Capitolo primo-2

1859 Words
– Allora hai deciso? – chiese. Alberto non indugiò neppure un istante. – Sì. Aurelio si alzò e indossò la giacca da camera in lana. Scostò la tendina e guardò al di là del cancello del giardino. – Mi sa che avrò difficoltà a raggiungere l’ufficio – disse tanto per cambiare discorso. Avevano discusso a lungo di quel progetto: liquidare l’attività, e far confluire tutto il danaro su un conto estero, intestato ad Aurelio. Non male come compenso per una falsa testimonianza vecchia di mezzo secolo. Benché fossero giunti a un accordo, Aurelio nutriva ancora delle perplessità. Fece buon viso a cattiva sorte cercando anche di abbozzare un sorriso. Il caffè gli fece aggrovigliare lo stomaco, o forse era l’ansia. Mentre Alberto si svestiva per coricarsi nella sua stanza, Aurelio provvedeva a prepararsi per andare al lavoro. Era così da anni. Quando uno arrivava l’altro usciva. Condividevano la villetta così vicina all’ufficio. Aurelio entrò in bagno, fece scorrere l’acqua della doccia per farla diventare bollente, poi si gettò sotto il getto caldo, lasciandolo scivolare sul collo. Sentiva allentare la tensione. Rimase sotto l’acqua per un quarto d’ora. Poi chiuse il rubinetto, uscì dalla doccia e si coprì con l’asciugamano lasciato intenzionalmente sul calorifero a scaldarsi. Ora che il piano stava per essere messo in atto si sentiva turbato, anzi, angosciato era la parola giusta. Si infilò i vestiti e uscì dal bagno. Non rientrò in camera. In pochi minuti era bello pronto. Infilò i guanti, avvolse la sciarpa al collo e salutò. – Io esco, allora – urlò dirigendosi verso la porta di casa. – La cartellina! – gli ricordò Alberto – devi consegnarla in tipografia. “Che razza d’idea” pensò tra sé e sé mentre la prelevava dalla mensola e si apprestava a uscire. Quando fu fuori Aurelio sollevò lo sguardo sul grande orologio digitale al di là della strada: erano le sette del dieci ottobre. Lasciò sbattere la porta alle sue spalle. Guardò in alto il cielo, come attendendosi un aiuto divino. Cercò un precario equilibrio sul vialetto infradiciato, dopo aver traballato rischiando di cadere. Chissà perché era solito ricordare le date! In parte era un’attitudine specifica, in parte una deformazione professionale: era contabile. Così diverso rispetto ad Alberto per carattere, indole, gusti e abitudini. Nell’azienda si erano divisi i compiti da buoni soci. Alberto era il capo, il braccio operativo: dirigeva, contattava, ordinava, insomma svolgeva tutta quella parte del lavoro che richiede polso e fermezza e poi, quando giungeva la sera, si placava… adorava attendere l’arrivo dei camion fino all’alba, leggere e scrivere durante tutta la notte. Aurelio si occupava dei conti, delle fatture, dei registri di carico e scarico e la sua presenza era indispensabile soprattutto al mattino. Così quando uno andava a letto l’altro si preparava per andare in ufficio. Mentre Aurelio camminava martoriato dai suoi pensieri, Alberto si recò alla finestra. Scostò la tendina. Pioveva nuovamente con grande insistenza. Le suole di Aurelio affondavano nella terra zuppa. Lo guardò percorrere con difficoltà le poche centinaia di metri che separavano l’abitazione dall’ufficio. Lo scrutò. A ogni passo l’orma impressa sul terriccio veniva cancellata da altra acqua e scompariva quasi subito. “Non resta nulla del nostro passaggio” pensò Alberto. Poi lasciò andare la tendina e si tuffò nel letto, fermamente convinto della sua decisione. Sua. Una scelta di cui non Aurelio non sapeva nulla. Aurelio arrivò nella rimessa completamente bagnato. Percorrere quel tragitto aveva richiesto un grande spreco di energie. Si scaldò un poco al caldo della stufa, fregandosi in continuazione le mani, tenendo la cartellina sotto braccio. Soltanto dopo alcuni minuti la posò per levarsi il cappotto di lana grigia. Le bolle di viaggio erano nel contenitore vicino alla scala dove ciascun trasportatore le lasciava all’arrivo. Le prelevò, iniziando a sfogliarle mentre saliva la scala. Aprì la porta a vetri dell’ufficio e si sistemò alla scrivania non prima di aver acceso il bollitore elettrico del tè. Dal magazzino la merce, arrivata nella notte, sarebbe ripartita subito dopo per la sua destinazione: i cavoli della Polonia venivano distribuiti in Italia, i datteri del Marocco in Germania, e così via, spostandosi in un girotondo senza fine. “È questo il commercio” si disse, sorpreso dalla sua stessa ovvietà. Accese il computer e sistemò alcuni faldoni di fatture sul tavolo. Fino alle quattro del pomeriggio avrebbe avuto il suo da fare tra telefonate, ordini, spedizioni e consegne. Soltanto un impegno lo avrebbe distolto dal suo lavoro. Alle dieci in punto avrebbe consegnato la cartellina al tipografo, suo malgrado. Alberto intanto si era steso nel letto. Chiuse gli occhi dopo aver sistemato il cuscino. Spense la luce della lampada allungando un braccio fuori dalle coperte. Sapeva cosa avrebbe sognato. Era lo stesso sogno da sempre. O forse era più semplice chiamarlo con un altro nome: ricordo è la parola esatta. E poi, adesso che stava per morire, poteva anche permettersi di chiamare le cose come meglio credeva. I morti non fanno tante sottigliezze. Savona, 3 aprile 1955 – È qui, Josephine? In questo portone? – Sì, Alberto. All’ultimo piano. – Allora posteggio. Così scarico. Ecco fatto. – E quello scatolone cos’è? – Una sorpresa. – Per me? – E per chi, sennò? Uhm, la scala è molto stretta. – Ma cosa c’è dentro al pacco? È enorme. – Aspetta e vedrai. – Sembra molto pesante. – Che vuoi che sia! Scaricavo le cassette al mercato un tempo. Ho cominciato a lavorare a quindici anni, lavori duri. Forza, saliamo. – Questo è vero. Ma non dovevi farlo salendo una scala. – Vai piano, non sforzarti. – Non preoccuparti. A che piano siamo? – Al secondo. – Guarda che ti ho sentita ridacchiare. – Non capisco cosa possa esserci lì dentro di tanto pesante. E poi in casa c’è già tutto. Ci abitava mia nonna. – A proposito. Mi spiace che sia mancata. Non ho fatto in tempo a rientrare per il suo funerale. – Pazienza. – La scala si stringe ancora. – Sei tutto sudato. – E poi pensi che non ti ami. – Cosa fai? – Ti guardo. – Perché mi guardi così? – Come dovrei guardarti? – Non lo so. Mi metti in imbarazzo. – Manca ancora molto? – Le ultime due rampe. Ma sono le più ripide... Cosa fai? – Eh? – Ti sei perso. A volte parti con la mente. Non sei più qui. – … – Vorrei sapere cosa pensi. – Perché? – Perché fai sempre così quando mi guardi. Non voglio nemmeno immaginare su cosa ti fissi. Anzi, passa tu davanti. M’infastidisce che mi guardi il sedere. – Non ti stavo… – Smettila e cammina. Stanco? – Noo… – Dai, l’ultimo sforzo. – … – Ecco! È successo di nuovo. – Eh! – Lo vedi? – Scusa? – Ti sei incantato ancora. Vuoi dirmi che ti succede? – Immagino. – Immagini? E cosa? – È difficile da spiegare. – Provaci, almeno. – Questo è uno di quei momenti che... non so dirlo... che un giorno rivedrò. – Esprimiti meglio. – Voglio dire, questa scena, io e te... è come se... noi due... boh! – Grazie per la spiegazione, Alberto. A volte mi fai paura. – Hai la chiave? – Eccola. Adesso apro. Alberto si risvegliò a mezzogiorno. Sentì la campana della chiesa rintoccare. Aveva mal di testa, come a tutti i risvegli. Non ne poteva più di quel sogno. Si alzava più stanco di quando si era coricato. Ma presto sarebbe finita. Si sarebbe spogliato per sempre di quell’incubo. Per prima cosa doveva chiamare il medico. Per farsi aiutare a morire. Ci sarebbe voluto un po’. Ma alla fine ce l’avrebbe fatta. Ne era sicuro. Si conoscevano da anni. E poi il dottor Minervoni avrebbe avuto il suo bel tornaconto. Già se lo immaginava, con la sua palandrana, la borsa, il cappello in testa, accorrere alla chiamata. O forse era meglio chiamare prima il notaio Pascali per dettare le ultime volontà? Quante complicazioni per uno che vuole togliersi la vita! Forse era preferibile convocarli insieme. Doveva solo spiegare loro il suo piano. No, no! In due si sarebbero fatti forza l’un l’altro. Si sarebbero guardati sottecchi, sbirciati, mentre lui parlava. E alla fine, forti della loro unione si sarebbero allontanati indignati. Ma uno a uno... avrebbero compreso. Non poteva più indugiare. Quel sogno avrebbe finito per distruggerlo. La pioggia continuava a scendere. E se avessero adottato come scusa proprio le avverse condizioni climatiche? Se si fossero appellati al fatto che le strade stavano diventando impraticabili? Doveva essere sicuro della loro collaborazione, altrimenti il piano sarebbe saltato. Restò alcuni istanti a contemplare i piccoli torrentelli che aumentavano in altezza ai bordi della strada. Certo, non era facile dire a un professionista come il dottor Minervoni: amico, ho bisogno della tua collaborazione, vorrei uccidermi. Quanto al notaio, lui sarebbe rimasto all’oscuro di tutto. Era suo compito redigere gli atti, no? E ognuno dei suoi beni dispone come meglio crede. Il notaio non avrebbe fatto storie. Avrebbe dovuto limitarsi a raccogliere le sue ultime volontà. Molto meglio convocarli separatamente. Il dottor Minervoni, invece… senza di lui il suo piano non poteva affatto attuarsi. Prese in mano la cornetta. – Dottore, buongiorno – disse tossendo. – Buongiorno a te, Alberto. In cosa posso esserti utile? Hai preso freddo? C’è molta influenza in giro... Alberto tossì nuovamente, stavolta più forte. – No, avrei bisogno di parlarti... privatamente – ansimò. Il dottor Minervoni si fece bianco in volto. Accostò meglio l’orecchio alla cornetta e disse: – Mi preoccupi. Non ti senti bene? – Non molto. Forse sto per morire. – Ma dove sei? Arrivo subito. – Sono a casa mia – biascicò Alberto. – Che sintomi accusi? No, aspetta, corro… Afferrò la palandrana, il cappello e la valigetta, non prima di averci gettato dentro dei cardiotonici e alcune siringhe. Uscì di casa in un baleno, per quanto glielo consentissero l’età e le sue ginocchia malconce. Si precipitò all’auto posteggiata nella rimessa e inserì la retromarcia schiacciando sull’acceleratore. Schizzi di fanghiglia si sparsero ovunque intorno. Si inserì nella carreggiata. Alla prima curva rischiò di finire fuori strada. I tre chilometri che separavano la sua abitazione da quella dell’amico Alberto sembravano infiniti. Non si accorse di un semaforo rosso e per poco un camion non lo investì. Finalmente arrivò e lasciò l’auto all’inizio del vialetto percorrendo a piedi gli ultimi cento metri. – Alberto! – urlò, non appena varcò la soglia di casa oltrepassando la porta lasciata aperta – Alberto! Non fu facile per Alberto convincere il suo amico dottore che era giunta l’ora per lui di morire. Ci vollero due ore buone, tutta la sua capacità dialettica... e la promessa di un paio di milioni di euro. In contanti. Otto giorni più tardi Alberto era notevolmente dimagrito. Giaceva nel letto con lo sguardo perso sul soffitto. La casa era quella tipica di un malato: persiane socchiuse, odore di medicinali, silenzio, penombra. In camera un crocifisso sulla parete, un bicchiere d’acqua sul comodino, le scatole dei medicinali aperte, le pantofole ai piedi del letto. Aurelio entrò nella stanza osservandolo con cura. Qualcosa non lo convinceva in quella malattia. Così improvvisa! Come mai? E poi che nome aveva? Depressione? Perché si ostinava a non farsi visitare da qualche luminare? Perché se ne stava rannicchiato nel letto come un cane randagio infreddolito? Chi voleva buggerare? Lui? Il suo fedele compagno? Dopo così tanti anni di convivenza? Gli era stato vicino sempre. Con affetto. Con devozione. Non meritava questo. Preparò alla bell’e meglio una valigia, gettandoci dentro alcuni vestiti. Movimenti nervosi dal guardaroba al letto. Non sarebbe rimasto lì a vederlo lasciarsi morire. Alberto voleva restare solo? Ebbene. Lo avrebbe accontentato. Cercò di chiudere la cerniera della valigia posandovi sopra un ginocchio. Era stracolma. – Vai – disse Alberto – e fai entrare il medico. Aurelio obbedì. Mentre usciva dalla stanza incrociò il medico che stava entrando. Il dottor Minervoni salutò Aurelio, distolse in fretta lo sguardo e lo volse verso il suo paziente. – Siamo alla fine – mormorò. – Telefona al notaio – gemette Alberto.
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