1.

3108 Words
1. Juan non andava fiero della propria identità culturale, Lézard lo sapeva. Aveva allontanato da sé in ogni modo lo stereotipo dell’ispanico. La sua eleganza era sottotono, la sua capigliatura corvina non recava la minima traccia di gel, la sua carnagione era chiara, il suo accento privo di inflessioni spagnole, sua moglie era wasp. Nella sua ansia di nobilitarsi, avrebbe preferito essere scambiato per un europeo, magari per un inglese. Juan Barria mangiava regolarmente in compagnia di politici e uomini di potere, tuttavia, in fondo alla sua anima, temeva sempre che qualcuno lo accusasse di essere uno sporco latino. Avere legata attorno al collo una cravatta comprata a Bond Street lo aiutava ad allontanare questa paranoia. Probabilmente Juan non si rendeva conto fino in fondo della cosa, ma questo suo bisogno non giocava a suo vantaggio. Lézard, per esempio, era quasi sicuro che sarebbe andato a New Bond Street per prima cosa, quella sera. Aveva controllato la sua prenotazione del giorno successivo e sapeva che il suo volo partiva troppo presto perché facesse in tempo a comprarsi una cravatta quella mattina stessa. In quanto a lui, Lézard si era andato ad appostare sul tetto di un palazzo davanti all’entrata della stazione della metro di Bond Street. Il suo ragionamento poteva ripagarlo oppure no, ma Lézard non aveva fretta e poteva permettersi di aspettare a vuoto. Come tutti i killer, era molto paziente. Juan, si era detto, si sarebbe fatto portare in New Bond Street in taxi. La strada era stretta e quindi il taxi non l’avrebbe di certo potuto aspettare in zona. E non sarebbe certo andato in taxi alla sua destinazione successiva, con il rischio che l’autista si ricordasse di lui. Lézard sapeva come girava il mondo e aveva capito subito Juan era a Londra per liberarsi di qualcosa. Ora, che cosa era abbastanza piccolo da poter essere portato in un bagaglio a mano, abbastanza prezioso da valere un viaggio complicato come quello che si era sobbarcato Juan e, tra l’altro, maledettamente comune in Angola, luogo da cui Juan proveniva? Se fosse stata una risposta delle parole crociate la definizione sarebbe stata: sono piccoli, brillanti e sono i migliori amici delle ragazze, otto lettere. E una persona con un po’ di questi oggetti, fatti entrare illegalmente nel paese, dove poteva mai portarli, a Londra? Se fosse stata una risposta delle parole crociate la definizione sarebbe stata: ebreo, russo, più taccagno di Paperone. C’era solo una persona del giro di Juan, a Londra, che si occupava di quel genere di merce: Zinovev. Quindi Lézard si era andato a piazzare davanti all’entrata della metro che Juan avrebbe più probabilmente preso per andare nell’East End, da Zinovev, a vendere i suoi diamanti. In realtà era un po’ stupito che se ne stesse occupando di persona. Probabilmente le cose con sua moglie non andavano bene, ultimamente. La stazione di Bond Street aveva tre entrate su quattro che davano su Oxford Street. Tutte, in ogni caso, erano affollate di gente, contornate dai minuscoli banchetti dei giornalai, e vi stazionavano davanti varie persone che facevano volantinaggio. La gente si affollava giù per le scale con gli spigoli ricoperti di metallo antiscivolo e su metà delle pareti baluginavano le pubblicità di qualche prodotto o di qualche evento: un concerto, un musical, i nuovi iphone, l’ultimo film di supereroi. Visto che Juan sarebbe arrivato da New Bond Street, pensava Lézard, era probabile che scendesse nella metro nell’unica entrata che vi si apriva. E comunque ci sarebbe passato davanti. Certo, poteva sempre decidere che era troppo presto, proseguire verso Bond Street e verso la Piccadilly, e in quel caso Lézard avrebbe preso freddo per niente. Incerti del mestiere. +++ Tess McKannon avrebbe dovuto uscire dall’ufficio molto prima, ma si era trattenuta per riscrivere il testo di un annuncio, testo che doveva essere sulla scrivania del grande per il giorno dopo. Tre dei loro maglioni erano stati usati come costumi di scena in un film la cui prima ci sarebbe stata la sera successiva, e il capo voleva sfruttare la cosa nelle nuove pagine pubblicitarie. Tess aveva trentasei anni, era alta un metro e sessanta centimetri senza scarpe, ma indossava sempre un tacco otto, pesava cinquanta chili tondi-tondi e aveva i capelli castani tinti di castano. Il secondo castano era un pochino più scuro e un pochino più ricco del suo naturale. Aveva gli occhi grandi e azzurri, le lentiggini e vestiva come la tipica impiegata londinese di livello medio-alto. Si occupava di marketing per la Terri, Riversmeade & Sons, un’azienda che produceva vestiario di lana shetland, i cui uffici erano in Oxford Street. Quella mattina Tess si era infilata nella solita longuette grigio antracite, nella solita camicia avvitata bianca, coprendola con il solito maglione aderente grigio perla (TR&S) e si era messa un paio di scarpe scollate nere, con tacco otto e suola rosso scuro. La suola doveva farle sembrare Louboutin, anche se non lo erano. Il suo capo ufficio come al solito le aveva sbirciato il culo, ma come al solito non aveva avuto il coraggio di prendere una qualche iniziativa in proposito. Il che era un peccato, perché a Tess non sarebbe affatto dispiaciuto uscire con lui. Ma anche per quel giorno non sarebbe successo. Quando finalmente ebbe finito, ebbe stampato il testo e lo ebbe lasciato sulla scrivania del signor Riversmeade, prese il suo cappotto dal gancio e uscì dall’ufficio, spegnendosi le luci dietro. Oxford Street era umida e affollata come sempre. Branchi di turisti di varie nazionalità affollavano i larghi marciapiedi lastricati, intruppandosi davanti alle vetrine o nei negozi di souvenir. Impiegati in ritardo, come lei, facevano lo slalom tra teenagers e donne arabe, coalizzati nel bloccargli la via. Allo Starbucks la coda era lunga chilometri, così Tess rinunciò al suo mocaccino serale. La borsa ben stretta sotto braccio, si affrettò verso l’entrata della metropolitana. Il classico tizio male in arnese gridava a pieni polmoni di comprare Big Issue proprio davanti alle scale e poco più in basso, dove la folla confluiva dalla galleria commerciale e dagli altri ingressi, dei tizi distribuivano dei buoni sconto per McDonald’s. Tess non poté trattenere un sorriso notando che l’ingresso era tappezzato dei manifesti del film in cui comparivano (di sfuggita) tre dei maglioni Riversmeade. Doveva ammettere che il fatto che uno lo indossasse Anthony LaPaglia era abbastanza eccitante, anche se non come se l’avesse indossato il protagonista. Accantonando la questione, Tess proseguì per la sua strada. In prossimità dei tornelli tirò fuori l’Oyster card e… venne aggredita. +++ Goran e Brianna lasciarono il Majestic attorno alle sei di sera per andare a mangiare un boccone alla steakhouse su Oxford Street. Il loro fuso orario interno era così scombussolato che per loro, per l’esattezza, quello sarebbe stato il pranzo. Il cielo era grigio e il sole, che comunque non si era fatto vedere un granché neanche prima, era totalmente scomparso dietro l’abituale cortina di smog. Lo strato di nubi era pesante, soffocante, e faceva passare pochissima luce. Sembrava notte. Goran propose di arrivare al ristorante a piedi, camminando dentro Hyde Park fiancheggiando Bayswater Road fino a Marble Arch, lungo il Ring, ovvero la strada che passava all’interno del parco. Brianna, per quanto i suoi stivali con il tacco alto non fossero proprio l’ideale per le passeggiate, accettò di buon grado. Sperava solo che non li avrebbero chiusi dentro. L’aria della sera era umida, il rumore del traffico era quasi totalmente tagliato fuori dagli alberi, e qualche jogger all’ultimo stadio ansimava nell’estremo tentativo di tenersi in forma. Il cielo stava assumendo una sfumatura livida e all’ombra degli alberi era buio. Londra. Goran, in deferenza alla stretta gonna di lei e a un certo innato gusto per la lentezza, camminava piano, ascoltandola relazionare sugli impegni del giorno seguente. Brianna ricordava tutto a memoria. «Visto che passerai da Zinovev nella prima mattinata, tra le nove e le dieci, ti ho prenotato un posto al matinée della Bohème, alle undici. Il tuo aereo parte da Heathrow alle tre e un quarto ed atterrerà a Islamabad alle nove e trenta, ora locale». «Molto bene» commentò Goran. Brianna si strinse meglio nel suo elegante e avvitato cappotto nero, segno che sentiva freddo. L’umidità le aveva arricciato i capelli a lato della fronte, che erano sfuggiti alla sua impeccabile acconciatura raccolta. Quando aveva sentito per la prima volta il suo nome, Goran aveva pensato alla gigantessa bionda di quel telefilm con i draghi. Anche se il nome non era proprio uguale, ripensandoci. Solo quando l’aveva incontrata di persona aveva scoperto che era un’americana dal fisico statuario, bionda e abbronzata come un’attrice. «Ti ho noleggiato due ragazze per la notte dall’agenzia Red Soul, arriveranno alle dieci e mezza. Ho già parlato con la reception perché non vengano registrate. Ho chiesto due caucasiche senza nessuna particolare specializzazione, tra i diciotto e i ventitré. Spero che siano okay». Era in questi piccoli dettagli, pensò Goran, che si notava che era americana. Spero che siano okay. La sua ex assistente, Anja, avrebbe detto spero che vadano bene. Sorrise tra sé e sé. No, Anja avrebbe detto: visto che hai dei gusti di merda. Per un attimo se la vide davanti con tale chiarezza che avrebbe potuto essere lì. Gli occhi gli si velarono, ma fu veloce a ricacciare indietro la commozione. Il suo era un mestiere pericoloso, la gente che aveva attorno poteva morire. Anche lui stesso poteva morire. E per quanto gli dispiacesse che Anja fosse morta, questa nuova ragazza sembrava in gamba almeno quanto lei. «Vanno bene» disse. «In realtà non ha importanza. Non ho niente contro le asiatiche, le africane o le ragazze un po’ più anziane». «Okay» disse Brianna, facendo velocemente spallucce, e prese mentalmente nota. Goran sospirò. «Accidenti, mi manca Anja». Fece un gesto vago con la mano, e la sua fede di platino rifletté le luci arancioni dei lampioni già accesi. «Non fraintendermi: tu sei impeccabile, sono certo che sei stata un’ottima scelta, ma…» «Avete lavorato insieme per molti anni» concluse la sua frase interrotta, Brianna. Sul suo volto distaccato aleggiò un breve sorriso di comprensione. «Pensi che potrei essere stato innamorato di lei senza accorgermene?» chiese lui. Goran aveva questo modo diretto di fare domande che ti lasciava di sasso. Parlava di argomenti personali con disarmante facilità, ma, come Brianna aveva capito ben presto, confonderlo per un segno di debolezza o di sensibilità sarebbe stato un errore. «Non lo so» rispose, mantenendo il consueto tono neutro e disponibile. «Hai mai fantasticato di vivere accanto a lei?». Goran inarcò un sopracciglio. «Vivevo accanto a lei, come ora vivo accanto a te». Brianna scosse la testa e sorrise. «E con questo tu diresti che noi abbiamo una relazione romantica?». «No di certo. Capisco cosa intendi». Per alcuni minuti sembrò sprofondare in riflessioni private e Brianna si guardò bene dall’interromperlo. In lontananza poteva vedere l’uscita di Marble Arch, con l’arco circondato dal traffico parzialmente nascosto dalla vegetazione. «Non credo di essere mai stato innamorato di lei, però mi manca come amica. Indipendentemente dal fatto che fosse pagata per essermi amica». Goran si cacciò le mani in tasca e riprese a seguire i suoi pensieri. Londra gli ricordava un pachiderma impazzito. Rispetto a Mosca, naturalmente, era il massimo dell’ordine, ma a Goran non andava ugualmente del tutto a genio. Ne apprezzava, tuttavia, la civiltà e le comodità. «Come sta tuo figlio?» chiese, all’improvviso. «Bene. Ha trovato lavoro in una ditta di limousine». Quando l’aveva assunta Brianna gli aveva detto di avere un figlio – nato presumibilmente quando era molto giovane – che era cresciuto in un istituto. Goran non l’aveva mai visto e non gli interessava vederlo, tuttavia ogni tanto chiedeva di lui. Faceva parte del suo modo di dimostrarsi un capo comprensivo. «Cioè guida una limo?». «No, lavora negli uffici. E non sono le limo che pensi tu, sono grosse auto da otto o nove posti». «Capito» disse Goran. Erano ormai arrivati al cancello. Lui si guardò attorno per cercare l’ingresso del sottopassaggio che li avrebbe portati in Oxford Street. Lo individuò poco lontano e fece strada in quella direzione. «Non ti ho mai chiesto se andate d’accordo. Forse non ti fa piacere sentirne parlare». Brianna si strinse nelle spalle. Goran lo trovava un gesto seducente, malgrado Brianna fosse il tipo di donna bella ma fredda che non lo entusiasmava. Anche sua moglie era quel tipo di donna: algida, impeccabile, educata. Era facile andare d’accordo con quel genere di persona, ma era impossibile avere con loro un rapporto umano. Brianna, come Irina, sembrava aver rinunciato tempo addietro alla possibilità di essere felice, accontentandosi di essere soddisfatta. Goran si chiese oziosamente se quel gelo eterno potesse essere disciolto. Be’, di certo non da lui. Non ne aveva né la voglia, né il tempo. «Non abbiamo mai avuto un vero rapporto. Ma è pur sempre mio figlio». «Dovevi essere una ragazzina». Brianna scosse la testa e si concesse un mezzo sorriso. Le luci al neon del sottopassaggio rendevano la sua pelle quasi verdastra. Ovunque erano appesi i manifesti di un nuovo film sui supereroi. «Più una bambina». Poi uscì di nuovo all’aria aperta e il vento le fece scattare all’indietro quei due piccoli ciuffi che erano sfuggiti al suo rigore. Goran lasciò cadere l’argomento, annoiato. «Se ricordo bene la steakhouse dovrebbe essere da quella parte» disse. +++ Lézard era appostato sul suo tetto e con il fucile di precisione già appoggiato sul cavalletto quando sentì la prima goccia. Non si sorprese. Provò, piuttosto, la sensazione che la pioggia fosse un’ospite in ritardo, la cui presenza era comunque garantita. Metti un uomo su un tetto e digli di non muoversi per nessun motivo al mondo e guarda quanto tempo ci vuole prima che piova. Anche se quella non era nemmeno pioggia, solo una sottile, fastidiosa acquerugiola, alla quale i londinesi non facevano neppure caso. In strada, infatti, nessuno aveva aperto l’ombrello. Lézard aveva grande dimestichezza con quel tipo di pioggerellina – così come, in effetti, aveva grande dimestichezza con i tetti e le lunghe attese – e sapeva che nell’arco di pochi minuti avrebbe zuppato tutto peggio di un acquazzone, avrebbe reso viscido e scivoloso il grilletto del fucile, appannato il mirino e, infine, si sarebbe interrotta così come era iniziata. Non si scompose. Semplicemente, continuò ad attendere. E, finalmente, pochi minuti dopo l’inizio della sgocciolata, avvistò Juan che camminava a passo spedito verso l’entrata della metro. Teneva in mano uno dei sacchetti di carta verde e oro del negozio di cravatte. Lézard sorrise, calcolando la traiettoria. L’avrebbe colpito proprio davanti all’entrata, in modo che ruzzolasse giù dalle scale creando scompiglio. Questo gli avrebbe dato qualche secondo in più per darsela a gambe. Inquadrò attentamente la fronte pallida di Juan, poi spostò il fucile di qualche grado, puntandolo nel luogo in cui il suo bersaglio sarebbe stato di lì a pochi secondi. Il suo cuore batteva a ritmo regolare. Sarebbe stata, pensò Lézard, una morte spettacolare, in mezzo alla gente come Bob Kennedy. Sarebbe stata una bella morte, per il suo ex-amico Juan. Tra un respiro e l’altro, tra un battito del cuore e un altro, Lézard premette il grilletto. +++ Nessuno si accorse di nulla. La gente che premeva per entrare nella metro non udì il debole sibilo del colpo che arrivava, né il clang metallico che produsse quando, dopo aver colpito Juan, rimbalzò sulla parte antiscivolo di ferro di un gradino, per schizzare poi più in là come il tappo di una bottiglia di birra e andare a rimbalzare sul naso di Robert Downey Jr., su un manifesto. Nessuno notò l’uomo che era scivolato su un gradino reso viscido dall’acquerugiola. Nessuno notò che fece un giro completo su se stesso, prima di perdere l’equilibrio e incespicare, finendo giù dalle scale in modo scomposto. La prima a rendersi conto che qualcosa era successo fu Tess, a cui Juan piombò addosso. +++ Attraverso il mirino telescopico, Lézard guardò incredulo Juan che metteva un piede in fallo su un gradino umido, sbandava di qualche centimetro e si salvava la vita. Vide, ancora più incredulo, la pallottola sfiorargli la tempia, scavare un solco nella pelle, scivolare sull’osso e schizzare via. Non era impossibile, ma era comunque molto insolito. Lézard vide Juan fare un giro di trecentosessantacinque gradi su se stesso, come un birillo, e poi perdere l’equilibrio e rovinare giù per le scale, tenuto in piedi dalla calca ignara. Lézard sapeva che le probabilità che succedesse una cosa del genere erano meno di una su un milione, tuttavia non si scompose. Era possibile che Juan accusasse i sintomi di una forte botta in testa ed era quasi sicuro che si sarebbe reso conto di essere stato sfiorato dalla pallottola di un cecchino. Naturalmente avrebbe preso la sue contromisure. Lézard sospirò. Molto bene, si rassegnò stoicamente. Era chiaro che aveva la sfiga contro. Questo non significava che si sarebbe arreso. Non era la prima volta che uccideva qualcuno nonostante la sfiga. Era solo questione di continuare a provare. Downey Jr., là in basso, lo fissava con espressione stolida. Lézard asciugò la canna del fucile con un panno e iniziò a smontarlo. +++ Goran, nella steakhouse all’angolo tra Oxford Street e New Bond Street rimase per un istante con la forchetta a mezz’aria, guardando fuori dalla vetrina, dietro le spalle di Brianna. «Tutto okay?» chiese lei. Goran le sorrise automaticamente in segno di rassicurazione e riprese a mangiare. La verità era che, per una frazione di secondo, gli era sembrato di vedere il lampo di un fucile che sparava. Visto che però in strada non era successo niente era probabile che si trattasse di un riflesso su un vetro o vattelapesca. Oppure, pensò mentre un brivido gli scendeva lungo la schiena, di un tiro fallito di cui non si era accorto nessuno. Ma sicuramente si sbagliava, concluse, tornando a rivolgersi a Brianna. La luce calda del locale accarezzava la sua pelle e Goran si era perso più di una volta dentro la profonda scollatura del suo maglione blu petrolio. I suoi seni erano rotondi, dorati, piuttosto distanziati, e su uno era finita una goccia d’acqua di cui Brianna non si era accorta e che stava facendo impazzire Goran. Era già la trecentesima volta che provava l’impulso di asciugare quella maledettissima gocciolina – che restava lì sospesa in sprezzo alla forza di gravità – con la punta del dito. Se almeno fosse scivolata giù, perdendosi nel solco tra i due seni e scomparendo per sempre alla vista, Goran avrebbe provato per un attimo una fitta di desiderio immaginandone la traiettoria e la sensazione sulla pelle, ma poi il tormento sarebbe finito. «…e tua moglie ha telefonato per dire che questo week-end sarà alla dacia con i bambini» finì di relazionare lei. Goran distolse l’attenzione dalla gocciolina. «Buon per lei» commentò. Non che lui e Irina non andassero d’accordo, semplicemente non avevano niente da dirsi. L’aveva sposata solo perché ara la figlia del capo e lui, come non-russo, doveva migliorare la sua posizione nell’ Organizacija. «Non avrei neppure avuto tempo di vederla, questo week-end» aggiunse, rendendosi conto di aver fatto la figura dell’insensibile. «Le ho detto anche questo» riferì Brianna, servizievole. Goran posò coltello e forchetta e incrociò le mani sul tavolo. «Devo confessarti una cosa» disse, in tono serio. «Non ho ascoltato proprio tutto quello che mi hai detto, a causa di quella…» indicò con un gesto vago «…gocciolina, che mi sta facendo impazzire». Brianna abbassò lo sguardo sulla propria scollatura, perplessa. Poi rialzò gli occhi, divertita. Sogghignò (era la prima volta che lo faceva e Goran ne fu stupito) e rispose: «Con quello che mi pagi puoi disporre di quella gocciolina come meglio credi». Goran rise. «Allora lasciala lì» decise. «Prendiamo un dessert?».
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD