CAPITOLO 2-2

2414 Words
Non era tutto qui. Un resoconto scritto in latino raccontava di popoli del nordeuropa incontrati dagli ammiragli romani quando, nel primo secolo dell’era volgare, avevano circumnavigato le isole britanniche. Questi popoli erano formati da grandi navigatori i cui ricordi e le cui tradizioni parlavano dell’ultima Thule, di isole lontane, nascoste da un mare pieno di ghiacci vaganti e di mostri marini. Altre pergamene, altri papiri, contenevano relazioni e testimonianze di viaggi. Vi si parlava di isole sparse nell’oceano e di una terra immensa, scarsamente popolata. In una di queste pergamene, chiaramente recente e scritta in un latino abbastanza moderno, si dava conto del viaggio di un marinaio danese chiamato Johannes Skolvus: costui, dopo aver raggiunto Thule e Groenlandia, aveva proseguito verso ovest fino a incontrare un’altra terra e aveva seguito la costa giungendo fin quasi all’equatore. Al resoconto era allegata una schematica cartina con il profilo della costa del continente sconosciuto. C’erano poi relazioni di viaggi nella direzione opposta, sulle orme di Alessandro Magno. Soprattutto i papiri scritti in arabo parlavano di viaggi per mare fino all’India e all’isola di Taprobana, dove era possibile acquistare merci raffinatissime – come la seta e il cinnamomo – provenienti da un grande impero al di là delle montagne. E infine c’erano le mappe. Carte che, per quanto sommarie, davano un’idea abbastanza precisa di cosa c’era da aspettarsi navigando per l’oceano. Carte che raffiguravano la terra come una grande sfera in cui si alternavano mari e terre emerse, isole e continenti. E la cosa più sconcertante era che, stando a quelle mappe, una terra immensa e sconosciuta chiudeva l’orizzonte occidentale. Per chi si allontanava da Roma (o da Gerusalemme) a oriente c’erano le spezie e la seta; a occidente c’era un mondo nuovo, che nessuno aveva ancora scoperto. Ecco la missione che il gran maestro gli aveva affidato! Ricostituire l’ordine dei poveri soldati di Cristo in una terra inesplorata. Fondare uno stato templare che non dipendesse da papi, re e imperatori, e rafforzarsi laggiù, in un luogo mai visto, dove nessun re europeo o arabo avrebbe potuto ripetere le campagne vittoriose del Saladino o il colpo di mano di Filippo il Bello. Là, in un mondo irraggiungibile a tutti gli altri, avrebbero potuto ricostituire una potenza sufficiente per tornare in forze. I Nuovi templari avrebbero liberato la Terrasanta senza dipendere dai re d’Europa, sempre in competizione fra di loro; o dagli imperatori, costretti a mettere gli interessi davanti agli ideali; o persino dai papi, ridotti a zerbino del re di Francia da quando Bonifacio VIII era stato schiaffeggiato ad Anagni. Un regno templare! Questo era l’ideale che avrebbe sospinto l’ordine alla conquista del nuovo mondo. E la via per arrivarci passava per il Portogallo. La flotta procedeva controvento sotto nuvole nere, rollando e scarrocciando ogni volta che le navi raggiungevano la cresta di un’onda e piombavano nell’avvallamento che precedeva l’onda successiva. I marinai più deboli di stomaco si piegavano sui parapetti, scossi dai conati. Il sole non si vedeva da ore e la luce del giorno era molto affievolita. Tra poco sarebbe stata notte. Il comandante pensava seriamente di procedere controvento fino all’alba? Quando si spense anche l’ultimo chiarore del crepuscolo, cominciò a piovere. Gli uomini di manovra in coperta dapprima sacramentarono sottovoce, poi si chiesero dove diavolo fosse il comandante, poi cominciarono a gridare che bisognava invertire la rotta e andare a Bordeaux. L’ufficiale di coperta faticava a imporsi e qualcuno stava già arrampicandosi sull’albero per ammainare la vela quando si aprì la porta della cabina e Monredon comparve. Ondeggiando agilmente per compensare il rollio, il comandante salì sul cassero, lanciò sguardi irritati alla ciurma che si era immobilizzata a guardarlo e li inquadrò con poche frasi secche: «Che c’è? Non avete mai visto piovere? Mantenete la rotta! Non ci sono altri ordini!». L’ufficiale di coperta si avvicinò. «Grazie a Dio siete qui, signore. Le cose stavano per sfuggirmi di mano. Mi vergogno di non aver saputo cavarmela da solo, ma…» «Scendete a dormire per qualche ora. Siete stanco.» «Posso resistere ancora un po’, comandante.» «Andate. Domani avrò bisogno di voi. Svegliate Bigorre e mandatelo da me: lui ha dormito abbastanza!» Le decisioni di Monredon potevano sembrare azzardate ma erano le uniche possibili. Il golfo di Biscaglia è una zona particolarmente burrascosa. Dai vortici che vi si formano prende origine il mistral, il vento che spazza Guascogna e Linguadoca, arriva fino in Provenza e si scarica nel Mediterraneo. È molto raro (e in ottobre è quasi impossibile) attraversare il golfo di Biscaglia senza incappare in una tempesta. Monredon lo sapeva, ma non poteva fare altrimenti: la rotta per il Portogallo passava di lì. Del resto, gli era già capitato di imbattersi in quelle tempeste e, anche se non poteva dire di conoscere la contromossa giusta per ogni circostanza avversa, sapeva almeno che cosa non fare: doveva evitare di lasciarsi spingere dal vento fino in vista della costa e per nessun motivo al mondo doveva tentare di rifugiarsi in un porto. C’era un triste motivo se tutti i marinai chiamavano il tratto di mare che fronteggia Asturie e Galizia la Cuesta de la muerte, un soprannome destinato a durare. In quelle acque, la nave che segua una rotta troppo vicina alla costa, o che tenti di entrare in porto quando il tempo è inclemente, rischia grosso. La violenza del mare, l’imprevedibilità delle correnti, i mulinelli di vento, spingono navi di qualunque dimensione a schiantarsi sugli scogli. La Templière e le otto navi del suo seguito avevano una sola strategia: stringere il vento per prendere le onde di prua restando il più possibile lontane dalla costa. A bordo, tutti dovevano resistere, bagnati dalla pioggia, sulla coperta che a ogni momento sembrava sparire sotto i piedi, con la nausea in gola, il sonno negli occhi e la stanchezza nelle braccia. Non potevano fare altro che resistere e sperare che la tempesta si calmasse. Non era facile. Monredon rimase al timone per tutta la notte. I marinai di coperta ricevettero il cambio poco prima che spuntasse l’alba. Il comandante voleva che fossero sfiniti e una volta sottocoperta crollassero nel sonno, troppo stanchi per pensare a un ammutinamento. Il mare era sempre agitato. Il vento non accennava a calare. Il sole non comparve, oscurato da una massa di nubi nere. Quando ci fu luce sufficiente per guardarsi attorno, Monredon contò le navi della sua flotta. Sette! Mancava la Héron. Ordinò immediatamente una serie di manovre. Ci volle un’ora per raggiungere l’ultima della fila rinculando, manovrando per rimanere con la prua al mare. «Dov’è l’Héron?» «… Persa tre ore fa…» «Non avete avvisato?» «Ci siamo sgolati… gridato… non ci hanno sentito…» «Mantenete la rotta!» La Templière seguitò a rinculare. Ogni tre ondate, una spazzava la coperta e l’equipaggio doveva precipitarsi a gettare acqua fuori bordo. Ma i marinai non mugugnavano più: il comandante aveva in pugno la nave e la stava conducendo a salvare dei confratelli. Non c’era tempo per pensare alle ondate, al vento, al rollio: avevano un dovere da compiere. Avvistarono l’Héron quando stavano per perdere contatto con il resto della flotta e Monredon si domandava angosciosamente cosa fare. Quando si affiancarono seppero che un’onda anomala aveva gettato in mare tre uomini e la nave aveva imbarcato acqua. I tentativi di svuotare la stiva e nel contempo salvare i naufraghi avevano fatto perdere il contatto con la flotta. Purtroppo, dei tre uomini in mare ne era stato recuperato soltanto uno. Per colmo di sventura, l’acqua imbarcata era troppa: la nave non poteva mantenere la velocità delle altre e, con la linea di galleggiamento abbassata, ogni ondata riportava immediatamente a bordo l’acqua gettata fuori. L’equipaggio era esausto. Monredon capì che la situazione era disperata. C’era poco tempo per salvare il salvabile. «Trasbordate!» ordinò. «Portate con voi i cordami, le vele e nient’altro. Presto! Abbandonate la nave!» A rischio di affondare insieme, la fiancata dell’Héron fu legata a quella della Templière. La vela latina fu ammainata e arrotolata sul boma. Portando appresso tutto quanto si poté recuperare dalle stive allagate, più di trenta marinai saltarono a bordo dell’ammiraglia. «Ci siete tutti?» «Tutti, comandante!» Monredon calò una scure sulle gomene che tenevano agganciate le due navi. Con uno scricchiolio impressionante, la Templière si raddrizzò, mentre l’Héron parve collassare. Le due navi si separarono. In pochi minuti anche l’albero dell’Héron scomparve nei flutti dell’oceano. La tempesta durò ininterrottamente per quattro giorni. Il cielo tornò azzurro solo al tramonto del quarto giorno. Per quella notte e per tutto il giorno successivo Monredon non ordinò alcuna manovra: gli uomini erano distrutti dalla fatica e dalla fame. Il mal di mare non aveva dato modo di nutrirsi: nemmeno i marinai più coriacei erano riusciti a trattenere i bocconi nello stomaco. E così il sesto giorno di navigazione – il quinto da quando si era scatenata la tempesta – fu dedicato a mangiare e a dormire. La furia del mare e del vento era sbollita e si era trasformata in una brezza costante da tramontana, fresca, senza raffiche. La flotta poté sfilare al largo della costa galiziana senza dover manovrare. La mattina dell’ottavo giorno fu doppiato il capo Finisterre. Il giorno successivo Monredon ordinò di razionare l’acqua. Non che mancassero le possibilità di rifornirsi: avevano appena superato la foce del Rio Minho e stavano per raggiungere quella del Douro, ma Monredon aveva ottimi motivi per non volere che il re del Portogallo fosse informato del suo arrivo prima ancora che la flotta trovasse un ormeggio. Per questo era rimasto al largo di Porto e aveva puntato su Peniche, un porticciolo più modesto, dove poteva contare su qualche giorno di tranquillità per mettere in atto il resto del piano. Stanchi, affamati, assetati, i templari misero piede a terra dieci giorni dopo la partenza da La Rochelle. Avevano perduto due uomini e una nave. Ma erano vivi, e il futuro era di nuovo pieno di possibilità. «Bertrand, ho una missione da affidarvi.» «Eccomi.» «Innanzitutto dovete procurarvi un cavallo.» «Non dovrebbe essere un problema. Peniche non è Parigi, ma ci sarà senz’altro una stazione di posta.» «Informatevi sulla strada per Tomar.» «Sta bene. E poi?» «Saltate a cavallo e correte a Tomar. Dovete farvi ricevere da Gil Martines. Ricordate questo nome: Gil Martines. Non so quale sia il suo grado, non sono neanche sicuro che sia uno dei nostri. Ma è un uomo importante, sicuramente introdotto a corte.» «Cosa devo dirgli?» «Riferite gli avvenimenti di Parigi. Cercate di sapere se ci sono novità. Dubito che ce ne siano, ma non si sa mai. Dite che siamo pronti a unirci ai templari portoghesi. Ma è necessario – assolutamente necessario, capite? – che Martines ci raggiunga al più presto, prima che il re sappia del nostro arrivo. Abbiamo lasciato La Rochelle per non consegnare l’ordine del Tempio al re di Francia. Non siamo venuti qui per consegnarlo al re del Portogallo. Bertrand, voi siete un diplomatico e io un soldato. Per questo mando voi. Usate le parole che riterrete più opportune, ma fate in modo che Martines salti subito a cavallo. Portatemelo qui.» «Contate su di me.» Bertrand de Bigorre ricomparve l’indomani accompagnato da un personaggio impennacchiato, seguito da una scorta di cavalieri templari nelle loro tuniche bianche con la croce scarlatta svasata alle estremità. I marinai, intenti a godersi gli arrosti e i vini dell’unica taverna di Peniche, videro il corteo scendere al porto, Bigorre e il nuovo venuto smontare da cavallo. Monredon in piedi sul barcarizzo, era pronto a riceverli a bordo. Da quel momento gli avvenimenti si incamminarono su un percorso pieno di ambiguità. Monredon e Martines concordarono di aspettare la convocazione del re per presentarsi insieme a corte, ma il re non li convocò a Lisbona o a Porto. L’udienza si tenne dieci giorni più tardi nel castello di Obidos, a poche miglia da Peniche. Un re si scomodava per loro! Questo dimostrava due cose: da un lato re Dinis del Portogallo era molto interessato; dall’altro, si rendeva ben conto di quanto fosse necessario mantenere il segreto. «Immagino che comprendiate quanto sia delicata la mia posizione» esordì il re. «Combatto contro i mori ma non ho una marina da guerra. Voi potreste essermi molto utili, così come lo sono i vostri confratelli sul fronte di Santarem. Solo, dovete capire che io non posso mettermi in urto con il re di Francia e meno ancora con il papa. Non posso gridare al mondo che vi accolgo e mi dichiaro vostro protettore. Al contrario, devo figurare come un re che, seppur di malavoglia, segue l’esempio del re Filippo e i desideri di sua santità. Se il papa scioglierà il vostro ordine, nel mio regno i templari non potranno più esistere. Potrò sempre creare un altro ordine e sollecitare la sanzione papale. Ma sapete bene come funzionano queste cose: ci vorranno anni. Nel frattempo a Parigi e a Roma succederà di tutto. I papi muoiono, sapete? E anche i re. Altri papi e altri re succedono, a volte con idee simili, a volte diverse. Oggi le sorti dell’ordine del Tempio sono compromesse, ma il futuro, come dicevano gli antichi, sta in grembo a Giove. La vostra causa potrebbe risollevarsi da un momento all’altro. Oppure no. Nelle attuali circostanze possiamo soltanto temporeggiare. Stando così le cose, la scelta che vi offro è semplice: se vi fidate della mia parola, i templari di Tomar saranno arruolati nel mio esercito e la flotta appena arrivata formerà la mia marina da guerra. In cambio, nessuno sarà autorizzato a domandare chi siete. Preti e spie potranno sospettare tutto ciò che vorranno, ma non avranno mai conferme da parte mia. Aspetteremo gli eventi. Se l’ordine tornerà sugli scudi, potrete uscire allo scoperto. I nuovi arrivati potranno decidere se tornare in Francia o rimanere qui, anche se, ve lo dico sinceramente, ho bisogno che restiate. Se l’ordine sarà sciolto, ne creerò uno nuovo, portoghese, e chiederò al papa di dare la sua sanzione. Se invece non vi fidate di me, vi fornirò acqua e viveri. Riprenderete il mare e nessuno saprà mai che avete fatto scalo qui. Un ultimo avvertimento: il porto di Peniche e il complesso templare di Tomar sono circondati dalle mie truppe. Non ho intenzioni ostili, ma devo prendere le mie precauzioni. In fin dei conti, siete in casa mia. Siete ospiti, ma non ospiti qualunque, visto che la vostra presenza deve rimanere riservata. L’unica cosa che vi chiedo è di decidere presto. Mi rendo conto dei vostri problemi, ma devo prendere una posizione ufficiale e non intendo compromettere i miei rapporti con il resto del mondo.»
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