Proemio-8

2001 Words
Forse fu piú vera e sustanzievole predica questa di questo fraticello che non sono quelle de' gran teologhi, che metteranno con le loro parole li ricchi usurai in Paradiso, e sapranno che mentono per la gola; e sia chi vuole, che se un ricco è morto, abbia fatto tutti e' mali che mai furno, niuna differenzia faranno dal predicare di lui al predicare di San Francesco; però che piagentano per empiersi di quello delli ignoranti che vivono. NOVELLA XXIIIMesser Niccolò Cancellieri per esser tenuto cortese fa convitare molti cittadini, e innanzi che vegna il dí del convito è assalito dall'avarizia, e fagli svitare. Questo inganno che questo frate fece con coverte parole a fare tenere un uomo santo, che non v'era presso, non volle usare in sé messer Niccolò Cancellieri, cavaliere dabbene, salvo che era avarissimo. Il quale volendo coprire in sé questo vizio, nell'ultimo si penteo, e nol fece. Questo cavaliero fu da Pistoia, uomo sperto e cortigiano, stato e usato quasi il piú della sua vita con la reina Giovanna di Puglia, e con li signori e baroni di suo tempo e di quello paese. Essendo tornato costui a Pistoia, e facendo là sua dimora, fu stimolato e pinto dalli suoi prossimani, dicendo: — Deh, messer Niccolò, voi sete un cavaliero d'assai, se non che l'avarizia vi guasta; fate un bello corredo, e mostrate a' Pistolesi non essere avaro come sete tenuto. Tanto gli dissono che costui fece invitare bene otto dí innanzi tutti li notabili uomeni di Pistoia a mangiare una domenica mattina seco. E cosí fatto, quando giugne al quinto dí, che s'appressava al tempo di comprare le vivande, una notte fra sé medesimo pensò e fondossi pur su l'avarizia, però che il dí vegnente dovea cominciare a sciogliere la borsa, dicendo in sé medesimo: “Questo corredo mi costerà cento fiorini, o piú; e se io ne facesse cinquanta come questo, serebbe uno: non fia che sempre io non sia tenuto avaro. E per tanto, poiché 'l nome dell'avarizia non si dee spegnere, io non sono acconcio per spenderci denaio”. E cosí prese per partito che la mattina, levato che fu, chiamò quel medesimo famiglio che per sua parte avea invitato li cittadini, e disse: — Tu hai la scritta con che tu invitasti que' cittadini a desinare meco; recatela per mano, e come tu gl'invitasti, va', e svitali. Dice il famiglio: — Doh, signore mio, guardate quello che voi fate, e pensate che onore ve ne seguirà. Dice il cavaliere: — Bene sta; onore con danno al diavol l'accomanno; va', e fa' quello che io ti dico; e se alcuno ti domanda la cagione, rispondi che io mi sono pensato ch'io perderei la spesa. E cosí andò il fante, e cosí fece, laonde molti dí se ne disse in Pistoia, facendo scherne al detto messer Niccolò. Il quale, essendogli manifesto, dicea: — Io voglio innanzi che costoro dicano male di me a corpo vòto, che a corpo satollo del mio. Io non so se questa fu maggiore cattività che quella che averebbono fatto gli svitati, quando avessono avuto li corpi pieni, che forse con grandissime beffe di lui averebbono patito quelle vivande, dicendo: — Ben potrà spendere, e fare conviti, ché cosa sforzata pare e sempre avaro fia tenuto. El cavaliere si rimase nella sua misertà e fuori della pena del convito, che non li fu piccola. Ebbe questo difetto, il quale nel mondo sopra li piú regna per sí fatta forma ch'egli è forse cagione delli maggiori mali che si commettono nel cerchio della terra. NOVELLA XXIVMesser Dolcibene al Sepolcro, perché ha dato a uno Judeo, è preso e messo in un loro tempio, là dove nella feccia sua fa bruttare i Judei. Se nella precedente novella il cavaliere non volle ingannare altrui e mostrare sé essere quello che non era, cosí in questa messer Dolcibene mostrò e fece credere certamente a certi Judei il falso per lo vero. Come addietro è narrato, messer Dolcibene andò al Sepolcro; e come egli era di nuova condizione, e vago di cose nuove, venendo a parole con uno Judeo, perché dicea contro a Cristo, schernendo la nostra fede; dalle quali parole vennono a tanto che messer Dolcibene diede al Judeo di molte pugna; onde fu preso e menato a gran furore, dove fu serrato in un tempio de' Judei. Venendo in su la mezza notte, essendo tristo e solo cosí incarcerato, gli venne volontà d'andare per lo bisogno del corpo, e non potendo altro luogo piú comodo avere, nel mezzo del tempio scaricò la soma. La mattina di buon'ora vennono certi Judei, e apersono il tempio, dove nel mezzo dello spazzo trovorono questa bruttura. Come la viddono, cominciano a gridare: — Mora, mora lo cristiano maladetto, che ha bruttato lo tempio dello Dio nostro. Messer Dolcibene, essendo da costoro assalito e preso, avendo gran paura, disse: — Io non fui io; ascoltatemi, se vi piace: stanotte in su la mezza notte io senti' gran romore in questo luogo; e guardando che fosse, e io vidi lo Dio vostro e lo Dio nostro che s'aveano preso insieme e dàvansi quanto piú poteano. Nella fine lo Dio nostro cacciò sotto il vostro, e tanto gli diede che su questo smalto fece quello che voi vedete. Udendo li Judei dire questo a messer Dolcibene, dando alle parole quella tanta fede che aveano, tutti a una corsono a quella feccia, e con le mani pigliandola, tutti i loro visi s'impiastrarono, dicendo: — Ecco le reliquie del Dio nostro. E chi piú si studiava di mettersene sul viso, a quello parea essere piú beato; e lasciando messer Dolcibene, n'andorono molti contenti, con li visi cosí lordi: e ancora procurando per lui, però che la tal cosa con gran verità avea loro revelata, il feciono lasciare. Molto fu piú contento messer Dolcibene ch'e' Judei; però che fu molto novella da esaltare un suo pari e da guadagnare di molti doni, raccontandola a' signori e ad altri. E io credo ch'ella fosse molto accetta a Dio, e che in quello viaggio non facesse cosa tanto meritoria che quelli increduli dolorosi s'imbruttassino in quelle reliquie che allora meritavano. NOVELLA XXVMesser Dolcibene per sentenzia del Capitano di Forlí castra con nuovo ordine uno prete, e poi vende li testicoli lire ventiquattro di bolognini. La seguente novella di messer Dolcibene, della quale voglio ora trattare, fu da dovero, dove la passata fu una beffa. Nel tempo che messer Francesco degli Ardalaffi era signor di Forlí, una volta fra l'altre v'arrivò messer Dolcibene: e volendo il detto signore per esecuzione fare castrare un prete, e non trovandosi alcuno che 'l sapesse fare, il detto messer Dolcibene disse di farlo elli. Il capitano non averebbe già voluto altro, e cosí fu fatto. E messer Dolcibene fece apparecchiare una botte, e sfondata dall'uno de' lati, la mandò in su la piazza facendo là menare il prete, ed elli col rasoio e con uno borsellino andò nel detto luogo. Giunti là e l'uno e l'altro, e gran parte di Forlí tratta a vedere, messer Dolcibene avendo fatto trarre le strabule al prete, lo fece salire su la botte a cavalcioni, e li sacri testicoli fece mettere per lo pertugio del cocchiume. Fatto questo, ed elli entrò di sotto nella botte, e col rasoio tagliata la pelle, gli tirò fuora e misseli nel borsellino, e poi gli si mise in uno carniere, però che s'avvisò, come malizioso, di guadagnare, come fece. Il prete doloroso, levato di su la botte, ne fu menato cosí capponato a una stia, e là alquanti dí si fece curare. Il capitano di queste cose tutto godea. Avvenne poi alquanti dí che uno cugino del prete venne a messer Dolcibene in segreto, pregandolo caramente che quelli granelli gli dovesse dare, ed elli farebbe sí che serebbe contento; però che 'l prete capponato sanza essi dire messa non potea. Messer Dolcibene, aspettando questo mercatante, gli avea già misalti e asciutti, e quanto gli dicesse, e come gli mercatasse, egli n'ebbe lire ventiquattro di bolognini. Fatto questo, con grandissima festa disse al capitano che cosí fatta mercanzia avea venduta; e 'l sollazzo e la festa che 'l capitano ne fece non si potrebbe dire. E in fine, per diletto e non per avarizia, della quale fu nimico, disse che volea questi denari e che elli apparteneano a lui. Messer Dolcibene si poteo assai scuotere, ché convenne che tra le branche di Faraone si cavassono lire dodici di bolognini, dando la metade al detto capitano. E cosí rimase la cosa che 'l prete se n'andò senza granelli dell'uno de' quali ebbe il capitano lire dodici, e messer Dolcibene altrettanti dell'altro. Questa fu una bella e nuova mercanzia: cosí delle simili si facessono spesso, ché ne serebbe molto di meglio il mondo; e che fossono tratti a tutti gli altri, acciò che, ricomperandosi, avessono l'uno e l'altro danno, e poi gli si portassono in uno borsellino, che almeno non serebbono li viventi venuti a tanto che bandissono ogni dí le croci sopra le mogli altrui, e che tenessono le femmine alla bandita, chiamandole chi amiche, chi mogli e chi cugine; e li figliuoli che ne nascono, loro nipoti gli battezzano, non vergognandosi d'avere ripieni li luoghi sacri di concubine e di figliuoli nati di cosí dissoluta lussuria. NOVELLA XXVIBartolino farsettaio fiorentino, trovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo, e col maestro Dino da Olena, insegna loro trarre il sangue, ecc. La dottrina che seguita non fu meno maestrevole che quella di messer Dolcibene, la quale usoe Bartolino farsettaio, trovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo e con maestro Dino da Olena, ragionando d'assai cose da diletto con loro, però che come fossono scienziati, erano non meno piacevoli che Bartolino. Fra l'altre cose che costui disse a questi due medici, fu che gli domandò se sapeano come si traea il sangue al peto. Udendo li due valentri uomeni questo, cominciano ad entrare nelle risa per sí fatta forma che quasi rispondere non poteano; pur in fine dissono che no, ma che volentieri l'apparerebbono. Disse Bartolino: — Che volete che vi costi? Disse il maestro Tommaso: — Voglio che ogni volta che tu avrai male, esser tenuto di medicarti in dono. E 'l maestro Dino disse che gli volea essere obbligato che ogni volta si volesse far fare uno farsetto non farlo mai fare per altra mano che per la sua. Disse Bartolino allora: — E io sono contento; state attenti, e io ve lo mostreroe testeso. E subito fece un peto nell'acqua del bagno, il quale immantenente gorgogliando venne a galla e fece una vescica. E Bartolino come vide la vescica: — Ora vi converrebbe avere la saettuzza e darvi entro. Quanti ne avea nel bagno, delle risa furono presso che affogati, e li medici piú che gli altri. Io scrittore non so qual fosse meglio, o quello che promissono questi medici a Bartolino, o quello che Bartolino insegnò loro. Come che fosse, onestamente Bartolino riprese l'arte loro, che tanto ne sanno molti quanto Bartolino ne 'nsegnò loro, o meno. NOVELLA XXVIIMarchese Obizzo da Esti comanda al Gonnella buffone che subito vada via, e non debba stare sul suo terreno; e quello che segue. Il Gonnella piacevole buffone, o uomo di corte che vogliamo dire, mostrò al marchese da Ferrara non meno che Bartolino. Però che avendo il detto buffone commessa alcuna cosa piccola contro al marchese Obizzo, o per avere diletto di lui, gli comandò espressamente che sul suo terreno non dovesse stare; ché se vi stesse, gli farebbe tagliare la testa. Di che il Gonnella, nuovo come egli era, se ne andò a Bologna, e là accattoe una carretta, e su vi misse terreno di quello de' Bolognesi, e detto e accordatosi col guidatore della carretta del pregio, vi salí suso e ritornò in su questa carretta dinanzi al marchese Obizzo. Il quale, veggendo venire il Gonnella in sí fatta maniera, si maravigliò e disse: — Gonnella, io t'ho detto che tu non debba stare sul mio terreno, e tu mi vieni su una carretta dinanzi. Che vuol dire questo? ha' mi tu per cosí dappoco? E disse a' famigli suoi che 'l pigliassono a furore. Disse il Gonnella: — Signor mio, ascoltatemi per Dio, e fatemi ragione, facendomi impiccare per la gola, se io ho fallato.
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