02 – FIORI D’ARANCIO E MATRI­MONI COMBINATI

2377 Words
02 – FIORI D’ARANCIO E MATRI­MONI COMBINATI (Fiamma) Esamino con occhio critico il mio paio preferito di skinny jeans, chiari e con strategiche macchie di varechina su cosce e glutei. Quando li indosso danno l’impressione di essere stati consumati da un eccessivo sfregamento e pare suggeriscano alle menti più primitive di posarci sopra le mani per dare una bella palpata. In un mondo ideale sarebbe responsabilità ma­schile trattenere i bollenti spiriti, mentre in quello reale, se non voglio trascorrere il prossimo mese a schivare attenzioni inde­siderate, mi conviene lasciare a casa questi pantaloni e optare al loro posto per quelli blu scuro, comunque aderentissimi perché: a) sono bassa in maniera imbarazzante e i vestiti che non fasciano le forme mi fanno somigliare a un sac­co di patate, b) ho un culo fantastico e non ho intenzione di na­sconderlo e c) se nemmeno rinunciando ai miei jeans favoriti riesco a evitare i disgustosi approcci di Fabio, sarò costretta ad ampu­targli gli arti superiori risolvendo così il problema alla radice. Con il morale sollevato grazie al pensiero di ri­correre alla violenza fisica, continuo la caccia al tesoro all’interno dell’armadio e getto gli abiti prescelti sul letto. Mi piange il cuore di fronte a una simile confusione e le mie dita scalpitano per ripiegare ogni singolo capo, ma sto cercando di esternare appieno il mio disappunto, perciò mi trattengo. «Non farne una tragedia», dice impassibile mia madre, sor­seggiando una delle sue tisane benefiche fatte in casa. Finoc­chio, anice e coriandolo, a giudicare dall’aroma. Se ne sta seduta davanti alla scrivania e mi osserva sen­za fare una piega né tantomeno cercare di porre rimedio al caos in pieno svolgimento. Ma porca miseria, non potrebbe li­mitarsi a prendere atto della mia furia, alzarsi e darmi una mano a prepa­rare la valigia? Quando avrò finito di lanciare t-shirt da un capo all’altro della stanza, mi toccherà pure mettere in ordine. Oltre al danno, la beffa. «Non capisco perché te la sia presa tanto. Dopotutto non par­li una parola di tedesco. Ti saresti sentita un pesce fuor d’acqua a Freiburg.» Questo è vero. Per di più in Germania si mangia da schifo. Figurarsi se sopravvivrei più di una man­ciata di giorni alla cucina locale. «Oltretutto», prosegue la mamma, «hai detto tu stessa che ai matrimoni preferisci assistere piuttosto che organizzarli, quindi mi spieghi perché hai preso la nostra decisione di lasciarti a casa come un’offesa mortale?» «Lasciarmi a casa?» sbotto, risentita. «Se davvero mi lascia­ste a casa, farei i salti di gioia. Ho sedici anni, non sono più una bambina.» Lei scuote la testa, sorridendo indulgente come se lo fossi eccome. Che ipocrita! Prima tenta di appiopparmi un fidanzato e poi mi tratta da lattante. «Non trascorrerai quattro settimane da sola, Fiamma. Puoi urlare e strapparti i capelli, se vuoi, ma non esiste che ti lasci per tanto tempo senza supervisione.» «Potrei farmi ospitare dalla famiglia di Camilla», propongo, pur senza nutrire troppe illusioni in proposito. Mi guarda inorridita, sbarrando gli occhi e trattenendo a stento un gemito indignato. «La tua amica umana? Sei pazza?» «È una brava persona, mamma, e se stessi da lei non dovrei nemmeno saltare le lezioni.» «Quelle non sono un problema.» Liquida la faccenda stor­cendo il naso ed esibendosi in un gesto noncurante con la mano. «Studierai a casa come fa la maggior parte dei giovani membri del clan. Al nostro ritorno, ci penseremo io e tuo padre a giustificarti con la scuola per l’assenza, così dopo le nozze potrai ricominciare a frequentare.» Naturalmente, non è affatto questo a turbarmi. «Perché farmi trascorrere un mese intero in compagnia di estranei?» Spazientita, appoggia la tazza accanto al mio portatile e si alza. Si avvicina al letto e, sbuffando, comincia a estrarre un ve­stito alla volta dalla pila accumulatasi pian piano nel corso de­gli ultimi minuti, poi inizia a riempire la valigia aperta sul pavi­mento. Una piccola vittoria per me. «Fiamma, hai una vaga idea di quanto Salvatore Bianchi sia importante?» No, e nemmeno mi interessa, ma lei continua, im­perterrita: «Ci sono ottime probabilità che venga eletto Primo Rappresen­tante delle Ombre l’anno prossimo e già adesso è uno dei tre membri di spicco del clan.» «E allora?» Mi lancia un’occhiataccia. «Non fingere di non capire quanti benefici potremmo trarre da una simile amicizia.» «Ma certo», replico. «Amicizia. Si dice così, adesso? In ef­fetti suona meglio di barattare la propria secondogenita per l’opportunità di una scalata sociale.» «Non essere melodrammatica», mi ammonisce con un sospi­ro divertito. «Nessuno sta per essere barattato. Al massimo, una certa ragazzina indisponente viene incoraggiata a passare del tempo con l’affascinante figlio di Bianchi. Penso tu gli piaccia e, se solo gli dessi una possibilità, forse scopriresti che anche lui non è male.» «Quel. Ragazzo. Mi. Disgusta», scandisco, rabbiosa. «Esagerata.» «Non è che per caso mi vuoi fuori dai piedi? Dopo aver si­stemato Lucilla intendi far accoppiare anche me così tu e papà potete tornare alla vostra tranquilla vita a due? Progetti una se­conda luna di miele?» Lei scoppia a ridere e, mio malgrado, anche a me sfugge un mezzo sogghigno per l’assurdità dell’ipotesi. «Mi spiace, tesoro, ma ­temo tu abbia fatto cilecca.» Sistema l’ultimo golfino e chiude la valigia senza sforzo gra­zie alla precisione con cui è riuscita a organizzarne il con­tenuto. Penso sia una mamma grandiosa, specialmente quando non sono irritata a morte con lei, il genere di mamma in grado di usare espressioni come fare cilecca senza risultare ridicola. «Vuoi la verità? A essere sincera da quando ho presentato a tua sorella il suo futuro marito mi sento un po’ Cupido.» «Be’, aggiusta la mira e scordati pure di farmi piacere Fabio, non importa quanto potenti sono le tue frecce.» «Ora dici così, ma chissà come la penserai tra un mese.» «A quel punto, se non l’avrò già ucciso, non vedrò l’ora di li­berarmene. E sappi che ti terrò il muso fino alla fine dell’eter­nità.» Mi si avvicina e mi accarezza i capelli, color ruggine e ric­cissimi proprio come i suoi. «Va bene», dice posandomi un bacio sulla fronte. «Però adesso finisci di preparare i bagagli. Io devo fare una telefonata e il tuo cavaliere sarà qui tra meno di un’ora.» Dopo la sua uscita di scena infilo in una borsa a tracolla libri e quaderni di scuola. Il mio smartphone vibra due volte in rapi­da successione, segnalando l’arrivo di un messaggio su Wha­tsApp, ma lo ignoro lasciandolo in tasca. Sono sicura si tratti della mia amica Cami e, nonostante la curiosità di sapere cosa mi abbia scritto, per colpa dell’insidiosa doppia spunta blu non posso nemmeno concedermi il lusso di sbirciare. Non mi va di parlarle perché detesto mentire. Dell’attuale situazione le ho raccontato l’indispensabile, evitando accuratamente qualsiasi ri­ferimento ai mutaforma, ma conoscendola immagino si stia po­nendo ugualmente delle domande. Per esempio per quale moti­vo i miei genitori mi affidino alla famiglia Bianchi per ben quattro settimane. Ho inventato un’assurda versione dei fatti nella quale Salvatore e papà sono amici di vecchia data, ma lei non è scema e sa benissimo che i due non si frequentano affat­to. D’altro canto quello delle Ombre non è definito clan per puro caso. A differenza di parecchi individui con i quali condi­vidiamo l’appartenenza alla medesima specie, i membri della mia razza non sono fatti per vivere in branco e la nostra comu­nità non è particolarmente unita. Tant’è che finora non sono mai stata a casa di Fabio, grazie al cielo. Già tremo all’idea di restare da sola con lui, per di più all’interno del suo territorio. Su una cosa mia madre ha ragione: gli piaccio. Ma non in modo tenero o dolce e nemmeno bollente e da fiato corto. Gli interesso in maniera viscida e leggermente inquietante. Basti sapere che mi mette i brividi. Esteticamente non è male, questo devo riconoscerglielo – e sono costretta a farlo, dal momento che ci somi­gliamo quasi fossimo parenti – ma al di là di un bel faccino e un fisico agile e sottile non ha nulla di attraente. Non bastano due oc­chi incre­dibilmente verdi a incantarmi e tantomeno mi lascio impressio­nare da qualche sorriso malizioso. Purtroppo per lui, e per me, Fabio è però il genere di ragazzo estremamente arro­gante inca­pace di accettare un rifiuto. Probabilmente, se solo gli avessi dato corda il giorno del nostro primo incontro, la cosa sarebbe finita lì e adesso non mi degnerebbe neanche di uno sguardo. Invece, ahimè, ho ferito il suo orgoglio maschi­le e scatenato il suo istinto predatorio. Mi ritrovo perciò, volen­te o nolente, a ingaggiare con lui una sorta di gioco del quale io sono il premio. E no, la cosa non mi sem­bra affatto romantica come pensa Laura Dell’Olmo, una povera sgallettata facente parte del nostro clan e del suo fanclub di svampite. Non c’è niente di lusinghiero nell’essere considerata alla stregua di uno stupido trofeo. Se lo prenda lei, quel borioso figlio di papà. Lancio un ultimo sguardo alla camera da letto, terribilmente accogliente e confortevole, soprattutto se paragonata alla pro­spettiva di abbandonarla per addentrarmi nella tana del nemico. Appunto mentale per me stessa: dovunque ti sistemino, ri­corda di chiudertici dentro a chiave prima di andare a dormi­re. Non si può mai sapere. Meglio evitare brutte sorprese. Il clacson di un’automobile annuncia l’arrivo del Principe Azzurro. Che classe. In fondo, a cosa mai serviranno i citofoni? Scendo al piano di sotto e trovo i miei genitori in cucina. Papà digita il testo di un’email premendo sulla tastiera del por­tatile con aria in egual misura ansiosa e concen­trata, mentre beve caffè. Fa l’intermediario finanziario e lavora ventiquattro ore su ventiquattro. Le vacanze praticamente non sa cosa siano. La mamma, che parla al telefono facendo su e giù per la stanza e gesticolando di tanto in tanto, invece è con­tabile, ma al con­trario di lui non vive per la sua professione e nel tempo libero si dedica a un gran numero di hobby. Il più re­cente è fare da wedding planner a Lucilla. Li saluto entrambi con un abbraccio e qualche parola di commiato. Mi irrigidisco al contatto e sono sintetica nel discor­so, vista l’arrabbiatura nei loro confronti, ma ciononostante li adoro e so che, anche se stanno commettendo un madornale er­rore a spingermi tra le braccia del giovane Bianchi, mi voglio­no un gran bene. Siccome sono entrambi piuttosto indaffa­rati, trascino fuori il bagaglio da sola. Il gentiluomo in attesa a motore acceso al di là del cancello resta comodamente seduto all’interno della sua Audi senza accennare a darmi una mano. È proprio vero che la cavalleria è morta e sepolta. Il si­gnorino mi fa giusto la grazia di sbloccare la serratura del baule cosicché possa aprirlo e caricare le valigie. Operazione che de­cido di svolgere il più energicamente possibile, tentata persino di col­pire accidentalmente un fanalino posteriore. Sì, insomma, non ho molta forza nelle braccia tutto sommato: è credibile che una borsa mi scivoli di mano. Decidendo infine di risparmiare le luci di posizione, mi ac­contento di sbattere la portiera prima di adagiar­mi sul sedile con la delicatezza di un pachiderma e allacciare la cintura con movimenti secchi e un’espressione infastidita. «Ciao, splendore», mi accoglie Fabio, le mani intrecciate dietro la testa. I delicati tratti del suo viso sono rilassati, le labbra generose, assediate dalle efelidi, arricciate verso l’alto. Districa le dita dalla chioma fulva e liscia, scompigliandose­la appena, e in un nanosecondo si è già proteso a sistemarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Chi gli ha dato il per­messo di allun­gare le zampe? Di sicuro pensa che un nomigno­lo apparentemente affettuoso e modi di fare da protagonista di un libro di Nicholas Sparks bastino a mandarmi in cortocircuito i neuroni, ma pur­troppo per lui sono ancora troppo giovane per l’Alzheimer e ri­cordo bene il nostro ultimo incontro. Nonostan­te un so­noro no e successive veementi proteste, mi pare proprio di ram­mentare che la sua disgustosa lingua mi si sia infilata in bocca per sguazzarci dentro come una carpa koi in un laghetto giap­ponese. Se ci ripenso mi viene il vomito. Così mi allontano il più possibile, finendo quasi per dare una testata al finestrino, e cerco di fargli capire con lo sguardo che qualunque parte del corpo oserà avvicinare di nuovo a me rischierà seriamente di essere staccata a morsi. «Giornataccia?» domanda lui, serafico. Lo dice con il tono di chi si sta rivolgendo a un’isterica. Ci manca solo che mi chieda se sono nervosa perché ho le mestruazioni. Idiota. «Già, proprio una giornata di merda. E sono solo le dieci del mattino.» Si stringe nelle spalle con espressione neutra, come se non potesse fregargliene di meno, cosa della quale non dubito. «Be’, ho una notizia bomba. Vedrai, migliorerà significativa­mente la situazione», esclama poi, facendomi l’occhiolino. «Ti sei appena arruolato nella Legione Straniera e avrò casa tua tutta per me per il prossimo mese?» Sorride, come se la mia fosse una battuta di spirito piuttosto che l’esplicitazione di un desiderio quanto mai genuino. «No, ma non stiamo andando a casa mia a Lillaz.» Corrugo la fronte, confusa, e – lo ammetto – anche un po’ preoccupata. «Dove altro potremmo essere diretti?» «Vallone di Lavina, in Val Soana. È una zona poco frequen­tata e costituita prevalentemente da natura selvaggia, paesini semi deserti, se non del tutto abbandonati, e un paio di baite. Uno dei rifugi che vi si trovano è gestito da Elia Schulz, un mutaforma ursino. Mio padre, Manuele Silva e Iacopo Gentile sono stati convocati in virtù di rappresentanti delle Ombre a un raduno unico nel suo genere. Ci saranno esponenti di tutti i branchi che frequentano abitualmente il Parco Nazionale. Per la prima volta mutaforma di razze diverse si riuniranno per col­laborare e tu, mia cara, grazie a me potrai imbucarti alla fe­sta.» Mi rivolge un sorriso smagliante, studiato per fare colpo. Se mia madre venisse a sapere di questa storia andrebbe in brodo di giuggiole. Ammetto di essere a mia volta un tantino intriga­ta. Non abbastanza da rivalutare Fabio, questo mai, ma a suffi­cienza da pensare che forse, effettivamente, la giornata di oggi potrebbe non essere una completa tra­gedia. «Qual è il motivo di tanto fermento?» chiedo, incuriosita. «Se l’evento fosse stato programmato sarebbe di dominio pub­blico, se non addirittura sulla bocca di tutti, quindi suppon­go si tratti di una riunione convocata in maniera improvvisa.» Lui sospira e mi scruta di sottecchi, apparentemente valutando cosa sia opportuno rivelarmi e cosa tacere, ma è tutta scena, mi vuole solo impressionare. Starà senza dubbio pensando di aver­mi in pugno, di essere appena diventato il mio eroe e che que­sta sera mi getterò ai suoi piedi esclamando: «Prendimi, sono tua.» Continui pure a sognare. «Vedi», si decide a dire alla fine, «è una questione di massi­ma sicurezza.» Sarei pronta a scommettere che questa frase l’abbia estrapo­lata da un film d’azione americano. «A quanto pare la nostra intera specie potrebbe trovarsi in serio pericolo. L’ipotesi al momento più accreditata è che un’organizzazione segreta, una sorta di associazione paramili­tare umana, sia venuta a conoscenza della nostra esistenza e ab­bia intenzione di eliminare sistematicamente tutti i mutaforma in circolazione.» Mi sembra un’idea improbabile, per non dire paranoica. «Le autorità sanno già di noi», gli faccio notare. «Stando agli accor­di, hanno proprio il compito di evitare fughe di notizie e gestire la presenza di eventuali cacciatori del paranormale.» «Se si trattasse però di un piccolo esercito, i nostri alleati umani potrebbero fare ben poco, soprattutto in tempi brevi. Toccherebbe a noi difenderci e organizzare un contrattacco.» «A cosa è dovuto tanto allarmismo? Insomma, quali sareb­bero le basi concrete su cui si fonda questa teoria?» «Ma come, non ne hai idea?» Ovvio che non ce l’abbia, altrimenti non lo avrei chiesto. Fabio mi fissa ironico, scuotendo la testa, convinto di essere irresistibile. «C’è stato un attacco ai danni dei lupi. Il branco Cometa ne è uscito quasi distrutto. Sono so­pravvissuti sola­mente in tre.»
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