della divisa che indossa. La pianti ed esca da questa stanza. Oppure chiamo per davvero la Polizia. E poi vediamo chi ha ragione.” L’agente sta per rispondere ancora, tende i muscoli e affila lo sguardo. Il suo collega lo afferra di nuovo e lo tira via, questa volta con successo. “Lo scusi, siamo solo un po’ stanchi. Sa, siamo a fine turno. Ora ce ne andiamo. Buonasera.” Si gira verso il mio compagno di stanza. “Ciao, Roveri. Fa’ il bravo.” In due secondi escono e si tirano dietro la porta. Nel corridoio li sento litigare mentre si allontanano. Io mi caccio di nuovo a letto, con il fianco che mi ricorda il motivo per cui sono qui. Il vecchio mi guarda, restando disteso, e solleva appena una mano. “Grazie”, mi dice. “Non ce n’è bisogno. Non ci si comporta così.” Lui tossisce e prende fiato. “Sa che cosa mi diceva sempre mio padre? Quando vedi qualcuno con le palle di fuori e il bastone in mano, domandati sempre se gli hanno dato il bastone perché ha tirato fuori le palle oppure se ha tirato fuori le palle perché gli hanno dato il bastone.” Io sorrido. “Quello manco le aveva le palle. Altro che.” “Non mi capita spesso che qualcuno mi difenda. Ci hanno rinunciato pure i miei avvocati.” Il vecchio tossisce grasso ancora una volta e cambia fianco, dandomi le spalle. Provo a dormire ma il sonno non arriva più, fino a quasi le due. Poi, grazie al cielo, riesco ad addormentarmi nonostante sia ancora dolorante.
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