Capitolo III-1

2099 Words
Capitolo III Il giorno seguente si svegliò che era già tardi, dopo un sonno inquieto che non lo aveva riposato. Si svegliò bilioso, irascibile, incattivito, e guardò con odio la sua tana. Era un vero e proprio stabbio, lungo circa sei passi, estremamente misero d'aspetto, con la sua tappezzeria giallastra e polverosa che dappertutto si staccava dalle pareti, e talmente basso che un uomo di una certa statura vi si sentiva a disagio, con l'impressione di dover urtare da un momento all'altro il soffitto col capo. I mobili erano consoni al locale: c'erano tre vecchie sedie malandate, e, in un angolo, un tavolo verniciato su cui giacevano alcuni libri e quaderni, da come erano polverosi, si capiva che da un pezzo nessuna mano li aveva toccati; infine, un sofà grande e goffo, che occupava quasi tutta una parete e, per largo, la metà della stanza; una volta foderato di percalle, adesso era a brandelli, e serviva da letto a Raskòlnikov. Spesso egli vi si metteva a dormire così come capitava, senza svestirsi, senza lenzuola, coprendosi con il suo vecchio malandato mantello da studente e posando la testa su uno sparuto cuscinetto, sotto il quale ficcava tutto quanto possedeva in fatto di biancheria, pulita o sporca che fosse, perché il guanciale risultasse un po' più alto. Davanti al sofà c'era un caminetto. Sarebbe stato difficile lasciarsi andare più in basso e trascurarsi più di così; ma a Raskòlnikov, dato il suo stato d'animo, tutto questo faceva perfino piacere. Si era completamente appartato da tutti, rinchiudendosi come una testuggine nel suo guscio, e perfino il volto della domestica, che aveva l'incarico di servirlo e che talvolta s'affacciava alla sua stanza, gli suscitava nausea e una sorta di spasmi. Accade così a certi monomaniaci, eccessivamente concentrati su qualcosa. Già da due settimane la sua padrona aveva smesso di mandargli il cibo, ed egli non aveva finora pensato ad avere una spiegazione con lei e restava senza mangiare. Nastàsja, cuoca e unica fantesca della padrona, in fondo era contenta di questo stato d'animo dell'inquilino, e aveva smesso del tutto di far ordine e di spazzare nella sua stanza, o al massimo prendeva in mano la scopa una volta la settimana e come per caso. Era stata lei, ora, a svegliarlo. «Alzati, basta dormire!» Gridò china su di lui «sono quasi le dieci. Ti ho portato il tè; lo vuoi, un po' di tè? Devi aver la pancia vuota...» Raskòlnikov aprì gli occhi, sussultò e riconobbe Nastàsja. «Il tè lo manda la padrona?» Chiese, sollevandosi lentamente e con aria malaticcia sul sofà. «Che c'entra la padrona?» Gli depose davanti la teiera incrinata, ch'era di sua proprietà, col tè già usato più di una volta, e mise nella tazza due gialli pezzetti di zucchero. «Ecco, Nastàsja, ti prego, prendi,» diss'egli, dopo essersi frugato in tasca (di nuovo aveva dormito vestito) e averne tolto una manciatina di monete di rame, «scendi giù a comprarmi un panino. E dal salumiere prendi almeno un po' di salame, di quello a buon mercato.» «Il panino te lo porto subito, ma non vorresti un po' di minestra di cavolo, invece del salame? È una buona minestra, fatta ieri. Te l'avevo messa da parte, ma sei tornato così tardi... È una buona minestra.» Quando la minestra fu portata ed egli cominciò a mangiarla, Nastàsja si sedette accanto a lui sul sofà e si mise a chiacchierare. Era una donna di campagna e una gran chiacchierona. «Praskòvja Pàvlovna vuol andare a reclamare contro di te alla polizia,» gli disse. Subito egli s'incupì. «Alla polizia? Che cosa vuole?» «Tu non paghi e nemmeno sloggi. Chiaro, che cosa vuole.» «Solo questo mi ci mancava ancora, per tutti i diavoli dell'inferno,» mormorò lui, stringendo i denti. «No, proprio adesso no... non va assolutamente... È una scema,» aggiunse forte. «Oggi andrò a trovarla e le parlerò.» «Sarà una scema, proprio come me, ma tu, che sei un intelligentone, perché te ne stai lì coricato come un sacco e non ti dai da fare? Prima dicevi che andavi a dar lezioni ai bambini, ma adesso perché non fai nulla?» «Sì che faccio...» disse Raskòlnikov come di malavoglia e in tono piuttosto brusco. «Fai cosa?» «Un lavoro...» «Che lavoro?» «Penso,» rispose lui serio serio, dopo un istante di silenzio, Nastàsja esplose addirittura in una risata. Era una donna ridanciana, e quando la facevano ridere rideva silenziosamente, ondeggiando e tremolando in tutto il corpo, finché finiva per sentirsi male. «E hai pensato molti denari, di'?» Riuscì finalmente a chiedergli. «Senza stivali non si può dar lezioni ai bambini. E poi, è roba da sputarci sopra.» «Meglio non sputare nel piatto.» «Per le lezioni ai bambini pagano poche copeche. Che ci fai?» Proseguì lui sempre di malavoglia, come in risposta ai propri pensieri. «E tu cosa vorresti, tutto un capitale in una volta?» Egli la fissò con aria strana. «Proprio così, tutto un capitale,» rispose con voce ferma dopo qualche istante. «Be', vacci piano, se no mi spaventi... mi fai venire la tremarella... Il panino te lo vado a prendere, oppure no?» «Fa' come ti pare.» «A proposito, dimenticavo! Ieri, mentre tu non c'eri, è arrivata una lettera.» «Una lettera? Per me! E di chi è?» «Che ne so io di chi è... Ho dato tre copeche al postino. Me le restituirai?» «Ma portamela dunque, per l'amor di Dio, portamela!» Gridò Raskòlnikov tutto agitato. Dopo un minuto la lettera comparve. Proprio così: era sua madre, dalla provincia di R. Nel prenderla, Raskòlnikov impallidì persino. Già da molto non riceveva lettere, ma adesso c'era qualcosa in più, qualcosa che gli diede improvvisamente una stretta al cuore. «Nastàsja, per l'amor di Dio, vattene; eccoti le tue tre copeche, ma, per l'amor di Dio, vattene subito!» La lettera gli tremava fra le mani; non voleva aprirla davanti a lei: voleva rimanere solo con quella lettera. Quando Nastàsja se ne fu andata, portò rapidamente la busta alle labbra e la baciò; poi stette a osservare ancora a lungo la calligrafia dell'indirizzo, a lui ben nota e così cara, la calligrafia, minuta e inclinata, di sua madre, che gli aveva insegnato un tempo a leggere e a scrivere. Indugiava; sembrava perfino che temesse qualcosa. Alla fine, l'aprì: una lettera grossa, compatta, pesante: due grandi fogli di carta da lettere coperti da una scrittura fitta fitta. «Mio caro Ròdja,» scriveva sua madre, «sono già più di due mesi che non parlo con te per lettera e questo mi ha fatto soffrire; certe notti, a furia di pensare, non ho neanche dormito. Ma tu, certamente, non mi vorrai accusare di questo involontario silenzio. Tu sai quanto ti amo; io e Dunja abbiamo te soltanto, tu sei il nostro tutto, la nostra unica speranza. Cosa ho provato quando ho saputo che non avendo i mezzi per mantenerti già da alcuni mesi avevi lasciato l'università, e che non avevi più lezioni né altri mezzi per vivere! Ma come potevo aiutarti, con i miei centoventi rubli di pensione all'anno? I quindici rubli che ti ho mandato quattro mesi fa li ho presi in prestito, come ben sai, sempre come anticipo sulla pensione, dal nostro mercante di qui, Afanàsij Ivànovič Vachrùšin. È una brava persona ed era amico di tuo padre, ma avendogli ceduto il diritto di riscuotere la pensione per conto mio, dovevo aspettare finché il debito fosse pagato, cosa che è avvenuta soltanto adesso, cosicché per tutto questo tempo non ti ho potuto mandare niente. Adesso, però, grazie a Dio, credo di poterti mandare di nuovo qualcosa; in generale, ora, possiamo perfino dirci fortunati, cosa di cui mi affretto ad informarti. Prima di tutto, indovineresti mai, caro Ròdja, che tua sorella già da un mese e mezzo vive con me, e che anche in futuro non ci separeremo? Grazie al cielo, le sue torture sono finite; ma ti racconterò tutto per ordine, affinché tu sappia come sono andate le cose e quali ti avevamo tenuto nascoste. Quando, due mesi fa, mi scrivevi di aver sentito dire che Dùnja soffriva molto a causa delle villanie subite in casa dei signori Svidrigàjlov, e mi chiedevi spiegazioni precise, che cosa mai avrei potuto scriverti in risposta? Se ti avessi scritto la verità, tu, forse, avresti lasciato tutto, e - magari anche a piedi - saresti venuto da noi, dato che conosco il tuo carattere e i tuoi sentimenti e so che non avresti mai permesso che tua sorella venisse insultata. Io stessa ero disperata, ma cosa potevo fare? Allora nemmeno io conoscevo tutta la verità. L'ostacolo principale, poi, era che Dùneèka, entrata in casa loro l'anno scorso come governante, aveva preso in anticipo addirittura cento rubli, con l'intesa che sarebbero stati trattenuti un tanto al mese dallo stipendio, e quindi non poteva lasciare il posto prima d'aver pagato tutto il debito. Questa somma (adesso ti posso spiegare tutto, mio amatissimo Ròdja) l'aveva presa più che altro per mandarti, l'anno scorso, i sessanta rubli, di cui tu allora avevi tanto bisogno. Quella volta ti abbiamo ingannato, scrivendoti che erano soldi risparmiati in precedenza da Dùneèka, mentre non era così, ma adesso ti comunico tutta la verità, perché adesso, per volontà del Signore, tutto è improvvisamente cambiato in meglio, e perché tu sappia come ti ama la tua Dùnja e che cuore meraviglioso è il suo. In realtà, il signor Svidrigàjlov da principio la trattava in modo molto grossolano, e a tavola le faceva delle sgarberie e la scherniva... Ma non voglio insistere con questi particolari così spiacevoli, per non agitarti inutilmente ora che tutto è finito. Per farla breve, benché fosse trattata con bontà e nobiltà da Màrfa Petròvna, consorte del signor Svidrigàjlov, e da tutti i familiari, per Dùneèka la situazione era molto penosa, soprattutto le volte che il signor Svidrigàjlov, secondo una vecchia abitudine di quando era ufficiale, si trovava sotto l'influsso di Bacco. Ma che cosa saltò fuori in seguito? Figurati che quel bel tipo già da tempo aveva concepito una passione per Dùnja, ma l'aveva tenuta nascosta sotto un'apparenza di villania e di disprezzo nei suoi confronti. Forse, egli stesso aveva orrore di se stesso e si vergognava, già avanti negli anni e padre di famiglia, di nutrire speranze così frivole, ed era per questo che senza volerlo se la prendeva con Dùnja. Oppure può darsi che con la grossolanità dei modi e con gli scherni volesse solo tener celata agli altri la verità. Alla fine, però, non ha più saputo dominarsi, e ha osato fare esplicitamente a Dùnja una proposta sporca, promettendole varie ricompense e persino che avrebbe lasciato tutto e sarebbe partito con lei per un altro villaggio o magari per l'estero. Ti puoi immaginare le sofferenze di Dùnja! Lasciare subito il posto non le era possibile, non soltanto a causa del debito, ma anche per compassione verso Màrfa Petròvna, per non metterla in sospetto e, di conseguenza, far nascere la discordia in seno alla famiglia. Senza contare che anche per Dùneèka sarebbe stato inevitabilmente un grosso scandalo. E c'erano anche molti altri motivi per cui Dùnja non poteva assolutamente strapparsi da quella maledetta casa prima di sei settimane. Tu conosci Dùnja e sai bene quant'è intelligente e ferma di carattere. Ha una grande capacità di sopportazione, e anche nelle circostanze più difficili sa trovare in sé la forza di non rinunciare a questa sua qualità. Perfino a me non spiegò del tutto la situazione, per non agitarmi, e sì che ci scambiavamo spesso le nostre notizie. Le cose, poi, si risolsero in modo inatteso. Màrfa Petròvna udì per caso suo marito mentre supplicava Dùneèka in giardino, e avendo capito tutto alla rovescia incolpò lei, pensando che fosse sua la colpa di tutto. Si svolse fra di loro, lì in giardino, una scenata orribile: Màrfa Petròvna arrivò al punto di colpire Dùnja; non voleva sentire ragioni, e continuo a urlare per un'ora buona; alla fine ordinò che Dùnja mi fosse riportata subito in città, su un semplice carro da contadini, dove fece gettare tutta la sua roba, biancheria e abiti, tutto così com'era, senza legarlo, alla rinfusa. Proprio allora cominciò a piovere a dirotto, e Dùnja, umiliata e disonorata, dovette percorrere con il contadino ben diciassette chilometri su quel carro scoperto. Giudica tu, ora, che cosa avrei potuto scriverti, in risposta alla tua lettera di due mesi fa, e di che cosa avrei potuto parlarti... La verità è che ero disperata! Non osavo scriverti come stavano le cose, perché tu ti saresti sentito molto infelice, e sdegnato, e d'altronde che cosa avresti potuto fare, se non, forse, rovinare te stesso? Senza contare che Dùneèka me l'aveva proibito; e quanto a riempire la lettera di sciocchezze, parlando del più e del meno mentre avevo tanto dolore nell'anima, questo proprio non potevo farlo. Per un mese intero, in città corsero pettegolezzi su questa storia. S'era al punto che io e Dùnja non potevamo più nemmeno andare in chiesa, a causa delle occhiate sprezzanti e dei mormorii dietro le spalle, e della cosa si discorreva perfino ad alta voce in nostra presenza. Tutti i nostri conoscenti s'erano allontanati da noi, tutti avevano perfino smesso di salutarci, e io venni a sapere con certezza che alcuni commessi scrivani volevano recarci una vile offesa, insudiciando di catrame il portone della nostra casa; e fu così che i padroni cominciarono a chiedere che lasciassimo l'appartamento.
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