IQuand’ero ragazzo acerbo, ancora nella zona di transito tra infanzia e adolescenza, provavo una vera repugnanza per lo studio di tutte o quasi le materie dei programmi scolastici, verso cui mi sentivo totalmente indifferente e stupido; mentre attraevano e impegnavano fervidamente la mia mente discipline e nozioni estranee alla scuola e da chiunque considerate inutili. Tra le mie infatuazioni di allora vi fu quella, quand’ero sui sedici anni, per la lingua, la storia e i costumi dei Làvari: popolo minuscolo come ognuno sa, e da molti secoli insignificante. Nazione di cui raramente si ha occasione di parlare e che neppure le due ultime guerre mondiali hanno messo allo scoperto; né rivoluzioni o colpi di stato han reso, almeno per un giorno, di attualità. E anche a me stesso, infine, nei decenni successivi alla mia giovanile curiosità, diventata indifferente e remota. Così la lingua che avevo studiato con stolta passione. Dei due o trecento vocaboli làvari imparati con sacrificio, sì e no dieci galleggiavano a fiore della memoria. Ogni tanto, per effetto di una scossettina, proprio come un oggetto galleggiante che urti l’orlo della vasca, e subito si agiti sull’acqua increspata, una me ne veniva in mente e la ripetevo tra me: priva però di significato, lontana reminiscenza di suono, e basta. Un suono assai curioso, in verità: dove, a tratti, par di riconoscere il timbro del greco antico e dell’arabo.
In breve, m’ero dimenticato perfino che la Lavaria esistesse e si fosse stranamente conservata indipendente in mezzo a un trentennio e più di subbugli euro-asiatici, quando lo scorso anno trovai nella cassetta delle lettere, tra le solite buste di avvisi commerciali, inviti a mostre e concerti, pieghevoli pubblicitari e richieste di òboli, un opuscoletto, chiuso, in una anonima fascetta con su scritto il mio nome e il mio indirizzo. L’opuscolo, prima di finire nel cesto della cartaccia, esitò tra le mie mani, il tempo sufficiente perché l’occhio riconoscesse, senza individuarli, i ben noti, un tempo, caratteri della scrittura làvara. Subito fui ripreso, neppure avessi visto il ritratto della mia prima ragazza, dall’antica passione o curiosità. Abbandonai ogni altro pensiero e mi dedicai alla decifrazione del testo: da quel poco che potei capire impegnando gli sbiaditi ricordi delle mie cognizioni (e, maledizione, chissà dov’era finito il dizionarietto làvaro-francese che un tempo avevo) l’opuscolo illustrava, a scopo evidente di propaganda, non so se più turistica che politica, i progressi compiuti dal paese. La data di pubblicazione era abbastanza recente, la stampa pessima; tuttavia le illustrazioni dei luoghi e dei monumenti più insigni, nere e precise come erano, subito si rivelarono, per me, ricche di incanto.
Fosse per via di quell’affetto, di quella tenerezza, di quella indulgenza che a una certa età proviamo per tutto ciò che urtò o sfiorò la nostra giovinezza; tosse una curiosità nuova e più esperta per certe architetture singolarmente composite, tra arabe e indiane, certo è che il libriccino mi tenne occupato per tutto il pomeriggio. Nei giorni successivi, poi, fui preso dalla curiosità di scoprire chi, persona o ente, me l’avesse inviato. Nella guida telefonica cercai invano un qualsiasi recapito diplomatico o consolare della Lavaria. Allora mi misi in mente che potesse aver pensato di spedirmi l’opuscolo l’unica persona che avesse conosciuto e, anzi, condiviso il mio interesse per la Lavaria: un mio compagno di scuola, certo Gianni Failla, perduto di vista al termine del liceo. Neppure il suo nome figurava nella guida telefonica. Chissà dov’era e che cosa era diventato. Mi ricordai confusamente che il Failla, un ragazzo grasso e timido, veniva da non so che paese della provincia di Trapani. Poiché era troppo difficile venirne a capo, allontanai, come un pensiero molesto, la curiosità di scoprire il mittente e mi rimisi a decifrare l’opuscolo, riuscendo alla fine a cavarne un senso, che era poi abbastanza ordinario: superficie, popolazione, prodotti del piccolo Stato, costumi, tradizioni e comfort moderno attestato dall’esistenza di un Hotel Làvariog «pari, diceva l’opuscolo, ai migliori d’Europa... ».
Ciò accadeva in giugno dello scorso anno, quando ancora non avevo deciso dove avrei trascorso le vacanze, che potevo prolungare per oltre tre mesi. Naturalmente, dopo il misterioso arrivo dell’opuscolo, decisi che alla fine di quello stesso mese sarei partito per la Lavaria. Costi quel che costi, mi dicevo; e costò parecchio, difatti, in tempo e pazienza oltre che in denaro. Per risparmiare al lettore la descrizione delle complicatissime ricerche e pratiche che dovetti condurre per ottenere i visti d’ingresso e i permessi di trànsito necessari, sarà sufficiente che io dica che tutto risultò molto più complicato e dispendioso di quanto non occorra per recarsi in qualsiasi altro paese d’Oriente.
Ai primi di luglio, dopo aver percorso in aereo la rotta Roma-Atene-Ankara e, in faticosi pullmans, raggiunta Meshed e quindi Kuska, finalmente, servendomi di vari mezzi di locomozione tutti egualmente scomodi, penetrai in territorio làvaro. Raggiunsi il nove di luglio la capitale, Lavar, che è anche l’unica città del minuscolo Stato; installandomi nel famoso albergo Làvariog, che è anche l’unico — se si escludono le taverne con alloggio — della città.
♦
Fui piacevolmente sorpreso fin dal primo giorno dalla mitezza del clima: che io potevo paragonare a quello che da noi, quando fa bello, si gode tra maggio e giugno; di notte la temperatura scendeva di molto, ma sempre, notte o giorno, c’era nell’aria un che di animato, una effervescenza, direi, quasi una gaiezza dell’atmosfera; che è fenomeno da attribuirsi alla notevole altitudine del paese. Non minore sorpresa e contentezza ricavai dalla constatazione che la pulizia, sia della città, sia dell’albergo, era poco meno che ineccepibile. Ciò annullava insieme la fatica del lungo viaggio e le apprensioni che lo avevano accompagnato: giacché se pure ero stato spinto all’impresa da uno stimolo avventuroso non ero tuttavia disposto, né tanto meno allenato, a vivere tra scomodità e sgradevoli sorprese.
Mi venne destinata una insolita ma accogliente camera, al terzo e ultimo piano dell’albergo, come io avevo desiderato; dalla finestra potevo contemplare le terrazze e le guglie di tre quarti della città e, oltre quelle, il panorama montano impetuoso e bizzarramente disegnato a picchi e a gobbe, che sembravano stringersi con frenesia intorno a una vetta più alta; come fa il mare mosso intorno a uno scoglio.
Il bello di quel paesaggio sta soprattutto, come mi accorsi via via, che esso si colora con stupende varietà, secondo il mutare e evolversi delle giornate. Marmorei al mattino, metallici al mezzogiorno, con passaggi dall’acciaio all’oro, verso sera quei monti appaiono intensamente ridipinti in colori vegetali: verde e rossiccio, per poi mutarsi ancora dopo il tramonto, quando l’aria impallidisce mortalmente, in ammassi di ametista e di bruno corallo.
In capo a una settimana conoscevo sufficientemente la città; dopo avere compiuto tutte le passeggiate e le più facili escursioni nei dintorni; in ciò consigliato sapientemente dal maitre — anzi padrone — dell’albergo, il quale, essendo io in quel momento l’unico «occidentale» tra gli ospiti stranieri, si dedicava con uno zelo fuor del comune a spianarmi difficoltà, a tracciarmi itinerari, a consigliarmi i cibi e perfino a prescrivermi l’ora di andare a dormire e quella di alzarmi. «Ciò è fondamentale, — diceva, — la notte è perniciosa da noi e oltretutto, lo dico per l’esperienza che ho degli europei, chi si ritira tardi non riesce a prendere sonno. Il nostro clima fa di questi scherzi».
Egli peraltro non mi incoraggiava a parlare con lui in lingua làvara, in cui pure avevo fatto notevolissimi progressi: né a proposito di essi mi rivolse mai un complimento; ne sembrava quasi infastidito. Con me usava un francese quasi perfetto, e non te ne discostava altro che per mescolarvi qualche parola o frase in italiano, che conosceva quasi altrettanta bene. Si atteneva a questa regola o partito preso, anche se io continuavo a interpellarlo in làvar. Supposi che facesse così parendogli che io tentassi di offrirgli, parlando la sua lingua, una confidenza che la sua dignità professionale non gli consentiva di accettare. Debbo dire che, nei riguardi del maitre, io ero caduto, al primo giorno, in un curioso abbaglio. Cioè m’era venuto il sospetto, o la fantasia, di riconoscere in lui qualche cosa, o tutto in certi momenti, di quel mio antico compagno di scuola Gianni Failla. Evidentemente se confrontavo il viso del sedicenne Gianni con quello dell’uomo maturo che mi stava di fronte, dietro il banco istoriato del Làvariog, la somiglianza non si poneva: mi sembrava però che essi fossero simili come possono esserlo un padre e un figlio. Il molle pallore di Gianni, attraverso i guasti dell’età, poteva benissimo essere pervenuto alla livida gonfiezza (messa in risalto dai baffi e capelli nerissimi) di colui che si inchinava cerimoniosamente al mio passaggio. E quegli occhi, neri, lucidi e un poco sporgenti, vivaci e sempre tenuti a freno da un istinto o proponimento di umiltà, non erano gli stessi del ragazzo sornione che studiava con me la lingua làvara e giurava che, un giorno, saremmo stati signori del piccolo Stato?
Comunque fu una fantasia che durò poco perché in effetti il proprietario dell’albergo era di origine e nascita làvar. Del resto succede spesso di scoprire tra uomini sortiti da popoli lontanissimi straordinarie somiglianze.
Ho riferito la trascurabile circostanza di quella somiglianza perché essa mi turbò per più giorni; e quando cessò di interessarmi mi lasciò il sentimento confuso di una fatalità: intendo dire la riprova che quel viaggio a Làvar era segnato nel mio destino.
Per riprendere il filo, dirò dunque che ero ormai pratico dei luoghi e della lingua, mentre avevo fatto pochissimi progressi nella comprensione dell’indole degli abitanti: inquietanti, in un certo senso, per l’estrema diffidenza e la falsità che osservano verso il forestiero; il quale poi, se riesce facilmente a farli parlare, è colpito oltre che dalle evidenti bugie, dalie complicate regole di etichetto che in ogni ordine sociale ciascuno si sforza non solo di seguire ma anche di complicare ancor più. Osserva Gaston Lenormand, autore dell’unico libro — ch’io sappia — sulla Lavaria. («Voyage au pays des Lavahars», Paris, 1924) come l’unico vero piacere della conversazione presso i Làvari sia quello di «sviare continuamente l’interlocutore con una falsa logica sofisticata per poi ricondurlo, per strade non meno complicate, sull’argomento». Ogni Làvaro, secondo me, ha orrore della spontaneità di linguaggio, mentre accetta e pratica quella delle minime azioni quotidiane. La semplicità, la naturalezza del discorrere sono considerate all’incirca come da noi le persone ben nate considerano l’estrema impudicizia. C’è anche qualche cosa di infantile (qualche cosa della gravità infantile) in cotesto atteggiamento: come avessero scoperto da poco il linguaggio e si divertissero ad adoperarlo, annodarlo, complicarlo fino alle più assurde riuscite: come appunto potrebbe fare un bambino annoiato cui capiti tra le mani un pezzo di fune: ed egli l’attorciglia, la svolge, la sfilaccia, ne cava fuori figure, l’annoda strettamente e s’industria, alla fine, di restituirla qual’era. Certo è che rispondere in modo diretto e franco ad una domanda provoca in chi ascolta una sorta di delusione, probabilmente di disprezzo: ché si aspettava un ricco ragionamento e si sente offrire i miseri monosillabi del si e del no (tha e tèh, in làvaro).
Forse questa è una delle ragioni che scoraggiano giornalisti e viaggiatori. È inutile recarsi a Làvar per condurre inchieste e raccogliere dati per «servizi» e libri; inutile «sondare l’opinione pubblica»: ciascuno, in Lavaria, si fa scrupolo di riferire un fatto sia pure minimo avvolgendolo in un complicato involucro di sentenze astratte, di proverbi, di formule di cortesia che alla fine non lasciano più scorgere quel che di fatto il Làvaro si propone, non proprio di negare bensì di celare il più a lungo possibile. Conseguenza di questa complicatezza, cui i Làvari non rinuncerebbero, credo, neppure fosse in gioco la loro esistenza, oppure origine di essa, dev’essere la religione dei Làvari. Che io sappia l’influenza e la pratica di cotesta religione non oltrepassano il confine del Paese: in Europa e in America, credo, non più dì tre esperti in storia orientale ne conoscono all’incirca le origini e il rituale. Quanto a me, nei miei ingenui studi giovanili ne avevo appena avuto sentore (il Lenormand, su questo argomento, dice assai poco e imprecisamente) sicché credevo allora, come trent’anni dopo mettendo piede a Làvar, che vi si praticasse una religione monoteistica assai prossima al Cristianesimo. Anzi supponevo che il Cristianesimo, penetrando e poi restando isolato in quella inaccessa regione, avesse subito delle varianti per così dire ambientali, corruzioni organiche di acclimatazione. Con alquanta leggerezza m’ero fatta l’idea che, similmente a quella copta, la religione dei Làvari conservasse il centro, la sostanza morale del Verbo, variando soltanto la superficie liturgica. Invece le cose stanno ben altrimenti, e l’ho imparato a mie spese; sicché raccontando quel che mi capitò spero di dare una sufficiente idea di come i Làvari considerino la giustizia divina e quella umana.
Debbo ancora premettere, avendolo compreso soltanto dopo la mia disavventura, che, insieme con il Padre, i Làvari adorano al pari di noi una Madre e un Bambino. Se tre sono i termini della divinità Làvara, non si pensi, per carità, a qualche cosa che rammenti la Trinità. Manca, a quella Làvara, l’alto valore dell’unità inscindibile, manca la componente suprema dello Spirito. Assai semplicisticamente, per il popolo Làvaro, il Padre, la Madre e il Bambino formano una entità familiare superiore, che governa e domina tutte le altre famiglie. Tra l’altro è penetrato a Làvar il simbolo della croce (benché priva del braccio superiore, sicché la croce in realtà è una T). A prima vista il forestiero che osservi un antico encausto o ima scultura d’argomento sacro può supporre che la scena rappresenti o adombri il sacrifìcio di Gesù Cristo. Ma non è così. Gesù, per i Làvari, è soltanto il Bambino; che tale rimane, paffuto e ridente, per l’eternità. Egli è rappresentato ai piedi della tragica travatura con espressione di manifesta soddisfazione. Il crocifisso è suo padre, che si chiama Abàn (letteralmente: padre, in lingua làvara). Costui, dicono i testi sacri, venne messo in croce, anzi a quella morte acconsentì egli stesso, per punizione conseguente al non aver voluto o saputo usare il suo potere per salvare il pargolo da una strage ordinata da un dio nemico (facile trasposizione dell’episodio di Erode). Dunque il Bambino venne ucciso; ma da allora egli è immortale e regna notte e dì sulla Lavaria. La sapienza di quel Bambino, dicono a Làvar, è tale che nessun Dio adulto può competere con Lui. Anche in questa credenza è facile per noi scorgere un riflesso, un adattamento dell’episodio di Gesù nel Tempio; ma, ripeto, occórre sfuggire a queste suggestioni se si vuol capire qualche cosa dei Làvari. I detti, le sentenze i proverbi attribuiti al Bambino, raccolti in un Corpus che ogni Làvaro conosce a memoria, rammentano più Ahura, il Dio di Zoroastro, che non Cristo. Debbo aggiungere che Abàn il padre è alquanto disprezzato: egli è lo sciocco della famiglia. Il popolino che lo adora non gli risparmia l’affettuoso epiteto di stupidone.
Per quel loro talento dialettico, per quel loro gusto esasperato dello sviluppo estremo di un discorso, i Làvari adorano il concetto della punizione e della vendetta: per essi ogni catarsi non può risolversi che in castigo. Lo stesso padre del Dio Infante non si è sottratto alla cupa legge. Discendono da queste convinzioni un sistema di diritto e una pratica giudiziaria veramente singolari, di cui avevo sentore e che ebbi modo di sperimentare; come è ora che finalmente dica.