Può suonare stupido, specialmente se detto da un uomo di trentasei anni, ma sono nervoso all’idea di salutare il mio vicino. Sono stato via solo sei mesi, ma sono sembrati un’eternità.
Il detto dice più o meno così: non ti accorgi dell’importanza di qualcosa finché non la perdi. Ecco, quello è esattamente ciò che Auckland è stato per me. Sei mesi nella scatola degli oggetti smarriti e non riesco ancora a lanciare un’occhiata alla casa di Sam da quando sono tornato.
Non ho mai voluto rimanere in questo posto. Quando mi sono trasferito qui, sette anni fa, doveva essere qualcosa di temporaneo nell’attesa di trovare una sistemazione migliore. Immaginavo di vivere vicino al lavoro, in centro a Wellington. Ma poi…
Beh, poi sono arrivati i ragazzi della casa accanto…
Sono seduto nel solito angolo del divano a fissare lo schermo nero della televisione oltre il tavolino da caffè. La posta è sparsa accanto a me, una marea di parole fluttuanti che ora come ora non significano granché, e comunque non sono le parole che mi interessano.
Mi appoggio all’indietro, inarcando il tronco per arrivare alla tasca e prendere un foglio di carta piegato. È logoro e sporco negli angoli per il mio continuo rileggerlo. Le prime volte che l’ho aperto faceva rumore, dato che era nuovo, ma ora si apre in modo leggero e silenzioso come fosse un fazzoletto.
Ecco perché stare a Auckland è stato come vivere nella scatola degli oggetti smarriti. Ecco perché sono nervoso al pensiero di salutare Sam.
Sei mesi fa, prima di partire per dare una mano con una crisi famigliare, sono andato da lui per dargli le mie chiavi. Ha urlato dalla sua stanza che sarebbe sceso in un secondo, e mentre aspettavo in sala da pranzo, ho lanciato le chiavi sulla sua scrivania. Ma il lancio è stato troppo forte e sono scivolate sul piano, facendo cadere una pila di carte.
Le ho raccolte e una lista ha catturato il mio sguardo. Non saprei dire cosa mi abbia costretto a leggere – forse una curiosità sfrenata. Ma ho allungato la mano per prenderla, le ho dato una scorsa e quando sono arrivato alla fine ho inspirato a fondo, ho piegato velocemente il foglio con le mani che mi tremavano e me lo sono messo in tasca.
È con me da allora.
Era con me quando assistevo mia madre durante l’operazione e la convalescenza.
Era con me quando mia sorella ci ha detto che stava divorziando.
Era con me quando siamo andati a Orewa e abbiamo passeggiato sulla spiaggia.
Era con me per il caffè del mattino e la passeggiata del pomeriggio.
Era con me quando ho fatto coming out con la mia famiglia.
Era con me quando loro mi hanno risposto che ero stato un pazzo ad aspettare così tanto a confessarlo.
Era con me quando mi hanno chiesto se c’era qualcuno di speciale nella mia vita e io ho risposto sì senza esitazione, senza nemmeno pensarci.
Era con me quando mi hanno detto di portarlo a casa per poterlo conoscere.
Era con me quando non sono riuscito a dire che la mia persona speciale non sa di esserlo.
Era con me quando mi sono reso conto che lui e il figlio erano la ragione per cui non avevo ancora traslocato.
Era con me quando sono crollato di fronte alle continue lamentele di mia madre dicendo che le avrei presentato il mio ragazzo a Natale.
È con me adesso mentre mi chiedo se sarò all’altezza di mantenere questa promessa.
Liscio il foglio sulla gamba e leggo la lista di Cose da fare assolutamente prima dei 30 anni di Sam. Queste sono le parole che contano. Saltano fuori, mi catturano, mi chiedono di giocare. Sono parole che mi fanno sorridere, mi fanno piangere, mi fanno eccitare, mi fanno innervosire.
Leggere i libri che avrei dovuto leggere a scuola.
Stare alzato tutta la notte a ballare.
Ubriacarmi, mettere gli occhiali da sole e mangiare tortine di mele.
Uscire con qualcuno e andare in bagno al momento di pagare.
Avere un appuntamento con qualcuno di dieci anni più vecchio.
Flirtare, divertirsi, non innamorarsi,
Fare qualcosa di strano ai capelli.
Nuotare con gli squali bianchi?
Provare uno sport.
Interessarsi alla scuola.
Capire Kanye West. Chi diavolo è Kanye West? Scoprirlo.
Essere maledettamente in forma. Sollevare pesi prima di andare a lavoro.
Ho la punta delle dita ferme sull’ultima riga. Se non le tenessi lì non sarei in grado di leggere il resto. Quest’ultima riga è quella più rumorosa, quella per cui le mie budella si torcono, quella che mi fa sentire come se fossi lanciato in caduta libera. Quella che mi fa scervellare… quella che mi trasmette un’energia nervosa ma piena di speranza.
Piano piano sposto il dito e il mio sguardo si posa subito lì.
Fare del sesso trasgressivo. (O semplicemente sesso.)
Scorro il pollice ancora e ancora sulla riga e mi rimprovero perché penso a quello. Al come fare a convincere Sam a fare sesso proibito – con me. Potremmo prenderla come un gioco. Potremmo chiamarlo sperimentare. E in futuro potremmo snobbarla come una delle pazzie fatte prima dei trenta…
Sospiro. È solo un espediente. Lo voglio. Non lo voglio.
Mi sfioro la fronte con il foglio, come se potessi cancellarlo. È meglio avere e poi perdere che non avere nulla, giusto?
Sette anni che siamo amici, vicini, fratelli… e mi ci è voluta solo una settimana a Auckland da solo per far sì che mi mancasse da morire tanto da volerlo lì. Amo lui, Jeremy, la nostra routine insieme.
Amo noi.
So che è ridicolo pensare che se Sam sfatasse il tabù con me si innamorerebbe come per incanto. So che le cose non vanno così nella vita reale.
Ma non riesco a scacciare quel pensiero fastidioso dalla testa. E se lo facesse?
È questo piccolo pensiero che mi fa fare progetti. Che mi dice di provocare… ci voglio provare. Voglio essere sicuro.
Bussano alla porta e balzo in piedi. Ripiego in fretta il foglio, lo rimetto in tasca e vado ad aprire.
Lì c’è la mia persona speciale, che tiene in mano una pentola con uno strofinaccio e un guanto da forno.
Mi guarda con i suoi occhi neri incorniciati da folte ciglia, e una leggera brezza gli accarezza la fronte. «Luke!»
Metto da parte l’ansia e faccio un respiro. «Ehi.»