CAPITOLO IV-1

2079 Words
CAPITOLO IV Una mattina di dicembre, mentre andava a lezione di procedura, Federico ebbe l'impressione che in rue Saint-Jacques ci fosse più animazione del solito. Gli studenti uscivano a precipizio dai caffè o si chiamavano di casa in casa dalle finestre spalancate; i negozianti erano usciti sui marciapiedi e guardavano inquieti; venivan giù saracinesche. Arrivato in rue Soufflot, vide che molta gente s'era raccolta attorno al Pantheon. In drappelli più o meno nutriti, da cinque a dodici, giovanotti andavano avanti e indietro tenendosi a braccetto e accostandosi, ogni tanto, ai gruppi più numerosi che s'eran formati qua e là; in fondo alla piazza, contro le cancellate, uomini in camiciotto tenevano concione mentre le guardie, cappello a tricorno sull'orecchio e mani dietro la schiena, giravano rasente ai muri battendo sonoramente il selciato con i robusti stivali. Tutti quanti avevano un'aria tra compresa e sbalordita; chiaro che si stava aspettando qualcosa, era come se tutti avessero una domanda sulla punta della lingua. Federico era venuto a trovarsi vicino a un giovane biondo, di bell'aspetto, che portava baffi e barbetta come un elegantone dei tempi di Luigi XIII. Si rivolse a lui chiedendogli quale fosse la causa del disordine. «Io non ne so niente,» ribatté quello scoppiando a ridere, «e loro nemmeno. Adesso, si usa così. Che razza di commedia!» Le petizioni per la riforma elettorale sottoposte alla firma della Guardia Nazionale, il censimento ordinato da Humann, e qualche altro avvenimento ancora, avevano provocato a Parigi, da sei mesi in qua, un susseguirsi di misteriose adunanze, così fitto che i giornali non ne parlavano neanche più. «Tutto questo non ha né linea né colore,» continuò il vicino di Federico. «Opino, mio signore, che si stia non poco degenerando. Ai tempi del buon Luigi decimoprimo, e di messer Constant eziandio, c'era maggior spirito fazioso tra gli scolari. Costoro mi paion pacifici come pecore e sciocchi come rape, buoni a farsi droghieri, in fede mia! E questa sarebbe la famosa gioventù studentesca...» Allargò le braccia con enfasi, come Federico Lemaître nella parte di Robert Macaire. «Gioventù studentesca, eccoti la mia benedizione.» E poi, a uno straccivendolo che frugava dentro un mucchio di gusci d'ostriche, proprio stilla soglia di un vinaio: «Ehi, sei anche tu membro della Gioventù studentesca?» Il vecchio voltò in su una faccia ripugnante frammezzo a una barba grigiastra, il naso era paonazzo, gli occhi da avvinazzato non avevano espressione. «No, no, tu mi hai piuttosto l'aria d'uno di quei figuri d'aspetto patibolare, intenti ad aggirarsi tra la folla seminando oro a piene mani... Semina pure, nobile patriarca, semina a tuo piacimento, corrompimi con i tesori d'Albione! Are you English? Io non ricuso i doni d'Artaserse. E dimmi un po', che ne pensi dell'unione doganale?» Federico si sentì toccare alla spalla, si voltò. Era Martinon, incredibilmente pallido. «E così,» disse con un gran sospiro, «ancora una sommossa.» Temeva d'esser compromesso, era tutto un lamento. Più che altro lo tenevano in ansia certi uomini in camiciotto, affiliati, a suo dire, a qualche società segreta. «Perché, credete che esistano le società segrete?» Intervenne il giovane baffuto. «Ma se son favole inventate dal Governo per spaventare i borghesi!» Martinon lo supplicò di parlar piano: la polizia... «Ah, lei ci crede, alla polizia? E chi le dice, signore, che non sia io stesso una delle loro spie?» E lo fissò con un cipiglio tale che Martinon, spaventatissimo, ci mise un po' a capire lo scherzo. La folla li premeva; si eran dovuti rifugiare, tutti e tre, sui gradini della piccola scala che portava attraverso un corridoio all'anfiteatro nuovo. A un tratto, la moltitudine s'aprì da sola: più d'una testa fu scoperta; passava l'illustre professor Rondelot. Infagottato nella sua redingote, agitando in aria i suoi occhiali cerchiati d'argento, soffiando a fatica il suo respiro d'asmatico, il professore se ne andava tranquillo a far lezione. Quell'uomo era una delle glorie giudiziarie del secolo, il rivale degli Zachariae e dei Ruhdorff. La fresca dignità di pari di Francia non aveva alterato le sue abitudini, il suo stile di vita. Lo si sapeva povero, e il rispetto che lo circondava era grande. Ciononostante, dal fondo della piazza partì qualche grido: «Abbasso Guizot!» «Abbasso Pritchard!» «Abbasso i venduti!» «Abbasso Luigi Filippo!» La folla, oscillando, premeva contro la porta chiusa del cortile e impediva così al professore di andar oltre. Lo si vide fermo ai piedi della scaletta, poi sul più alto dei tre gradini. Cominciò a parlare, ma un clamore sordo copriva la sua voce. Amato fino al momento prima, adesso lo si odiava, dato che impersonava l'Autorità. Ogni volta che cercava di farsi sentire, ricominciavano a gridare. Allora, fece un largo gesto per invitare gli studenti a seguirlo: gli rispose una vociferazione universale. Il professore alzò sdegnosamente le spalle e s'infilò nel corridoio. Martinon, approfittando del varco, era scomparso a sua volta. «Un bel vigliacco,» disse Federico. «Un uomo prudente,» ribatté il compagno. La folla era scoppiata in un applauso. Ai suoi occhi, la ritirata del professore era una vittoria. Le finestre eran gremite di curiosi. Qualcuno intonava la Marsigliese; altre voci proponevano d'andare sotto le finestre di Béranger. «Di Laffitte!» «Di Chateaubriand!» «Di Voltaire!» Esclamò il giovane dai baffi biondi. Le guardie, aggirandosi a stento tra la folla, cercavano di far la voce dolce: «Via, signori, via, circolare!» Qualcuno gridò: «Abbasso gli assassini!» Dopo gli incidenti di settembre, era un'ingiuria usuale. Tutti la ripresero urlando. Crebbe lo schiamazzo, s'infittirono i fischi contro i custodi dell'ordine pubblico che cominciavano a impallidire. Uno perse la testa e quando un ragazzino gli si fece, ridendo di sfida, addirittura sotto il naso, gli assestò uno spintone così brusco da farlo ricadere lungo disteso a cinque passi di distanza, davanti alla bottega del vinaio. La folla arretrò di colpo; ma quasi nello stesso istante anche la guardia stramazzò a terra sotto il pugno d'una specie di Ercole la cui capigliatura saltava fuori, rigida come stoppa, da un berretto di tela cerata. Il tipo, che era fermo da qualche minuto all'angolo di rue Saint-Jacques, aveva mollato in un lampo lo scatolone che portava per slanciarsi sulla guardia e ora, tenendola inchiodata a terra sotto di lui, gli lavorava il viso a forza di pugni. Accorsero le altre guardie; il tremendo garzone era così forte che ce ne vollero più di quattro per domarlo. Due lo tiravano per il bavero, altri due per le braccia, un quinto gli appioppava delle ginocchiate nelle reni; così facendo, non smettevano di dargli del brigante, dell'assassino, del rivoltoso. Col petto nudo, i vestiti a brandelli, lui si protestava innocente; non aveva potuto, a sangue freddo, veder picchiare un ragazzo. «Mi chiamo Dussardier, sto dai fratelli Valinçart, moda e ricami, in rue de Cléry. Dov'è finito il mio scatolone? Voglio il mio scatolone!» E ripeteva: «Dussardier! Rue de Cléry! Lo scatolone!» Si calmò, alla fine, e con aria stoica si lasciò condurre verso il posto di guardia di rue Descartes. Un fiotto di gente gli andò dietro. Federico e il giovane baffuto lo seguivan da presso, pieni d'ammirazione per lui e di disgusto per le violenze del Potere. Man mano che avanzavano, la folla s'andava assottigliando. Le guardie, di tanto in tanto, si giravano con aria feroce e dato che gli agitatori non avevan più niente da fare, i curiosi niente da vedere, a poco a poco se ne andavano tutti. Incrociando il gruppo, qualche passante squadrava Dussardier e s'abbandonava ad alta voce a commenti oltraggiosi. Una vecchia, affacciandosi a una porta, gli diede persino del ladro di pane; un'ingiustizia così palese accrebbe l'irritazione dei due amici. Giunsero, alla fine, davanti al posto di guardia. Non c'era più che una ventina di persone. La vista dei soldati bastò a disperderle. Federico e il suo compagno chiesero arditamente il rilascio dell'uomo testé, imprigionato. Il funzionario li minacciò, se insistevano, di cacciar dentro anche loro. Chiesero del comandante e declinarono le loro generalità, precisando ch'erano studenti in legge e affermando che il prigioniero era loro condiscepolo. Furono fatti entrare in una stanza coi muri a calce, affumicati, dove non c'era nient'altro all'infuori di quattro panche. Sul fondo, si schiuse uno sportello: apparve la larga faccia di Dussardier che coi capelli in disordine, gli occhietti leali e il naso un po' quadrato in punta ricordava confusamente la fisionomia bonaria d'un cane. «Non ci riconosci?» Lo interrogò Hussonnet. Tale era il nome del giovane baffuto. «Ma io...» balbettava Dussardier. «Dai, non fare il cretino,» lo interruppe l'altro; «lo sanno benissimo che sei uno studente in legge, come noi.» A dispetto delle loro strizzate d'occhio, Dussardier non si raccapezzava. Parve riflettere, poi tutt'a un tratto: «Hanno trovato il mio scatolone?» Federico, scoraggiato, alzò gli occhi al cielo. E Hussonnet, pronto: «Ah, sì, la tua scatola, quella dove tieni gli appunti delle lezioni. Certo, certo, sta' tranquillo.» Raddoppiaron le smorfie. Alla fine, Dussardier si rese conto ch'erano venuti per aiutarlo, e s'azzittì, per paura di comprometterli. E poi, provava un certo imbarazzo nel vedersi elevato al rango sociale di studente, uguale a quei giovani che avevano le mani così bianche. «Dobbiamo dir qualcosa a qualcuno da parte tua?» Gli chiese Federico. «No, no, grazie, a nessuno!» «Ma, e i tuoi?» Il poveraccio abbassò la testa senza rispondere; era bastardo. I due amici se ne stavan lì, sbalorditi del suo silenzio. «Hai da fumare?» Riattaccò Federico. Dussardier, dopo essersi frugato addosso, estrasse dal fondo della tasca i resti d'una pipa, una bella pipa di schiuma col cannello di legno nero, il coperchio d'argento e il bocchino di ambra. Erano tre anni che ci lavorava, per ricavarne un capolavoro. Aveva avuto cura di custodirne costantemente il fornello in una foderina di camoscio, di fumarla il più adagio possibile, di non appoggiarla mai sul marmo; tutte le sere, l'appendeva a capo del letto. Adesso se ne rigirava i pezzi fra le mani, con le unghie che gli sanguinavano, contemplando a bocca aperta - il mento sul petto, lo sguardo fisso e indicibilmente malinconico - le rovine del suo tesoro. «Senti, se gli dessimo dei sigari?» Suggerì a bassa voce Hussonnet, facendo il gesto di tirarne fuori. Federico aveva già posato sul bordo inferiore dello sportello un portasigari pieno. «Su, prendi. Addio coraggio!» Dussardier si gettò sulle due mani che gli venivano tese. Stringendole freneticamente, ripeteva fra i singhiozzi: «Ma come! per me... per me!» I due amici si sottrassero alla sua riconoscenza e, usciti, andarono a far colazione da Tabourey, di fronte al Lussemburgo. Senza smettere di affondare il coltello in una bistecca, Hussonnet rivelò al compagno che lavorava per alcuni giornali di mode e faceva della pubblicità per L'Art industriel. «Da Jacques Arnoux,» disse Federico. «Lo conosci?» «Sì... no. Cioè, l'ho visto, l'ho conosciuto.» Con aria distratta, chiese a Hussonnet se gli capitava di vedere anche la moglie. «Qualche volta,» rispose il giovane artista. Federico non ebbe il coraggio di fare altre domande; di colpo, quel tipo aveva preso un posto incommensurabile nella sua vita. Pagò il conto della colazione senza che l'altro accennasse alla minima protesta. La simpatia era reciproca; si scambiarono gli indirizzi e Hussonnet invitò Federico ad accompagnarlo fino in rue de Fleurus. Erano in mezzo al giardino quando l'impiegato di Arnoux si stravolse tutto in una smorfia raccapricciante e si mise, tenendo il fiato, a fare il verso del gallo. Tutti i galli dei dintorni gli fecero eco con insistenza. «È un segnale,» spiegò Hussonnet. Nei pressi del teatro Bobino, si fermarono davanti a una casa preceduta da un viale. Sotto il tetto del granaio, fra pianticine di nasturzio e rampicanti, una giovane donna in sottoveste, a capo scoperto, venne ad appoggiarsi sull'orlo della grondaia. «Buongiorno, angelo mio, buongiorno, dolcezzina,» fece Hussonnet mandandole dei baci. Diede un calcio per spalancare il cancello di legno, e scomparve. Per una settimana, Federico aspettò che si facesse vivo. Non osava andare a casa sua, per non aver l'aria di volersi far ricambiare la colazione; ma lo cercava in tutto il quartiere latino. Una sera lo incontrò e lo fece andare da lui, sul quai Napoléon. Fu una lunga chiacchierata; s'abbandonarono a confidenze. Hussonnet aspirava alla gloria teatrale e ai relativi guadagni. Collaborava a vaudevilles che nessuno metteva in scena; aveva in mente “un sacco di soggetti”; componeva couplets, e gliene canticchiò qualcuno. Avvistati nella libreria dei volumi di Hugo e di Lamartine, si diffuse in sarcasmi sulla scuola romantica. Eran poeti, quelli, che non avevano né buon senso, né senso della proprietà; soprattutto, non eran francesi! Lui si vantava di conoscerla, la sua lingua; e si riempiva la bocca di espressioni perfette con la severità un po' acida e il gusto accademico di chi, naturalmente incline alla bizzarria e all'umorismo, decide di accostarsi all'arte “seria”. Federico si sentì ferito nelle sue predilezioni; gli veniva voglia di mandar tutto all'aria. Perché non arrischiare subito, senza indugio, la parola alla quale era legata la sua felicità? Chiese allo scrittorello se non poteva introdurlo da Arnoux. Era facile; si misero d'accordo per il giorno dopo. Hussonnet disertò l'appuntamento; ne disertò, di seguito, altri tre. Un sabato, verso le quattro, comparve. Ma per sfruttare la carrozza fece una fermata, prima, al Théâtre-Français, dove ritirò un biglietto di loggione; si fece accompagnare dal sarto, dalla pantalonaia; scriveva biglietti da lasciare qua e là nelle portinerie. Alla fine, arrivarono in boulevard Montmartre. Federico fu condotto attraverso la bottega, su per la scaletta. Arnoux lo riconobbe nello specchio che aveva davanti allo scrittoio e, senza smetter di scrivere, gli strinse la mano da sopra la spalla.
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