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2562 Words
1 “Non guardarlo negli occhi: è come fissare il sole, ma invece di bruciarti la retina ti fa venire voglia di andare a letto con lui”. Zeke «Mi sta ascoltando, Mr Daniels?». Alzo di scatto la testa verso la voce del mio coach; sono già irritato a morte perché ha deciso di farmi perdere tempo. Il suo ufficio è piccolo, ma del resto lo è anche lui, e le pareti di cemento di uno sbiadito blu spento gli gettano uno spettrale pallore sulla pelle. Le vene nel collo del coach si tendono mentre si sforza di mantenere il controllo di questo improvvisato incontro a cui mi ha convocato. Non sono dell’umore giusto per ascoltarlo. Così, non avendo niente da aggiungere, tengo chiusa la mia cazzo di bocca, limitandomi a un secco cenno del capo. «Ho detto: mi stai ascoltando, figliolo?». Vorrei ricordargli che non sono suo figlio… neanche lontanamente. Il mio vero padre neppure mi chiama figliolo. Né vorrei lo facesse. Mascella serrata, denti stretti. «Sì, signore». «Ora, non so da dove venga questo tuo atteggiamento, e non fingerò che mi freghi qualcosa di ciò che succede quando vai via da qui, ma che io sia dannato se me ne starò a guardare uno dei miei ragazzi che si autodistrugge nella mia palestra». La pelle rugosa si tende seguendo la piega severa della bocca. Continua: «Credi di essere il primo coglione che entra in questo programma pensando che la sua merda sia profumata? No di certo, ma sei il primo coglione a cui non riesco a togliere questo atteggiamento. E ti avverto: sei a un solo commento sarcastico dal prenderti un pugno dritto in quel bel faccino. Perfino ai tuoi stessi compagni di squadra non piaci. E io non posso tollerare discordia nella mia squadra». La mascella schiocca quando la stringo ma, non avendo niente da dire in mia difesa, tengo la bocca ben chiusa. Lui va avanti, risentito. «Cosa ci vuole per farglielo capire, Mr Daniels?». Niente. Non hai un cazzo di niente che possa farmi capire qualcosa, vecchio. Lui si fa indietro, inclinando la vecchia sedia di legno e mi esamina, le dita unite a formare una cuspide. Tenendosi in equilibrio, il coach si picchietta il mento con i polpastrelli. Sono sul punto di dirgli che se vuole convincermi può piantarla di chiamarmi Mister Daniels. Secondo, può smetterla con le stronzate e spiegarmi perché mi ha convocato nel suo ufficio, finito l’allenamento. Dopo un lungo silenzio, si sporge in avanti, le molle della sedia che emettono un forte raschio metallico, e appoggia le braccia sulla scrivania. Le sue mani scivolano su una risma di fogli e ne prendono uno dalla cima. «Ti dirò cosa faremo». Spinge il foglio verso di me sulla scrivania. «Il direttore del Big Brothers Mentorship Program mi deve un favore. Hai esperienza coi ragazzini, Daniels?». Scuoto la testa. «No». «Sai cos’è il Big Brothers?». «No, ma sono sicuro che stia per illuminarmi», ribatto, incapace di fermarmi. Incrociando le braccia, assumo una postura difensiva che molta gente trova intimidatoria. Non il coach. «Mi permetta di illuminarla, Mr Daniels. È un programma progettato per affiancare a un giovane un volontario più grande, come lei, che funga da mentore. Frequenti il ragazzo. Gli dimostri che non è solo. Sia una persona affidabile che non se la squaglierà. In genere si tratta di bravi ragazzi con un solo genitore, ma non sempre. A volte sono ragazzi trascurati, con padri fannulloni, quel genere di cose. A volte i loro genitori semplicemente non se ne interessano e li lasciano a cavarsela da soli. Hai presente, figliolo?». Sì. «No». Il sadico continua a parlare, mescolando la pila di fogli sulla scrivania. «C’è un colloquio, al quale verresti brillantemente scartato, perciò stiamo prendendo una scorciatoia e tirando qualche filo. Sai perché? Perché hai il potenziale per il successo e lo stai mandando a puttane comportandoti come uno stronzetto». La sua sedia cigola in questa cella d’ufficio. «Forse ciò di cui hai bisogno è preoccuparti di qualcuno che non sia te stesso, per una volta. Forse hai bisogno di incontrare un ragazzo la cui vita faccia più schifo della tua. È finita l’ora di autocommiserarti». «Non ho tempo per fare volontariato, coach», gli dico a denti serrati. Lui mi sorride da dietro la scrivania, la luce dal soffitto gli si riflette sugli spessi occhiali. «Davvero un gran peccato allora, sai perché? O accetti le ore di volontariato, o sei fuori dalla squadra. Non mi serve una bomba a orologeria. Fidati, troveremo il modo di andare avanti senza di te». Attende la mia risposta e, visto che prendo tempo, mi fa pressione. «Pensi di potercela fare? Rispondi: Sì, coach». Annuisco bruscamente. «Sì, coach». «Bene». Soddisfatto prende una matita gialla N. 2 e me la lancia. «Compila quel foglio e portalo con te. Conoscerai il tuo Fratellino domani nei loro uffici del centro. L’indirizzo è sul modulo». Con riluttanza, prendo la matita e il foglio dalla scrivania, ma non lo guardo. «Non fare tardi. Non fare cazzate. Domani pomeriggio vedrai come vive l’altra metà, capito, figliolo?». Annuisco. «Bene, ora levati dalle palle». Lo guardo storto. Il suo risolino rauco mi prende alle spalle quando mi avvio verso la porta. «E, Mr Daniels?». Mi fermo ma mi rifiuto di voltarmi verso di lui. «So che sarà difficile, ma cerca di non fare troppo il coglione col ragazzo». * Il coach è un vero stronzo. Non che me ne freghi qualcosa, visto che lo sono anch’io, uno stronzo. Non c’è molto di cui mi importi di questi tempi, quindi non capisco perché creda che sarà diverso con questo cazzo di ragazzino. Soprattutto dato che sono costretto a occuparmi di lui. I miei amici dicono che sono spietato; affermano che nelle mie vene scorra sangue freddo, che sia impossibile avvicinarmi. Ma mi piace così. Mi piace tenere gli altri a distanza. Nessuno ha bisogno di me, e io ho ancor meno bisogno di loro. La felicità è un mito. A chi serve? Questa collera che mi monta dentro è più tangibile di qualunque felicità di cui neanche ricordo la sensazione, non essendo mai stato altro che solo. Mi è stato benissimo per quindici anni. Sto ancora fumando dalla rabbia quando entro nel supermercato, afferro un carrello e lo spingo su e giù lungo i corridoi, con decisione, gettandovi dentro del cibo senza rallentare il passo. Fiocchi d’avena. Nettare di agave. Noci. Raggiungo il reparto integratori e bio, le mani si muovono automaticamente verso le proteine in polvere, afferro il contenitore di plastica nera e lo infilo tra gli affettati, il pane e le bottiglie d’acqua. Giro l’angolo, spingendo il carrello verso il lato destro del passaggio, e mi fermo di colpo, finendo quasi addosso a una bambina sulle punte dei piedi che si allunga verso uno scaffale. Ha i capelli ricci e neri legati stretti in due codini, le braccia sottili tese verso una scatola che non raggiungerà mai. Nemmeno stando in punta di piedi. Ed è sulla mia strada. «Che cazzo, ragazzina, ti ho quasi investita», ringhio. «Dovresti fare più attenzione». Lei ignora il mio avvertimento. «Puoi prendermela?». Le sue piccole dita sporche si agitano verso una scatola rossa di cialde per il gelato, l’indice puntato verso lo scaffale più in alto. Noto che ha le dita dipinte di blu glitterato, e ci sono tracce di sporco incrostato sotto le unghie. «Non dovresti parlare con gli estranei», la rimprovero, ma le prendo comunque la scatola dallo scaffale, spingendola con fare scontroso tra le sue mani pronte ad afferrarla. Mi guardo intorno. Mi accorgo solo allora che non c’è nessuno con lei. «Gesù Cristo, ragazzina, dove sono i tuoi genitori?». «A scuola». «A scuola?». «Mio papà lavora e mia mamma è al college». «E chi cazzo c’è con te?». La mocciosa mi ignora, inclina la testa e mi guarda socchiudendo gli occhietti dallo sguardo fisso. «Stai dicendo brutte parole». Non sono dell’umore adatto per essere gentile, perciò socchiudo anch’io le palpebre. «Sono un adulto. Posso dire quel cazzo che voglio». «E io lo racconto a tutti!». La sua boccuccia si storce in una smorfia di disapprovazione e riesco a percepire che mi sta silenziosamente giudicando. Sono sicuro che averla come compagna di classe sia una vera gioia. «Va bene, ragazzina… fallo». «Summer?», chiama forte una voce femminile da qualche parte dietro un angolo. In un turbinio di grigio e bianco, la proprietaria della voce svolta l’angolo di corsa, annaspando in cerca d’aria quando ci vede. «Oh mio Dio, eccoti qui!». Cade in ginocchio. Stringe in un abbraccio la ragazzina smunta. «Oh mio D…Dio», ripete, balbettando. «Tesoro, non puoi allontanarti così! Mi hai quasi spaventata a m… morte. Non hai sentito che ti chiamavo?». La ragazzina, Summer a quanto pare, le tiene testa e cerca di divincolarsi. «Stavo prendendo i coni e gli zuccherini per il gelato». «Summer». La donna stringe la ragazzina in un altro abbraccio. Fa un respiro affannato. «Summer, quando n… non sono riuscita a trovarti, ho pensato che qualcuno ti avesse rapita. Ho pensato che stesse per venirmi un attacco di c… cuore». «Ero proprio qui, Vi», squittisce la ragazzina contro il giubbotto della donna, sforzandosi di respirare in quella lotta di abbracci. «Questo ragazzo mi ha preso i coni». Questo ragazzo? Alzo le mani. «Ehi, mocciosetta, non trascinarmi nel fango con te». È allora che la donna si accorge della mia presenza e solleva lo sguardo. Su. Su, fino ai miei occhi impassibili e irritati. I nostri sguardi si incrociano e mi sorprende rendermi conto che non è vecchia come pensavo. È una donna giovane, e mi sembra vagamente familiare. I suoi occhi sono di una brillante tonalità di nocciola, e si sgranano in un lampo di panico e riconoscimento mentre mi guarda, probabilmente perché le sto rivolgendo una fredda occhiataccia dall’alto in basso. Intimidisco molte persone, e ne vado fiero. Le sue labbra si schiudono ma non ne esce alcun suono, nulla a parte uno squittio spaventato. Si riprende in fretta, stringendo più forte la ragazzina e passandole le mani lungo i deboli avambracci. «Ha as… aspettato m… molto con lei?». Quando mi rendo conto che sta parlando con me, mi parte una risata nasale e ignoro la sua domanda, facendole invece notare l’ovvio. «Lei fa schifo come tata. La bambina avrebbe potuto venir rapita». Abbassa la testa e le spalle, piena di vergogna. «Lo so! M… mi creda, lo so». La bocca della giovane donna si serra di nuovo, il mento tremante. Fa qualche respiro profondo per ricomporsi, deglutisce nervosamente. «Grazie di averla aiutata». «Aiutata? Divertente. Non sono un buon samaritano». Non voglio che mi ringrazi né voglio prolungare questa litania di chiacchiere noiose. «Tutto quel che ho fatto è stato impedirle di ribaltare lo scaffale. È alta un cazzo e uno sputo». «Be’, g… grazie lo stesso». Un’altra piccola stretta attorno alle spalle della ragazzina, e la giovane donna si alza. Minuta, dev’essere attorno al metro e sessantacinque… poco rispetto al mio metro e ottantadue. Grandi occhi nocciola. Fitti capelli talmente biondi da sembrare bianchi, che le ricadono sulla spalla in una treccia spessa e intricata. Indossa una vissuta tuta dell’Iowa e il mio sguardo cade subito sulla scollatura della maglia per esaminarle il seno. Piatto. Che peccato, deve essere una rottura. Le studio il volto arrossato con occhi socchiusi, dubbiosi. «Ci conosciamo?». Lei deglutisce, guardando verso destra. «I… io non credo». Non sopporto i bugiardi. «Oh, sì, io ti conosco. Vivi in biblioteca». Si scosta un ciuffo di capelli, che neanche le ricadeva sul viso. «I… io lavoro in biblioteca, sì. Faccio anche la babysitter per gli studenti con figli piccoli e sono nel Servizio Studenti». È nervosa come il cazzo e mi chiedo quale sia il suo problema. Magari è sconvolta. O magari è sotto l’effetto di droghe. Mi sporgo in avanti per darle una bella occhiata alle pupille, controllando se siano dilatate, e colgo un profumo leggero. Sa di vergine e di come immagino odorerebbe il talco per bambini se sapessi di che cazzo odora. Mi avvicino ancora. «Dovresti dire a quei coglioni di tutor di presentarsi quando hanno un appuntamento di lavoro». Se vi chiedete se sia possibile per un essere umano diventare di una violenta sfumatura di rosa dalla punta delle dita alla radice dei capelli biondi, be’, questa ragazza c’è riuscita. Le mani le volano sul volto, i palmi premuti contro le guance. Fa un profondo respiro, afferra la mano della ragazzina. «R… riferirò il messaggio». Pausa. «Dovremmo andare». «Già, dovreste andare, perché mi state davvero tra i piedi». Do una spinta al mio carrello, facendolo avanzare perché si spostino e io possa aggirarle in quel poco di spazio che non stanno occupando. Prima di svoltare l’angolo successivo, punto loro contro un dito accusatore. «Per la cronaca, Tata Incapace, quella ragazzina non dovrebbe starsene in giro, dovrebbe essere a letto». * Scarico le buste della spesa sul piano della cucina dopo quel pomeriggio infernale, svuotandone senza cerimonia il contenuto e buttando i sacchetti di carta marrone. Riordino un paio di mobiletti per far spazio alla nuova roba e apro una bottiglia d’acqua mentre penso a cosa mangiare per cena. Petto di pollo magro e broccoli. Verdure saltate in padella e riso nero. O potrei buttar giù una ciotola di fiocchi d’avena con noci e frutti di bosco. Niente mi stimola. Non dopo lo schifo di pomeriggio che ho passato. Nelle profondità del corridoio, una porta si apre e si chiude, seguita dal silenzio. Qualche attimo dopo, sento lo scarico del bagno. Jameson Clark, la ragazza con cui il mio compagno di stanza Oz ha da poco iniziato a uscire, entra nella stanza. Indossa jeans su misura e una maglia pelosa celeste. Occhiali. Il sorriso soddisfatto che le allarga le labbra viene subito sostituito da un’espressione di sorpresa quando mi vede guardarla storto da vicino al lavandino. Non le piaccio. E me ne frega due cazzi, perché neanche a me lei piace. Con cautela, James si dirige verso il frigo, ma esita prima di aprirlo. «Ehi, come va?», cerca di intavolare una conversazione. «Bene». Fa un cenno verso il frigo. «Ti dispiace se…». Grugnisco. «Oh, ma certo. Ti prego, prenditi pure il nostro cibo e fa’ come se fossi a casa tua. Al solito». Invece di aprire il frigo, lei si appoggia al bancone, esaminandomi con aria interrogativa, come un puzzle che sta tentando di completare da mesi. «Sai che non sono il nemico, vero?». Stronzate. «Non so perché tu stia cercando di fare conversazione proprio ora. Non sono dell’umore», le dico a denti stretti. «Che sorpresa. Sei davvero una lagna». James prende una mela, una delle mie mele, dalla grande coppa sul bancone e ne morde un boccone. Lo mastica e lo ingoia. Poi dà un altro morso, riempiendo il silenzio con il suo sgranocchiare. «Si vede che c’è qualcosa che ti impensierisce, Zeke, e nonostante tutti i grugniti che mi rivolgi, so che non dipende da me». Con disinvoltura, James sporge una gamba, appoggiandola alla credenza. Abbasso lo sguardo, attratto dalle vivaci unghie blu dei suoi piedi. S’intonano al maglioncino. Mi sorprende a guardarle e agita le dita dei piedi facendo un sorrisino. Cazzo. «So che non siamo partiti nel migliore dei modi, ma mi piacerebbe che fossi a tuo agio con me. Magari potresti perfino considerarmi un’amica». Come no. Non succederà mai. Sorrido. «So che pensi di essere una gran figa perché ti scopi Sebastian Osborne, ma credimi, non lo sei. Ti tollero solo perché devo farlo, quindi piantala con queste stronzate». Spalanca la bocca e le mie spalle si rilassano per aver stroncato con successo il suo tentativo di psicanalizzarmi. «Perché sei così incazzato?», mormora lei in cucina, più a se stessa che a me, con una sfumatura di stupore nella voce. «Gesù Cristo, perché tutti continuano a chiedermelo?». Mi fa incazzare ancora di più. «Zeke, anche se non c’è niente che ti preoccupa, forse ti farebbe bene parlare con Sebastian…». «Esci con Oz da ben cinque minuti. Fai un favore a entrambi e smettila di cercare di psicanalizzarmi. Posso anche essere suo amico, ma non sarò mai amico tuo». Marcio verso la porta, afferro la mia roba e mi metto lo zaino in spalla. Jameson resta a guardare la mia scia, con gli occhi sgranati e l’espressione… un po’ ferita. Be’, che cazzo, non ho tempo per queste cose. «Ho un appuntamento in biblioteca e non ho tempo per discutere di qualunque illusione tu abbia sul fatto che siamo amici, quindi risparmiati le chiacchiere per qualcun altro». Apro la porta con uno strattone e non le do una seconda occhiata. «Non aspettatemi alzati».
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