2.

3576 Words
2. Per la prima volta dopo diversi mesi, Sienna si era quasi sentita un essere umano. Aveva fatto una doccia nel bagno essenziale della propria cella. Nel centro dove era stata prigioniera fino a quel momento, nelle celle c’era solo un water, spesso intasato, da dividere con altre quattro detenute. Non c’era carta igienica e bisognava arrangiarsi come si poteva. Le docce erano in comune, in fondo a un corridoio isolato, e andarsi a lavare spesso significava fare una marchetta a una guardia. Se non lo facevi, ti succedeva qualcosa durante la doccia. Poi era stata trasferita alla Sezione Speciale. Sienna sapeva che sarebbe stata torturata ancora di più, forse in modo ancora più odioso e insopportabile, ma quantomeno aveva una doccia nella cella e la doccia era addirittura nascosta da un muro, dandole un minimo di privacy. Anche se quella privacy la disturbava. Era chiaro che alla Sezione Speciale non avevano paura che si uccidesse. Era vero che non si era uccisa fino a quel momento, ma si supponeva che la sua permanenza alla Sezione sarebbe stata un inferno: davvero non avevano paura che si togliesse la vita? Inoltre, nel bagno c’erano diversi oggetti che, lontana da occhi indiscreti, Sienna avrebbe potuto trasformare in armi. Un pettine. Un rasoio. Persino il flacone di shampoo avrebbe potuto costituire una minaccia, se lavorato nel modo giusto. Anche se Sienna non vedeva un flacone di shampoo da mesi ed era restia a sprecare quel bendidio per trasformarlo in una lama. Si era lavata. La prima vera lunga doccia da un millennio. Shampoo nei capelli e pettine a districarli. Sapone dappertutto. Più gentilmente sulle abrasioni. In alcuni momenti l’acqua era persino diventata calda. Per la maggior parte del tempo era stata tiepida o fresca, mai gelida. Sienna si era asciugata con i teli di spugna che le avevano lasciato. Non erano morbidi, ma erano spessi e puliti. Si era vestita con gli abiti della Sezione: slip bianchi di cotone, una fascia elastica mono-misura per il seno, pantaloni e casacca di cotone bianco e un maglione sottile di filo, azzurro scuro. Per i piedi delle ciabatte infradito di plastica azzurra. Era la fine dell’estate, sarebbero bastate. Sienna tornò a stendersi sul letto e per qualche minuto provò una strana, pericolosa beatitudine. Sentirsi pulita e al caldo, sentirsi di nuovo una persona. Erano sentimenti paurosi. Perché presto sarebbe stata di nuovo colpita, minacciata, sottoposta ad abusi di ogni tipo, torturata... a che cosa le serviva sentirsi bene per qualche ora? Fosse come fosse, si godette il momento. Dormicchiò, consapevole dei rumori che la circondavano. O, per meglio dire, della quasi completa assenza di rumori. Le carceri erano posti chiassosi. Le giornate erano una cacofonia di grida, serrature che si aprivano e chiudevano, persone che parlavano ad alta voce, rumore di tazze sulle sbarre, voci dagli altoparlanti... non c’era mai del tutto silenzio, in una prigione. Qua, invece... rumori sporadici di conversazioni attutite, i passi di qualche guardia che transitava davanti alla cella, il cinguettio di un uccello nel giardino centrale. Quel posto sembrava una specie di paradiso, per questo Sienna era sempre più convinta che fosse un inferno. All’ora di pranzo la sensazione si amplificò. Le portarono un vassoio con un pasto completo: zuppa di ceci tiepida, un grosso pezzo di pane integrale, una mela e una merendina confezionata. La zuppa di ceci era quasi buona. Il pane non aveva muffa, era fresco. E sul vassoio c’erano un cucchiaio e un coltello dalla punta arrotondata. Un coltello! Dopo pranzo Sienna si sentì assonnata. Si chiese se nel cibo non ci fosse qualche droga, ma concluse che era il semplice effetto di uno stomaco pieno. Si stese di nuovo sul letto e fece una pennichella. Non sognò, un’altra benedizione inaspettata. La svegliò il suono della serratura che si apriva. Sienna spalancò gli occhi e li spostò sulla porta. Il Direttore Trelease stava entrando da solo, con il mazzo di chiavi negligentemente alla cintura. L’aveva già visto quella mattina e le era sembrato fuori posto, un altro dettaglio inquietante di quella struttura inquietante. Trelease aveva qualcosa di pericoloso e diverso. La prima cosa che saltava agli occhi: non sembrava britannico. La società creata dall’Ordine era molto semplice e nei luoghi di comando non incontravi mai un inglese dalla pelle scura, che fosse di lontane origini indiane, pakistane, o giamaicane. Non incontravi anglo-asiatici, né anglo-mediorientali. Nei posti di comando c’erano sempre uomini bianchi e dai tratti britannici, con gli occhi chiari, le lentiggini, i capelli biondicci, rossicci o color topo, la pelle rosea e la tendenza a mostrare i capillari sul naso. Trelease sembrava nordafricano, con i capelli cortissimi, ma chiaramente scuri, gli occhi di uno strano colore ambrato, la pelle chiara, ma priva di qualsiasi sfumatura rosea. Era bello, in un modo angoloso e mascolino, e anche questo disturbava Sienna. Sienna aveva imparato a temere le cose belle, erano quelle che ti facevano più male. Indossava una divisa grigia con i bottoni argentati e dell’argento sulle spalle. Sienna non era sicura di riconoscere il grado, né il settore delle forze armate. Le sembrava che ormai tutti avessero una divisa. Chiunque lavorasse per il governo faceva parte di una formazione militare o para-militare. Trelease la osservò in silenzio per qualche secondo, mentre lei si alzava a sedere sul letto. A fatica, perché era ammaccata, e più lentamente del dovuto, per dimostrarsi più ammaccata di quanto non fosse. Ricordava il suo sguardo, quella mattina. Distaccato, privo di quell’interesse pruriginoso che certi uomini dimostravano davanti a una donna nuda e pesta che viene visitata senza tante cerimonie da un vecchio porco. Le aveva risparmiato un’ulteriore perquisizione corporea, almeno dietro, e aveva azzittito il dottore quando aveva iniziato a cianciare del fatto che non aveva avuto figli. L’aveva stupita il modo in cui aveva parlato della sterilità di sua moglie, ma l’aveva anche – ancora una volta – inquietata. Quell’uomo lì, il direttore, se ne fregava di dimostrarsi debole. Era un atteggiamento che denotava una sicurezza e una padronanza di sé che potevano essere pericolose. Anzi, che sicuramente lo erano. «Sienna McLane» disse, continuando a guardarla. «Andiamo a fare due passi. Ce la fai?» Nessun segno di falso-compatimento, solo una realistica richiesta di informazioni sul suo stato di salute. «Sì, signore» rispose Sienna, alzandosi in piedi. Per un attimo vacillò, ma ritrovò subito l’equilibrio. Era la pressione bassa, più delle botte. Trelease non diede nessun segno di volerla aiutare a stare in piedi. «Puoi chiamarmi Caradoc. Non credo che il potere passi dai titoli o dalla sottomissione formale alla gerarchia». Mentre parlava, la precedeva all’esterno (quando era entrato non si era richiuso la porta alle spalle), nel porticato del chiostro. Il pavimento era di mattonelle di cotto che diffondevano un lieve tepore, dato che erano state al sole fino a poco tempo prima. «Caradoc. Se preferisci così. Non sono una che si ribella senza motivo» disse Sienna. Ci pensò un attimo. «Anzi, non sono una che si ribella. Quando cominceranno gli interrogatori?» Lui inarcò un sopracciglio, lanciandole un’occhiata quasi ironica. «Sono già iniziati. Non credo nelle docce fredde e nelle pinze arroventate». «Sono parecchie le cose in cui non credi». Forse era stata troppo sarcastica e Trelease l’avrebbe fatta subito pentire per l’eccessiva familiarità, ma Sienna voleva capire in che acque stava navigando. Acque molto strane, a quel che pareva. Trelease le fece segno di accomodarsi su una delle panchine del giardino. Sienna lo fece con cautela, per poi guardarsi attorno. Quel posto era magnifico, era vero. Le aiuole dal prato raso, i vialetti, gli alberi. Il buon odore nell’aria; di verde, di pulito. E gli altri prigionieri che passeggiavano e leggevano, chiacchieravano o prendevano il sole. Trelease si sedette sulla sua stessa panchina, lasciando una certa distanza tra loro, e accavallò elegantemente le gambe. I suoi stivali neri erano lucidi e senza un graffio. «Quando arrivano gli ispettori dell’Ordine la loro prima espressione è spesso di disgusto. Danno per scontato che trattare umanamente i prigionieri sia una debolezza. Che senza una rigida disciplina non possa esserci rispetto. Che vivere così sia come premiare i sovversivi più pericolosi, invece di punirli, umiliarli e spezzarli. Ma lascia che ti chieda una cosa: non sei già stata punita, umiliata e spezzata? Non hai già conosciuto ogni abiezione?» La mascella di Sienna si irrigidì. «Già» si limitò a dire. «E ha funzionato?» Lei chiuse gli occhi. Il sole era dolce sulla sua pelle e le veniva da piangere. Il posto in cui era finita era spaventoso, spaventoso davvero. «In un certo senso, suppongo di sì» disse, dominandosi. Trelease le rivolse un sorriso lieve, distaccato. «Per l’Ordine c’è un unico senso possibile, sai. A loro non importa quanti danni fisici o psicologici procurino ai prigionieri. Non gli importa dei tuoi momenti oscuri – o comunque non dovrebbe. A me non importa. Voglio solo che denunci i tuoi ex-compagni e mi fornisci tutte le informazioni che hai sulla Resistenza. In cambio di queste informazioni ti offro la possibilità di restare in vita». «Non ci tengo a restare in vita». Un altro lieve sorriso. «Eppure sei viva». Sienna fece un gesto esasperato con una mano. Aveva tutte le unghie rotte. «Non voglio morire, ma lo farò se sarà necessario». «È già più accurato. Sono felice di informarti che non sarà necessario. Parleremo da persone adulte, mi darai le informazioni che mi servono e sarai liberata. Sarai persino aiutata a ricominciare una nuova vita, se lo desideri». «Non voglio niente da voi». «E noi non insisteremo, te lo assicuro». Trelease sembrava quasi divertito. Ancora una volta. Era così sicuro di se stesso, così tranquillo. Forse era solo un bluff per impressionarla, ma a Sienna non sembrava. Le sembrava solo certissimo di quello che diceva. «Come pensi di farmi parlare, se non con la tortura?» andò al sodo. Il sottile sorriso di lui scomparve. «Con la logica» rispose. La accompagnò a vedere la mensa, che era anche una sala comune dove passare il tempo in inverno, e la biblioteca. Le spiegò che le celle erano quasi sempre aperte e che poteva parlare con gli altri undici detenuti, frequentarli e persino andarci a letto, che così voleva. La notte le celle venivano chiuse. Le mostrò la prima porta blindata, le descrisse la seconda e la fece salire su una torretta per mostrarle quanto fosse stupido cercare di scappare bucando un muro. «Per prima cosa, le mura esterne sono spesse più di un metro. Secondariamente, danno su un perimetro recintato e illuminato. Il sottosuolo è di pietra dura, quindi non ti consiglio neppure quella via di fuga». Sienna gli rivolse un sorrisino dispettoso. Di lassù si vedeva il circondario del Distretto. Anche riuscendo a superare tutte le recinzioni, là fuori non essere notata sarebbe stato difficile, con quelle vie larghe e deserte. «Ho solo la tua parola». Trelease si appoggiò al parapetto della torre e incrociò le braccia. «È vero. Ma a scavare un tunnel fin oltre quella recinzione, anche nella migliore delle ipotesi, quanto ci metteresti?» «Con un cucchiaio?» Lui sembrò divertito. «Voglio essere buono. Diciamo con una paletta da giardinaggio». «Qualche settimana, presumo. Se la terra fosse abbastanza morbida». «In qualche settimana non sarai più qua». Sienna aggrottò la fronte. «La permanenza media dei prigionieri alla Sezione Speciale è cinque settimane». Lei deglutì. «E poi che succede?» «Vi liberiamo o vi ammazziamo». Sienna scrutò il suo viso alla ricerca di un minimo turbamento. Non ne trovò. «Ho capito». Trelease emise una risatina. «No, credo di no. Ma capirai». Quel pomeriggio tornò in cella e non andò a presentarsi agli altri prigionieri. Aveva bisogno di una nottata di sonno per mettere le cose in prospettiva. Il direttore le aveva fatto un’impressione... forte, molto forte. La spaventava, ma lo trovava anche interessante, un sentimento da cui sentiva a pelle di doversi guardare. Era quasi sicura che le avesse detto la verità, ma che non fosse stato sincero. Che l’avesse manipolata in modo sottile. Non capiva nulla di lui. Era sbagliato. Era inaspettato. Era un tipo di pericolo da cui Sienna non sapeva come proteggersi. Per cominciare, che cosa ci faceva uno come lui a capo di un carcere di massima sicurezza per prigionieri politici “irrecuperabili”? Era di origini straniere, eppure doveva far parte dell’Ordine. Un partito che aveva nella xenofobia uno dei propri cavalli di battaglia. Sienna aveva già visto delle persone di origine straniera unirsi alla Thule, ma erano sempre dei fanatici che si erano identificati con l’aggressore, gente che aveva ripudiato la propria storia e le proprie origini. Sienna non sapeva se Trelease avesse ripudiato la sua storia e le sue origini, ma non sembrava un fanatico. Sembrava rilassato, scherzoso e in alcuni momenti aveva quasi flirtato. Nel contempo, Sienna non avrebbe scommesso mezzo penny sulla sua clemenza, se avesse dovuto mandarla a morire. Nel corso degli anni Sienna era diventata un’ascoltatrice attenta. Spesso ascoltare con attenzione l’aveva salvata dal tradimento o le aveva fatto capire di chi non fidarsi. Trelease aveva detto di non credere nei metodi dei suoi colleghi che avevano provato a farla parlare in precedenza, non di disapprovarli. Non li trovava inumani, non gli importava che fossero brutali, ma pensava che non funzionassero. Era importante non dimenticarsi quel dettaglio. Come era importante ricordarsi quando aveva detto che non gli importava dei suoi “momenti oscuri”. Sapeva benissimo che cosa le avevano fatto e non gliene fregava niente. Era questo il direttore all’apparenza tanto umano di quel carcere così particolare e Sienna avrebbe fatto bene a ricordarselo sempre. Caradoc parlò con altri cinque detenuti, quel pomeriggio. Cercava di vedere tutti almeno tre volte alla settimana. Piantare i semi giusti e poi lasciarli maturare. Caradoc non distruggeva mai le certezze di un prigioniero. Apriva una crepa e al resto pensavano loro. Sollevava dubbi, suggeriva percorsi alternativi. Quando era giovane, Caradoc aveva letto Freud. Al di là di tutte le complicazioni tecniche, lo psichiatra viennese aveva capito una cosa semplice sugli esseri umani: erano guidati da una pulsione di vita e, a volte, da una di morte. La pulsione di morte nel suo lavoro lo interessava poco. Era vero, c’erano persone che in fondo cercavano di autodistruggersi, ma i suoi prigionieri non erano tra queste. Quelli che finivano alla Sezione Speciale erano sopravvissuti a torture, umiliazioni, violenze di ogni tipo, ingiustizie, isolamento, deprivazioni... erano prigionieri che avrebbero potuto lasciarsi morire mille volte, ma la cui sete di vita li aveva tenuti in piedi fino a quel momento. Era importante, quella sete di vita. Era il primo strumento di lavoro di Caradoc. I suoi detenuti volevano vivere, ma non volevano tradire la propria causa. Messi di fronte a una scelta secca – parla o muori – avrebbero scelto la morte. Per questo Caradoc non li obbligava mai a una scelta secca. Li spingeva a mettere in discussione l’utilità del loro sacrificio, li spingeva a dubitare dei propri ideali, mostrava loro una crepa. Dato che in fondo volevano vivere, erano i prigionieri stessi a trovarsi una giustificazione. Bastava dar loro una spintarella, non insistere, non andare in contrapposizione e aspettare che gli venisse in mente una buona scusa per restare vivi. Infine, non giudicarli quando tradivano. Da quando aveva ottenuto il suo incarico, Caradoc non aveva mai dovuto uccidere un prigioniero. Avevano tutti parlato. L’Ordine tollerava i suoi metodi perché non solo producevano informazioni che nessun altro riusciva a ottenere, ma avevano l’effetto collaterale di rimettere nella società dei cittadini che non credevano più nella Resistenza o non erano più disposti a correre dei rischi per rovesciare il regime. Non dei ferventi sostenitori della Thule, ma gente che non avrebbe dato altri problemi e che si sarebbe finalmente adeguata allo status quo. Tutti si adeguavano allo status quo, alla fine. Caradoc uscì dalla Sezione verso le sette di sera. Sua moglie Jane gli aveva sicuramente lasciato la cena in caldo, come tutte le sere. Era un’ottima cuoca, anche se non molto fantasiosa. D’altronde nei negozi non c’era molto tra cui scegliere. Tornò a casa con la macchina elettrica che gli era stata assegnata insieme al posto di direttore. Era una gradevole comodità, dato che i pochi mezzi pubblici erano sempre sovraffollati e alla fine dell’estate c’erano fin troppi bacilli in circolazione. La sanità non era più affidabile, meglio cercare di non ammalarsi. Caradoc ricordava gli anni in cui guidare per le vie di Londra era stato un incubo. Il traffico congestionava la città per diverse ore al giorno e c’erano zone interdette ai non-residenti per abbattere l’inquinamento ed evitare le code. Ora i viali erano semideserti, le auto elettriche che le percorrevano erano rare e tutti erano rispettosi del codice stradale. L’unica cosa a cui bisognava fare attenzione erano gli agguati. Poteva succedere di trovarsi all’improvviso davanti una barricata che impediva di proseguire. In quel caso la linea d’azione migliore era abbandonare la macchina e darsela a gambe. Era diverso tempo che non gli succedeva, comunque. Casa sua era in un sobborgo a poca distanza da Hones, un posto tranquillo, abitato da funzionari di partito e dirigenti pubblici. Quella sera Caradoc parcheggiò la macchina sul vialetto di casa, dietro al cart di sua moglie. Spense il motore e scese. Mentre collegava l’alimentazione alla colonnina vide il Generale Pearls che arrivava sulla sua berlina scura. Parcheggiò sul vialetto accanto e scese con un sospiro pesante. Si aggiustò la pancia nei pantaloni e si accorse di lui. «Caradoc! Appena tornato?» «Sissignore» sorrise Caradoc, portandosi due dita alla tempia. Il generale rise. «Questa domenica barbecue. Salsicce di Gloucester Old Spot, allevamento di un mio amico. Che ne dici?» «Dico benissimo, generale. È un invito molto apprezzato». Lui rise di nuovo. «Mi raccomando, portate la birra!» concluse, andando verso casa. Caradoc finì di collegare la macchina e si avviò a sua volta verso l’ingresso della grossa villetta che condivideva con Jane. Aveva sperato in una domenica tranquilla, ma evitare l’invito di Pearls era stato impossibile. Almeno Jane ne sarebbe stata felice. L’Ordine di Thule aveva le idee chiare, per quanto riguardava le donne. Il loro ruolo naturale nel mondo era quello di mogli e di madri. Non incoraggiava il lavoro femminile, specie di alto livello, e tra i funzionari di partito non c’erano donne. Caradoc sapeva che anche questo ritorno ai “valori di una volta” era strumentale, così come in fondo lo sapeva chiunque appartenesse all’Ordine, ma aveva comunque avuto degli effetti profondi. Vedendosi omaggiati dei privilegi che decenni di femminismo avevano loro tolto, i maschi inglesi si erano affrettati a rimpadronirsene. Cosa più strana, molte donne erano sembrate felici di scrollarsi di dosso la responsabilità di decidere per se stesse. Peccato per tutte quelle che invece avrebbero voluto mantenere la propria indipendenza. Tornando a Caradoc, Jane non era tra queste. Era giovane, appena venticinquenne, e gli era stata assegnata quando era poco più di una ragazzina. Una ragazzina di cui, in tutta onestà, Caradoc non sapeva che fare. Jane aveva reso chiaro fin dall’inizio che intendeva immolarsi per corrispondere all’ideale femminile dell’Ordine. Voleva molti figli. Il suo desiderio non-così-segreto era di essere il conforto e il porto sicuro di suo marito. Aveva una fervida fantasia, questo Caradoc doveva concederglielo, ma non si muoveva facilmente dalle proprie posizioni. Più o meno per il primo anno di matrimonio, lui aveva provato a rendere piacevole per entrambi l’intimità che dovevano condividere. Se non piacevole, almeno sopportabile. Si era scontrato con un muro invalicabile. Se la accarezzava, lei restava passivamente disponibile. Se la palpava, emetteva urletti scandalizzati. Se la leccava si irrigidiva tutta. Considerava immorale ogni pratica non-riproduttiva, come se vivessero nel Medioevo. Alla fine Caradoc aveva capito una cosa semplice: a Jane lui non piaceva. No, peggio: la disgustava. Era un’idea che dapprincipio non aveva preso in considerazione, perché di solito le donne lo trovavano affascinante, persino bello. A Jane faceva piacere che le sue amiche glielo invidiassero, era orgogliosa di lui in modo quasi patetico, ma cercava di evitare ogni vicinanza fisica non strettamente necessaria. Sopportava di averlo sopra durante il sesso, ma in fondo ne era nauseata. La logica conseguenza sarebbe stata interrompere qualsiasi contatto intimo. Per Caradoc non sarebbe stato un problema. In realtà sarebbe stato un sollievo. Ma Jane voleva dei figli e li voleva con tutta la forza delle sue convinzioni tradizionaliste. Anche quando era stato chiaro che non ne avrebbero avuti, lei non si era mai arresa. Quindi quella sera, come faceva almeno tre sere alla settimana, Caradoc se l’era tirato su a mano, si era lubrificato bene e aveva fottuto sua moglie alla missionaria, con la camicia da notte addosso e sotto le coperte. Aveva cercato di ignorare l’anfratto stretto, rigido, immobile, in cui l’aveva infilato e aveva provato una punta di soddisfazione per i mugolii di dolore quasi inudibili di Jane. Si era svuotato dentro di lei il più velocemente possibile, per poi rotolare da un lato, e fuori dal letto, e in bagno a darsi una pulita. Aveva evitato di guardarsi allo specchio, perché sapeva benissimo che avrebbe visto nei propri occhi debolezza, nausea e rassegnazione. Debolezza, nausea e rassegnazione erano come virus. Contagiavano facilmente anche il resto della tua vita. Per questo Caradoc li sigillava e fingeva di dimenticarsene subito dopo. Non poteva permettersi debolezza. La rassegnazione l’avrebbe ucciso. E dimostrare la sua nausea era una pessima idea. Tornò in camera da letto e perdonò Jane per il sorriso caramelloso che gli rivolse. Che gli rivolgeva sempre dopo il sesso. Era solo una ragazzina. Si infilò tra le coperte e borbottò che era stanco morto.
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