2.

3327 Words
2. Alcuni degli avventori della locanda se n’erano andati. Fuori, nella tempesta, lontano dal dhenesco e dai possibili guai che portava con sé. Ma la maggioranza era rimasta, povera gente costretta ad accettare quello che le cadeva sulla testa. Da quattro anni sopportavano quegli invasori che si erano presi tutto quello che era loro, potevano sopportare di averne anche uno nella stessa locanda che si divertiva con una delle loro donne. L’ennesima. I namdvariani non erano gente coraggiosa, erano allevatori, se vivevano in alto sui monti, e contadini, se vivevano nelle valli. Oray, suo padre e suo nipote, avevano preso una stanza al piano superiore, ma ovviamente avevano rinunciato a quella comodità. Ora dormivano alla meglio sulle panche di legno, troppo impauriti per arrivare fino ai loro scarni bagagli. Il viandante con il mantello color muschio si era addossato alla parete, il cappuccio ben calcato sugli occhi e il fagotto dei suoi averi sotto la testa. Si era addormentato profondamente, mentre gli altri stentavano a prendere sonno. «Oray?» sussurrò Pelridge dalla panca su cui era steso. Le loro teste erano vicine, mentre i piedi puntavano in due direzioni diverse. «Cosa c’è?» rispose il giovane. «Perché è venuto qua?» Oray sospirò. «Non lo so proprio. Voleva solo una donna, penso». E dentro di sé aggiunse: e noi gliel’abbiamo lasciata prendere. «Perché?» insistette il bambino. Oray, vigliaccamente, rispose: «Dormi, ora. Si è fatto tardi.» Una frase assurda in quelle circostanze, ma Pelridge la accettò per semplice abitudine. Ormai era stanco. Troppe emozioni per una giornata. I suoi occhi si fecero pesanti, sempre più pesanti, e si chiusero. Oray rimase sveglio, le orecchie tese, tentando di sentire qualche rumore proveniente dal piano di sopra. Non ce ne furono. Si aspettava urla e lamenti, ma quel silenzio totale era quasi peggiore. Per ore e ore rimase con gli occhi aperti e il cuore in tumulto, ascoltando. Come lui, molti altri uomini nella sala non dormivano. I dheneschi erano predatori, era stato chiaro già durante l’invasione. Massacravano e godevano a spargere il terrore, ma avevano un metodo, una disciplina. Prendevano i casolari, uccidevano chi si opponeva, disonoravano tutte le donne della casa e poi passavano oltre. Quando Namdvara era stata in mano loro avevano chiarito quali erano le loro regole: agli abitanti sarebbe stato lasciato il minimo indispensabile, tutto il resto ora era di Dhenes. Da allora andavano avanti così. Non c’erano state mescolanze. Per i dheneschi loro erano come muli o vacche da mungere, nient’altro. Oray, gli occhi aperti e i muscoli irrigiditi dalla paura e dalla vergogna, non riusciva a smettere di pensare al capitano e alla viandante. Si chiedeva se lui fosse stato veloce – sperava di sì – o violento – sperava di no. Riusciva quasi a figurarsi l’amplesso animale a cui lui l’aveva costretta, il corpo schiacciato sotto il suo. Una sola volta? Sperava di sì. Ma lei era ancora con lui. Arrivò il mattino e la tempesta si era placata. Fuori dai vetri delle finestre gli alberi all’alba scintillavano di rugiada, la valle era inondata dai raggi del sole nascente. Quelli che non avevano lasciato la locanda la sera precedente lo fecero adesso. In silenzio. Vergognosi e timorosi nello stesso tempo. Oray li considerava dei vigliacchi, ma doveva riconoscere di non essere migliore di loro. «Dobbiamo salire a prendere la nostra roba» disse a suo padre. «Non possiamo lasciarla qua». Il vecchio scosse la testa. «Aspettiamo. Se ne andrà, prima o poi». Pelridge dormiva ancora, la testa contro il legno della panca. L’oste servì del latte di vacca e del vino, insieme a qualche pezzo di pane. Poi, sulle scale, comparve la ragazza. Era completamente vestita e sembrava incolume, tuttavia aveva gli occhi sgranati di chi sta morendo dalla paura. Gli sguardi di tutti si fissarono su di lei. Il viandante si alzò e iniziò a dire, in tono calmo e leggermente burbero: «Ti senti bene?» Lei lo interruppe. «Vuole dell’acqua. Subito. Una brocca e una bacinella». L’oste restò come congelato sul posto. «Subito!» insistette la ragazza, con una nota isterica nella voce. L’oste corse nell’altra stanza. Un mormorio si diffuse nella stanza, mentre tutti si guardavano attorno come se da qualche parte lì in giro ci fosse una brocca e una bacinella. L’oste tornò con quanto richiesto e la ragazza lo prese dalle sue mani e si voltò senza una parola. Corse su per le scale. La gente, dabbasso, rimase in silenzio con lo sguardo puntato verso il punto in cui era scomparsa, come in attesa. Non accadde nulla. «È tutta intera, sembra» disse, alla fine, il vecchio. La sua voce esprimeva sollievo, ma era anche dubbiosa. «Sembra» disse un uomo accanto a lui. «Se davvero è tutta intera si scoprirà tra nove mesi o lo saprà suo marito». Oray strinse i pugni, impotente. «Non le ha fatto niente» disse lo straniero, in tono sicuro, e stava per aggiungere dell’altro quando qualcosa si mosse sulle scale. Il dhenesco scese gli ultimi gradini con passo calmo. Sapeva di essere il padrone, da quelle parti, o comunque dava a vedere che fosse così. Si guardò lentamente intorno e passò tra gli avventori, dirigendosi verso la porta. Gli avventori si affrettarono ad allontanarsi dal suo passaggio. Il dhenesco infilò una mano sotto al mantello e una moneta d’oro rimbalzò sul tavolo. Poi la porta sbatté e lui non ci fu più. Radina aveva bevuto una tazza di vino caldo e aveva raccontato cento volte che cosa era successo. Aveva raccontato di come aveva dovuto ricucire il dhenesco, di come era rimasta tutta la notte a tremare sul pavimento e di come lui, alla mattina, avesse voluto lavarsi. «E ha voluto che rimanessi fuori dalla porta» aggiunse, con una mezza risata. Ora che il pericolo era passato aveva ritrovato la sua naturale scanzonatezza. «Non voleva farsi vedere» borbottò un uomo. Radina ne dubitava, ma non disse nulla. Era stata una semplice forma di gentilezza, dato che lei l’aveva ricucito senza cercare di tradirlo. «Non voleva che qualcuno entrasse» corresse il viandante. Chissà che cosa gli dava tanta sicurezza. Radina si ristorò, ringraziò, e affermò di volersi rimettere in marcia. «Ma non puoi andare da sola!» disse Oray. Lei inarcò un sopracciglio, ironica. «No? E con chi dovrei andare? Devo andare al mercato di Zlesia, non posso fermarmi». «A Zlesia? Noi andiamo a Rocin, poi venire con noi fin là». Il vecchio gli lanciò un’occhiataccia. Evidentemente non gli piaceva l’idea di dover dividere il cammino con una sconosciuta che aveva appena passato la notte con un dhenesco. Ma non disse niente, così Oray fu libero di insistere un altro po’. Alla fine Radina accettò. Si misero in cammino prima delle undici, dopo aver messo qualcosa nello stomaco. Il fianco del monte che stavano scendendo era boscoso. Era la stagione in cui il sole aveva già iniziato a seccare l’erba, ma di notte c’era ancora freddo. L’aria aveva il buon odore della terra che si asciuga dopo la pioggia. Gli uccelli, nascosti nel fitto degli alberi, rumoreggiavano incessantemente. La strada era una pista per carri sterrata, in discesa. In alcuni punti la vegetazione aveva iniziato a invaderla, perché d’inverno non era molto trafficata. Con la primavera i viaggiatori erano tornati sulle strade, ma non ancora in numero sufficiente da riaprirla del tutto. Quel giorno in particolare, la strada sembrava fin troppo deserta. «E così, vai a Zlesia a comprare delle erbe?» chiacchierava Oray, mentre avanzavano nella campagna. «Per forza. La gente vuole intrugli sempre più strani, e in qualche modo bisogna procurarglieli. In fondo non sono che due giorni di cammino». «Sì, ma tutta sola…» Radina emise una risata cristallina. «So badare a me stessa, te lo assicuro. E poi… se deve succedere una disgrazia non bastano mille protettori» aggiunse, tornando a essere seria. A questo Oray non seppe replicare. Non erano stati forse tutti a guardare, la sera precedente? «E voi? Che cosa vi porta a Rocin, se non sono indiscreta?» cambiò discorso lei. Non voleva riportare l’argomento sulla nottata appena trascorsa. Sentiva su di sé lo sguardo sospettoso del vecchio, una cosa che la irritava leggermente. Sembrava che il suo sguardo dicesse: “Davvero l’hai solo ricucito?”. Perché se non fosse stato così... be’, nessuno gliene avrebbe fatto una colpa, ma Radina sembrava un po’ troppo in forma per una che aveva dovuto subire la lussuria di un dhenesco. Quindi forse le era piaciuto. Quindi forse era una puttana collaborazionista. A volte non ci voleva nulla, il sospetto attecchiva come le erbacce. «Oh, andiamo in visita da un parente» spiegò Oray, ignaro dei pensieri della loro compagna di viaggio. Quello che non voleva dire era che andavano a chiedere un prestito. «Un cugino di mio padre, che fa il mercante». Radina annuì. «Capisco. Be’, dicono che Rocin fosse un villaggio prospero e gradevole, anche se un po’ isolato». Prima, è ovvio. Prima dell’invasione. Di quante cose avevano deciso di non parlare... «È vero. Naturalmente Zlesia è più grande, ma anche a Rocin non mancava niente. Anche ora... forse Pelridge potrà fare l’apprendista dal nostro parente». «Ma io non voglio!» brontolò il bambino, che saltellava accanto a suo zio. «Ne abbiamo già parlato» tagliò corto Oray. Radina si affrettò a cambiare di nuovo argomento. «E tu che cosa fai, Oray?» Lui sorrise. «Aiuto mio padre alla fattoria. Da quando mia sorella si è sposata il lavoro sembra raddoppiato!» «Sua madre?» si informò Radina, indicando Pelridge. «Oh, no. Quella è la mia altra sorella. Lei non c’è più». «Mi dispiace,» disse Radina, rendendosi conto che avrebbe dovuto cambiare ancora argomento. «Già. Che ci vuoi fare». Radina si chiese se questa sorella fosse morta durante l’invasione o in un altro momento. Visto il modo in cui Oray non voleva parlarne probabilmente era un altro dei crimini dei dheneschi. Pelridge, come sempre quando si parlava della madre, assunse un’espressione distante. Lasciò vagare lo sguardo sugli alberi che circondavano la strada. In quel punto formavano una specie di tunnel di rami intrecciati sopra di loro. L’aria era fresca e odorosa, perché lì il sole penetrava solo a piccole macchie. A un tratto Pelridge credette di scorgere qualcosa tra le foglie. Assomigliava a un riflesso, sembrava quasi… Una freccia sibilò davanti a lui e si andò a conficcare nella spalla di Radina, che gridò e cadde in ginocchio. All’inizio lo shock superò il dolore, ma pochi secondi dopo la carne iniziò a bruciarle in modo insopportabile. «Che cosa…» iniziò a dire Oray, guardandosi attorno in preda al panico. Dagli alberi erano appena emersi tre uomini a cavallo. Erano cavalli spelacchiati e troppo magri, e gli uomini erano sporchi e vestiti con parti spaiate di vecchie armature. «C’è un pedaggio da pagare, su questa strada» disse uno dei tre, con voce stridula, ed emise una risata sgradevole. Il vecchio sospirò e si slacciò la borsa dalla cintura. «È tutto quello che abbiamo» disse, tendendola verso di lui. Radina, a terra, gemette piano. Oray le si inginocchiò accanto e cercò di fermare il sangue che le usciva dalla ferita. La freccia era penetrata per un bel pezzo e toglierla sarebbe stato difficile, forse impossibile. Entrambi lo sapevano e si guardarono con sguardi spaventati. Pelridge si inginocchiò dietro di loro, come se volesse nascondersi dai banditi in quel modo. «Tutto qua?» disse lo stesso che aveva parlato prima, facendo una smorfia. Aveva appena guardato dentro la sacca. «Siamo povera gente… ci hanno già tolto tutto...» disse il vecchio. Un altro cavaliere smontò pesantemente di sella. «O magari dei gran furboni, che cosa ne sappiamo noi?» Avanzò verso Oray, la spada sguainata, e lo strattonò lontano da Radina. Finì nelle braccia del terzo brigante, che nel frattempo era smontato anche lui. «Ma che bella mogliettina» commentò quello, sollevando bruscamente Radina per un braccio. Lei gridò per il dolore della freccia, ma tentò comunque di divincolarsi. Era come se l’incubo iniziato la sera precedente si rifiutasse di svanire. «No!» gridò Pelridge. Cercò di mettersi in mezzo e il bandito lo colpì con un calcio, mandandolo a ruzzolare per terra con un guaito. Riprese Radina, che aveva provato a scappare, e le strappò il vestito partendo dallo scollo, mettendo in mostra i seni nudi, che si sollevavano affannosamente, sudati, con i capezzoli ritratti... il sangue che iniziava a colare dalla ferita nel solco tra essi. «Bella» commentò, con un sorriso laido. La prese per i capelli e iniziò a trascinarla verso il bosco. Il dolore alla cute si sommò a quello alla spalla. Radina incespicò, guaendo. «T-ti prego...» singhiozzò, inutilmente. Avrebbe dovuto restare a casa. Durante quel viaggio Kalte aveva deciso di imporle quella prova, era sempre più evidente. Gli altri aggressori si stavano occupando di Oray e del vecchio, distribuendo calci e colpi d’elsa. Non che avesse importanza: da loro non sarebbe venuto comunque alcun aiuto, come la sera prima. «Vieni con me» disse il bandito, continuando a trascinarla verso il bosco. Radina scalciò, incurante del dolore alla spalla, ma quell’uomo era troppo forte per lei, e la teneva per i capelli. In lontananza si udirono i tonfi degli zoccoli di un cavallo che avanzava al trotto. «Aiuto!» gridò Radina. «Qualcuno ci aiuti!» «Stai zitta, puttana!» ringhiò il brigante, colpendola al viso. Radina avvertì il suo odore pungente, il suo fiato che puzzava di marcio. Il rumore degli zoccoli si avvicinava. Lento, troppo lento. Si trovò sbattuta sulle foglie bagnate dalla pioggia della notte precedente. La freccia, nella spalla, sembrò trapassarla di nuovo. Un fiotto di sangue, un dolore acuto. L’uomo le fu sopra in un istante. Il dolore della ferita le fece quasi perdere i sensi. Forse sarebbe stato meglio. Gli zoccoli troppo lontani. Le strappò del tutto il vestito, denudandole la parte anteriore del corpo. Radina cercò di spingerlo via con le gambe, ma se lo trovò solo sopra. Le mani a graffiarle le cosce... ad allargargliele... Kalte, ti prego, no... Il brigante si slacciò le braghe. Il dhenesco sembrò quasi divertito. Montava un enorme stallone nero dall’aria feroce, che sbuffava e allargava le froge. Caricato di traverso dietro alla sella aveva un cerbiatto di daino ucciso da poco, gli occhi vuoti e la bocca schiumosa. I briganti lo videro, lo riconobbero come uno dei padroni e fu chiaro che avrebbero voluto scappare. Non avevano intenzione di uccidere un dhenesco... se pure ci fossero riusciti. Alek colpì il primo dei due senza neppure scendere di sella. Sfilò dal fodero la propria spada e la roteò elegantemente nell’aria, raggiungendo il brigante a una spalla. Quello gridò e tentò di rimontare a cavallo. La bestia, impaurita, si imbizzarrì e lo colpì con gli zoccoli. Alek non trattenne una risata. Si voltò per dedicarsi al secondo, ma si accorse che stava correndo via lungo la strada. Per un attimo meditò di inseguirlo. «Là! Nel bosco!» gridò uno dei viandanti aggrediti, in dhenesco. «Radina! La ragazza di stanotte!» Alek aggrottò le sopracciglia. Poi, attutito dal rumore delle fronde e coperto dai singhiozzi del bambino, sentì il rumore. Grida soffocate... grugniti. Scese cautamente di sella. Il contadino, lì, aveva parlato della ragazza di quella notte... che cosa voleva dire? Si inoltrò tra i cespugli seguendo il rumore. Lo spettacolo che lo aspettava non lo colse del tutto di sorpresa, ma lo disgustò comunque. Un bravaccio sporco che cercava di farsi largo dentro una giovane donna semi-nuda. Lui con i calzoni abbassati... lei tutta sporca di sangue, che scalciava debolmente. Prese quell’escremento per i capelli e gli passò la lama sulla gola. I suoi gemiti si sommarono a quelli della ragazza. Lo afferrò per le spalle e lo buttò più in là. Che agonizzasse da un’altra parte. Si ripulì la spada contro i pantaloni e la rinfoderò. Sì, era la ragazza di quella notte. Il suo vestito azzurro era stato squarciato del tutto e aveva una freccia in una spalla... la stoffa del vestito era intrisa di sangue. Indifferente a quella ferita, l’uomo che aveva appena accoppato le era montato comunque addosso. La pelle chiara di lei era tutta insanguinata... i seni piccoli e tondi... la pancia liscia... il sesso dai riccioli ramati sporchi di fango... di sangue... «Radina? Ti chiami Radina?» disse. Lei continuò a singhiozzare, senza neppure cercare di coprirsi. Alek si inginocchiò accanto a lei. Le posò una mano sulla fronte, trovandola fredda e sudata. «Shh. Shh» cercò di calmarla. Osservò la situazione in modo più analitico. La sua formazione militare gli impediva di restare turbato dalla violenza. Il problema principale era la freccia nella spalla. Non poteva essere tolta su due piedi, ma doveva essere tolta al più presto. Sanguinava, anche se non come se avesse colpito un’arteria principale. Il resto di lei... be’, il resto di lei era un problema minore. Non sapeva se il suo aggressore fosse riuscito a infilzarla, ma non stava sanguinando in modo evidente, quindi se anche ci era riuscito non aveva rotto nulla. Sentì un rumore alle sue spalle e si voltò di scatto. La ferita alla schiena gli ricordò di non essersi ancora rimarginata. Era il giovanotto che l’aveva avvertito di quello che stava succedendo. Sembrava che parlasse un po’ di dhenesco. «È tua moglie?» gli chiese, anche se non pensava che lo fosse. La sera precedente non aveva mosso un dito per aiutarla e anche prima l’aveva definita “la ragazza”. Inoltre era troppo brutto per lei, pensò, con un sogghigno mentale. «No. Signore. Come... lei come ferita?» Era evidente che solo per arrivare fin lì e per fargli quella domanda c’era voluto tutto il suo coraggio. Alek disprezzava i deboli, ma doveva ammettere che quel tizio, magro e dal mento sfuggente, faceva bene a non dimostrarsi troppo ardito. «Il problema è la freccia. Devo toglierla, ma non posso farlo qui. Conoscete qualcuno qua attorno che possa aiutarla?» «N-no...» Per di più sembrava che quel tizio non riuscisse a togliere gli occhi dal corpo di lei. Era una bella ragazza, ma, diamine, forse era stata appena infilzata da un brigante... un po’ di pudore! Si sganciò il mantello e lo usò per coprirla. «Dille che la prendo e la porto in un posto dove posso curarla. Hai capito? Diglielo». Il giovanotto si accucciò accanto a Radina, sull’altro lato, e le parlò nella loro lingua dolce e fessa. Lei sembrava avere dei problemi a metterlo a fuoco, ma annuì. Disse qualcosa. «Lei capito». «Dille che stanotte mi ha aiutato. Non le farò del male. Ora dobbiamo andare». Il giovanotto tradusse e lei spostò gli occhi nei suoi. Annuì. Aveva lo sguardo velato di dolore, di paura... forse di vergogna. «Sì» disse, in dhenesco. Alek la prese in braccio, facendola gridare di dolore, e si avviò verso il suo cavallo con passo lento e strascicato. Sganciò il daino e mise Radina seduta sulla sella. Poi montò in arcione dietro di lei. Spronò e ripartì senza aggiungere altro. «Dobbiamo seguirlo» disse Oray, non appena il dhenesco fu scomparso. Si avvicinò a uno dei cavalli dei briganti, che nitrì spaventato. «Tu sei pazzo!» gridò suo padre. Ma Oray era preso da un’urgenza febbrile. Rincorse goffamente il cavallo finché non riuscì ad afferrare la briglia e si arrampicò sul suo dorso. «No, devo seguirla» spiegò, senza spiegare niente. Spronò il cavallo, ma la bestia recalcitrò e nitrì, cercando di sgropparlo. «È spaventato, ti butterà a terra» disse il padre. Si avvicinò cautamente alla bestia e la prese per il morso. «Oh!» disse. «Oh! Calma, calma…» «La salveremo?» trillò Pelridge. «Non ha nessun bisogno di noi. L’ha presa il dhenesco. Forse vuole aiutarla, forse no, ma perché dobbiamo impicciarci?» brontolò il vecchio, continuando ad accarezzare il collo del cavallo. «E poi che cosa vorresti fare?» Oray scosse la testa. «Non lo so! Ma dobbiamo fare qualcosa. Questa volta non possiamo lasciare che le cose vadano così. Dobbiamo assicurarci che riceva aiuto!» Il vecchio sospirò. «Li seguiremo. Vedremo se si può fare qualcosa… ma se non si può, come è probabile, lasceremo perdere e proseguiremo per Rocin». «Qualcosa si può sempre fare» affermò Oray, con espressione decisa. Ma neppure lui sapeva con certezza che cosa.
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