Aprile-2

2084 Words
Ah, che ne sarà di me, chissà che sorte mi aspetta! Questo mi tormenta, che non ho avvenire, che non posso nemmeno indovinare il mio domani. A guardare indietro, mi prendono i brividi. Guai, sempre guai, tanto che solo al ricordo mi si spezza il cuore. Ce l’avrò sempre, sempre con quella cattiva gente che mi ha rovinata! Si fa scuro. È ora di mettersi al lavoro. Molte cose avrei da scrivervi, ma non ho tempo. Bisogna che mi sbrighi per il giorno della consegna. Bella cosa le lettere; si scaccia almeno la noia. E dite un po’, perché da noi non ci venite mai? Perché, signor Makàr? Siamo a due passi, e qualche ora libera ce l’avete. Venite, fatemi il piacere! Ho veduto la vostra Tereza. Mi pare così cagionevole, poverina: le ho dato venti copechi. Ah sì, a proposito, me ne scordavo: scrivete tutto, con tutti i dettagli, di come vivete. Che persone sono quelle che vi stanno attorno? Ci andate d’accordo? Mi preme assai sapere ogni cosa per filo e per segno. Oggi appunterò apposta la tendina. Cercate di andare più presto a letto; ieri sera ho visto da voi il lume fino a mezzanotte. Addio, per ora. Che uggia stamani, che malinconia! Sarà giornata nera, vuol dire. Addio. Vostra Varvara Dobrosèlova 8 aprile Gentilissima signorina Varvara! Sì, amica mia cara, ho avuto il fatto mio: così era scritto, si vede. Capisco, il povero vecchietto vi ha fatto ridere. Colpa mia, tutta colpa mia! Non mi fossi cacciato, alla mia età, con quattro capelli che mi avanzano, a far l’amorino e lo sdolcinato... È proprio vero, amica mia cara, l’uomo è qualche volta un animale curioso, assai curioso! A momenti, non si sa come, si lascia pigliare la mano e ne sballa di tutti i colori. E che cosa ne viene fuori? Niente di niente, anzi un pasticcio tale che il Signore ci scampi e liberi! Io non me la sono presa a male, no; solo, mi dispiace quando ci ripenso, mi dispiace quando ricordo di avervi scritto tutte quelle stupidaggini. Anche oggi, andando in ufficio, mi sentivo così svelto e leggero che nemmeno un fringuello; mi pareva di andare a nozze. Un’allegria, una festa, così, senza un motivo al mondo. E con che furia mi sono attaccato alle mie cartacce! Ma quello che ne è seguito poi, non vi so dire... Quando, tornato in me, mi sono guardato attorno, tutto come prima, tutto grigio, tutto scuro! Gli stessi sgorbi, le stesse tavole, gli stessi fogli ammonticchiati, lo stesso povero diavolaccio che sono: e allora, che ragione c’era di montare in groppa al cavallo di Pegaso? Ma come spiegarlo, dico io? Forse perché c’era un po’ di sole? Forse perché era più sereno del solito? Bel gusto davvero parlare di profumi, quando nel cortile sotto le nostre finestre lo sa Dio se ce n’è per tutti i nasi! Vuol dire che ero scimunito e mi figuravo chissà che. Fatto sta che capita a tutti di sentirsi presi un bel giorno da una certa foga che ti fa scappare di bocca ogni sorta di spropositi. Questo può derivare soltanto dalla piena dei sentimenti, da una furia stupida del cuore. Sono tornato a casa mogio mogio, più strascicando che camminando; di botto, mi ha pigliato un gran mal di capo: la festa, si vede, doveva essere completa. Per giunta, ho sentito non so che freddo alla schiena. Contento come un matto che fosse venuta la primavera, mi ero alleggerito e avevo lasciato a casa il soprabito più pesante. Ma voi, anima mia, avete interpretato a rovescio quelle mie espansioni. La mia, vedete, era una tenerezza paterna, tutta paterna; perché io vi faccio le veci di padre, visto che purtroppo siete orfana: vi dico questo con tutto il cuore, con l’anima, come un parente vero e proprio. Comunque sia la cosa, anche se si tratta di parentela, diciamo così, annacquata, sempre parente vi sono, e adesso, anzi, parente prossimo e protettore; perché proprio lì dove avevate il diritto di cercare protezione e difesa, non avete trovato che perfidia e maltrattamenti. Quanto ai versi poi, vi dirò, figlia mia, che a questa età non è lecito darsi a certi esercizi. I versi sono una cosa stupida. Oggi, a scuola, anche i ragazzi ne fanno, e li sculacciano: ecco come sta la cosa, anima mia. Ma che mi venite a dire di comodi, di quiete, e che so altro? Io, vedete, non ho pretese, mi contento subito, e non sono mai stato meglio di adesso. Come volete che faccia lo schizzinoso ora che sono vecchio? Nutrito, vestito, calzato: ci mancherebbe che mi facessi pigliare dai fumi. Non discendo da duchi o baroni io! Mio padre non era nobile, e con tutta la famiglia sulle braccia, stentava la vita peggio di me. Non sono tanto delicato, io! Però, a dire tutta la verità, nell’alloggio di prima ci stavo meglio, assai meglio: c’era più come rigirarsi, ecco. Certamente, anche quello di adesso è buono, anzi in un certo senso è anche più allegro se volete, più vario: non dico di no, ma con tutto questo, torno sempre col pensiero a quell’altro. Noi vecchi, cioè, voglio dire, noi gente attempata, ci attacchiamo alle vecchie cose come se fossero sangue nostro. L’alloggio, in sostanza, era un bugigattolo, una scatola; le pareti erano... ma a che serve parlarne?... erano come tutte le pareti, non è di questo che si tratta; è che i ricordi di allora mi mettono addosso tanta, tanta tristezza... E dire che sono ricordi piacevoli. Curioso, vero? Perfino quel che c’era di brutto, e che a momenti mi faceva arrabbiare, mi torna in mente, dirò così, pulito, allegro, simpatico. Si viveva tranquilli io e la mia padrona, buon’anima. Anche il ricordo di quella vecchietta mi fa male al cuore. Brava donna se mai ce ne fu una, e mai esosa. Da mattina a sera non faceva che coperte di tanti scampoli di roba che lavorava a maglia con certi suoi ferri lunghi quasi un metro. Dividevamo la spesa del lume, sicché si lavorava insieme alla stessa tavola. Aveva una nipotina, Maša, mi pare di vederla, sarà adesso sui tredici anni: vispa, birichina, allegra; si viveva insieme tutti e tre. D’inverno, nelle lunghe serate, ci si sedeva intorno alla tavola, si sorbiva il tè, e poi al lavoro. E la vecchietta, per non far annoiare Maša e perché non ne facesse qualcuna delle sue, raccontava tante fiabe. E che fiabe! Non solo una bambina, anche un uomo sarebbe stato lì tutt’orecchi. Io accendevo la mia pipetta, e figuratevi, mi scordavo perfino del lavoro. La bambina poi, il nostro diavoletto, diventava tutta pensosa; poggiava sulla manina la guancia color di rosa, apriva la boccuccia, e quando la storia era di quelle paurose, si stringeva forte forte alla nonna. E che piacere a guardarla! Non ci si accorgeva della candela che si struggeva, non si sentiva il maltempo di fuori e il vento che infuriava. Si stava bene vi dico, Vàren’ka; e così si passarono insieme poco meno di vent’anni. Ma che gran chiacchierone sono io, eh? Forse a voi non piace quest’argomento, e poi anche non fa piacere ricordare queste cose, specialmente adesso che si fa scuro. Tereza si dà un gran da fare, ho sempre mal di capo, e la schiena pure mi tormenta un poco... Già, anche i pensieri mi pare che si lamentino di non so che cosa. Una giornata nera, insomma. Ma che idea è la vostra, amica mia? Come volete che venga a farvi visita? E che dirà la gente? Il cortile non si può fare a meno di attraversarlo; e quindi domande, ciarle, pettegolezzi, cattivi pensieri. No, sarà meglio che vi veda domani ai vespri: è più ragionevole e nessuno ci metterà bocca. E scusatemi, vi prego, se vi ho scritto una lettera così sconclusionata: me ne accorgo ora a rileggerla. Sono vecchio, Vàren’ka, non ho istruzione. Da giovane ho studiato poco, e adesso, se mi ci mettessi, non mi entrerebbe niente in testa. Confesso, amica mia, che le descrizioni non sono il mio forte, e so benissimo da me, senza che qualcun altro me lo dica e se ne rida, che se mi salta in mente di scrivere un po’ meno alla buona, non riesco ad azzeccare due parole come si deve. Oggi vi ho veduta alla finestra, quando avete abbassato la tendina. Addio, addio, che Dio vi protegga! Addio, signorina Varvara. Vostro sincero amico Makàr Dèvuškin P.S. Per oggi non scriverò satire su nessuno. Sono troppo vecchio per mostrare i denti senza ragione. E farei ridere gli altri di me. Voi sapete il proverbio: chi scava a un altro il fosso, ci casca lui per primo. 9 aprile Gentilissimo signor Makàr! Non vi vergognate, amico mio e benefattore, di farvi vincere dall’umor nero e per giunta dalle ubbie? Possibile che ve la siate presa a male? Ah, lo so, spesso sono imprudente; ma non mi figuravo che avreste preso le mie parole per uno scherzo cattivo. State sicuro che io non mi permetterò mai di ridere della vostra età e del vostro carattere. È stata leggerezza la mia, e poi anche la noia mortale che mi opprime; e allora a che non ci si appiglia? Io, poi, avevo supposto che anche voi nella vostra lettera intendeste scherzare. Se sapeste quanto mi ha fatto male sapervi in collera con me! No, mio buon amico e benefattore, sbagliate se credete di aver a che fare con una donna insensibile e ingrata. Io so apprezzare nel mio cuore tutto ciò che avete fatto per me, difendendomi da certa gente cattiva, dal loro odio e dalle loro persecuzioni. Io pregherò sempre Dio per voi, e se le mie preghiere saranno accette al cielo, non c’è dubbio che sarete felice. Oggi non mi sento affatto bene. Ora mi sento di fuoco, ora mi piglia il freddo. Fedora è molto inquieta per me. E avete torto, signor Makàr, con le vostre paure di venire da noi. Che importa alla gente? Siete una mia conoscenza, tutto qui!... Addio, signor Makàr. Non ho altro da scrivere, e poi non potrei: mi sento così male. Ancora una volta vi prego di non tenermi il broncio e di essere sicuro di tutto quel rispetto e quell’attaccamento, coi quali ho l’onore di ripetermi. Vostra obbligatissima e devotissima serva Varvara Dobrosèlova 12 aprile Gentilissima signorina Varvara, ah, figliola mia cara, che ostinazione è la vostra! Non passa giorno che non mi mettiate addosso una maledetta paura. Non mi stanco di ripetervi in ogni lettera di stare attenta alla salute, di coprirvi bene, di non andare fuori col maltempo, di essere prudente, e voi niente, non mi date retta. Proprio una bambina! Voi siete delicata, debole come un giunco, io lo so. Basta un venticello a farvi ammalare. Sicché badiamo, dico, a stare in guardia, ad avere più cura, a evitare i pericoli, a non dar dispiaceri ai nostri amici. Voi desiderate che io vi descriva per filo e per segno che vita faccio qui e tutto quel che mi circonda. Vi contento subito, amica mia. Comincerò dal principio, per dirvi le cose in ordine. Prima di tutto, le scale: quella nobile, diciamo così, è pulita, luminosa, larga, tutta ferro e noce. Non mi domandate però di quella di servizio: una misera scaletta a chiocciola, umida, sporca, scalcinata, le pareti così unte che la mano vi si attacca. A ogni pianerottolo, bauli, seggiole, stipi sgangherati, cenci appesi, vetri rotti, tinozze piene di ogni sorta di sudiciume, spazzatura, fango, gusci d’uova, interiora di pesce; un puzzo incredibile. Una brutta cosa, insomma. Di come sono disposte le camere ve l’ho già scritto: non si può dirle scomode, no; ma pare, non so, che non vi si respiri; non già che ci sia cattivo odore, ma così, un certo che di muffito, di dolciastro, che pizzica il naso. Di primo acchito l’impressione non è favorevole, ma non vuol dire: dopo due soli minuti, tutto passa senza che nemmeno te ne avvedi, perché quel certo odore si attacca alla persona, ai panni, alle mani, a ogni cosa. Ci si fa l’abitudine, insomma. I lucarini ci muoiono. Il sottotenente di marina ne ha già comprati cinque: non è aria per loro, ecco. La cucina è spaziosa, piena di luce. La mattina, a dir la verità, c’è un po’ di fumo, quando friggono il pesce o fanno l’arrosto, e buttano acqua per terra che pare un pantano. La sera, però, si sta in paradiso. A tante corde si vedono appesi panni di ogni sorta. E siccome la camera mia è poco lontana, anzi è attaccata alla cucina, l’odore della biancheria mi dà una certa noia. Ma in fondo è cosa sopportabile: dopo un po’ di tempo si fa l’abitudine a tutto.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD