lagnarsi: come va, signorina, che il mio bambino ha perso la penna? Com’è che il mio non impara niente? Perché non dà la menzione al mio, che sa tanto? Perché non fa levar quel chiodo del banco che ha stracciato i calzoni al mio Piero? Qualche volta s’arrabbia coi ragazzi la maestra di mio fratello, e quando non ne può più, si morde un dito, per non lasciare andare una pacca; perde la pazienza, ma poi si pente, e carezza il bimbo che ha sgridato; scaccia un monello di scuola, ma si ribeve le lacrime, e va in collera coi parenti che fan digiunare i bimbi per castigo. È giovane e grande, la maestra Delcati, e vestita bene, bruna e irrequieta, che fa tutto a scatto di molla, e per nulla si commuove, e allora parla con grande tenerezza. - Ma almeno i bimbi le si affezionano? - Le ha detto mia madre. - Molti sì, - ha risposto, - ma poi finito l’anno, la maggior parte non ci guardan più. Quando sono coi maestri, si vergognano quasi d’esser stati da noi, da una maestra. Dopo due anni di cure, dopo che s’è amato tanto un bambino, ci fa tristezza separarci da lui, ma si dice: - Oh di quello lì son sicura; quello lì mi vorrà bene. - Ma passano le vacanze, si rientra alla scuola, gli corriamo incontro: - O bambino, bambino mio! - E lui volta il capo da un’altra parte. - Qui la maestra s’è interrotta. - Ma tu non farai così, piccino? - Ha detto poi, alzandosi con gli occhi umidi, e baciando mio fratello, - tu non volterai il capo dall’altra parte, non è vero? Non la rinnegherai la tua povera amica.
Mia madre 10, giovedì
In presenza della maestra di tuo fratello tu mancasti di rispetto a tua madre! Che questo non avvenga mai più, Enrico, mai più! La tua parola irriverente m’è entrata nel cuore come una punta d’acciaio. Io pensai a tua madre quando, anni or sono, stette chinata tutta una notte sul tuo piccolo letto a misurare il tuo respiro, piangendo sangue dall’angoscia e battendo i denti dal terrore, chè credeva di perderti, ed io temevo che smarrisse la ragione; e a quel pensiero provai un senso di ribrezzo per te. Tu, offendere tua madre! Tua madre che darebbe un anno di felicità per risparmiarti un’ora di dolore, che mendicherebbe per te, che si farebbe uccidere per salvarti la vita! Senti, Enrico. Fissati bene in mente questo pensiero. Immagina pure che ti siano destinati nella vita molti giorni terribili: il più terribile di tutti sarà il giorno in cui perderai tua madre. Mille volte, Enrico, quando già sarai uomo, forte, provato a tutte le lotte tu la invocherai, oppresso da un desiderio immenso di risentire un momento la sua voce e di riveder le sue braccia aperte per gettarviti singhiozzando, come un povero fanciullo senza protezione e senza conforto. Come ti ricorderai allora d’ogni amarezza che le avrai cagionato, e con che rimorsi le sconterai tutte, infelice! Non sperar serenità nella tua vita, se avrai contristato tua madre. Tu sarai pentito, le domanderai perdono, venererai la sua memoria; inutilmente; - la coscienza non ti darà pace, quella immagine dolce e buona avrà sempre per te un espressione di tristezza e di rimprovero che ti metterà l’anima alla tortura, O Enrico, bada: questo è il più sacro degli affetti umani; disgraziato chi lo calpesta. L’assassino che rispetta sua madre ha ancora qualcosa di onesto e di gentile nel cuore; il più glorioso degli uomini che l’addolori e l’offenda non è che una vile creatura. Che non t’esca mai più dalla bocca una dura parola per colei che ti diede la vita. E se una ancora te ne sfuggisse, non sia il timore di tuo padre, sia l’impulso dell’anima che ti getti ai suoi piedi, a supplicarla che col bacio del perdono ti cancelli dalla fronte il marchio dell’ingratitudine. Io t’amo, figliuol mio; tu sei la speranza più cara della mia vita; ma vorrei piuttosto vederti morto che ingrato a tua madre. Và, e per un po’ di tempo non portarmi più la tua carezza; non te la potrei ricambiare col cuore.
Tuo padre
Il mio compagno Coretti 13, domenica
Mio padre mi perdonò; ma io rimasi un po’ triste, e allora mia madre mi mandò col figliuolo grande del portinaio a fare una passeggiata sul corso. A metà circa del corso, passando vicino a un carro fermo davanti a una bottega, mi sento chiamare per nome, mi volto: era Coretti, il mio compagno di scuola, con la sua maglia color cioccolata e il suo berretto di pelo di gatto, tutto sudato e allegro, che aveva un gran carico di legna sulle spalle. Un uomo ritto sul carro gli porgeva una bracciata di legna per volta, egli la pigliava e la portava nella bottega di suo padre, dove in fretta e in furia la accatastava.
- Che fai Coretti? - Gli domandai.
- Non vedi? - Rispose, tendendo le braccia per pigliar il carico; - ripasso la lezione.
Io risi. Ma egli parlava sul serio, e presa la bracciata di legna, cominciò a dire correndo: Chiamansi accidenti del verbo... le sue variazioni secondo il numero... secondo il numero e le persone...
E poi buttando giù la legna e accatastandola. - ... secondo tempo ...secondo il tempo a cui si riferisce l’azione. - E tornato verso il carro a prendere un’altra bracciata: - ... secondo il modo con cui l’azione è enunciata.
Era la nostra lezione di grammatica per il giorno dopo. - Che vuoi? - Mi disse, - metto il tempo a profitto. Mio padre è andato via col garzone per una faccenda. Mia madre è malata. Tocca a me scaricare. Intanto ripasso la grammatica. È una lezione difficile oggi. Non riesco a pestarmela in testa.
Mio padre ha detto che sarà qui alle sette per darvi i soldi, - disse poi all’uomo del carro.
Il carro partì. - Vieni un momento in bottega, - mi disse Coretti. Entrai: era uno stanzone pieno di cataste di legna e di fascina, con una stadera da una parte. - Oggi è giorno di sgobbo, te lo accerto io, - ripigliò Coretti; - debbo fare il lavoro a pezzi e a bocconi. Stavo scrivendo le proposizioni, è venuta gente a comprare. Mi sono rimesso a scrivere, eccoti il carro. Questa mattina ho già fatto due corse al mercato della legna, in piazza Venezia. Non mi sento più le gambe e ho le mani gonfie! Starei fresco se avessi il lavoro di disegno! - E intanto dava un colpo di scopa alle foglie secche e ai fuscelli che coprivano l’ammattonato.
- Ma dove lo fai il lavoro, Coretti? - Gli domandai.
- Non qui di certo, - riprese: - vieni a vedere; - e mi condusse in uno stanzino dietro la bottega, che serve da cucina e da stanza da mangiare, con un tavolo in un canto, dove ci aveva i libri e i quaderni, e il lavoro incominciato. - Giusto appunto, - disse, - ho lasciato la seconda risposta per aria: col cuoio si fanno le calzature, le cinghie... ora ci aggiungo le valigie. E prese la penna, si mise a scrivere con la sua bella calligrafia. - C’è nessuno? - S’udì gridare in quel momento dalla bottega. Era una donna che veniva a comprar fascinotti. - Eccomi, rispose Coretti; e saltò di là, pesò i fascinotti, prese i soldi, corse in un angolo a segnar la vendita in uno scartafaccio, e ritornò al suo lavoro dicendo: - Vediamo un po’ se mi riesce di finire il periodo. - E scrisse: le borse da viaggio, gli zaini per i soldati. - Ah, il mio povero caffè che scappa via - gridò all’improvviso, e corse al fornello a levare la caffettiera dal fuoco. - È il caffè per la mamma, - disse; - bisognò bene che imparassi a farlo. Aspetta un po’ che glielo portiamo; così ti vedrà, le farà piacere. Sono sette giorni che è a letto... Accidenti del verbo! Mi scotto sempre le dita con questa caffettiera. Che cosa ho da aggiungere dopo gli zaini per i soldati? Ci vuole qualche altra cosa e non la trovo. Vieni dalla mamma. -
Aperse un uscio, entrammo in un’altra camera piccola; c’era la mamma di Coretti in un letto grande, con un fazzoletto bianco intorno al capo.
- Ecco il caffè, mamma, - disse Coretti, porgendo la tazza, - questo è un mio compagno di scuola.
- Ah! Bravo il signorino, - mi disse la donna; - vieni a far visita ai malati, non è vero?
Intanto Coretti accomodava i guanciali dietro le spalle di sua madre, raggiustava le coperte del letto, riattizzava il fuoco, cacciava il gatto dal cassettone. - Vi occorre altro, mamma? - Domandò poi, ripigliando la tazza. - Li avete presi i due cucchiaini di sciroppo? Quando non ce ne sarà più farò una scappata dallo speziale. Le legna sono scaricate. Alle quattro metterò la carne sul fuoco, come avete detto, e quando passerà la donna del burro le darò otto soldi. Tutto andrà bene, non vi date pensiero. -
- Grazie, figliuolo, - rispose la donna; - povero figliuolo, và! Egli pensa a tutto.
Volle che pigliassi un pezzo di zucchero, e poi Coretti mi mostrò un quadretto, il ritratto in fotografia di suo padre vestito da soldato, con la medaglia al valore, che guadagnò nel ‘66, nel quadrato del principe Umberto; lo stesso viso del figliuolo, quegli occhi vivi e quel sorriso così allegro. Tornammo alla cucina. - Ho trovato la cosa, - disse Coretti, e aggiunse sul quaderno: si fanno anche i finimenti dei cavalli. - il resto lo faccio stasera, starò levato fino a tardi. Felice te che hai tutto il tempo per studiare e puoi ancora andare a passeggio! - E sempre gaio e lesto, rientrato in bottega, cominciò a mettere dei tozzi di legno sul cavalletto e a segarli per mezzo, e diceva: - Questa è ginnastica! Altro che la spinta delle braccia avanti. Voglio che mio padre trovi tutte queste legna segate quando torna a casa: sarà contento. Il male è che dopo aver segato faccio dei t e degli l , che paion serpenti, come dice il maestro. Che ci ho da fare? Gli dirò che ho dovuto muovere le braccia. Quello che importa è che la mamma guarisca presto, questo sì. Oggi sta meglio, grazie al cielo. La grammatica la studierò domattina al canto del gallo. Oh! Ecco la carretta coi ceppi! Al lavoro. -
Una carretta carica di ceppi si fermò davanti alla bottega. Coretti corse fuori a parlare con l’uomo, poi tornò. - Ora non posso più tenerti compagnia, - mi disse; - a rivederci domani. Hai fatto bene a venirmi a trovare. Buona passeggiata! Felice te. -
E strettami la mano, corse a pigliare il primo ceppo, e incominciò a trottare fra il carro e la bottega, col viso fresco come una rosa sotto il suo berretto di pel di gatto, e vispo che metteva allegrezza a vederlo.
Felice te egli mi disse. Ah, no, Coretti, no: sei tu il più felice; tu, perché studi e lavori di più, perché sei più utile a tuo padre e a tua madre, perché sei più buono, cento volte più buono e più bravo di me, caro compagno mio.
Il Direttore 18, venerdì
Coretti era contento questa mattina perché è venuto ad assistere al lavoro d’esame mensile il suo maestro di seconda. Coatti, un omone con una grande capigliatura crespa, una gran barba nera, due grandi occhi scuri, e una voce da bombarda; il quale minaccia sempre i ragazzi di farli a pezzi e di portarli per il collo in Questura, e fa ogni specie di facce spaventevoli; ma non castiga mai nessuno, anzi sorride sempre dentro la barba, senza farsi scorgere. Otto sono, con Coatti, i maestri, compreso un supplente, piccolo e senza barba, che pare un giovinetto. C’è un maestro di quarta, zoppo, imbacuccato in una grande cravatta di lana, sempre tutto pieno di dolori, e si prese quei dolori quando era un maestro rurale, in una scuola umida, dove i muri gocciolavano.
Un altro maestro studiò da avvocato e prese la laurea, e fece anche un libro per insegnare a scrivere le lettere. Invece quello che c’insegna la ginnastica è un tipo di soldato; è stato con Garibaldi, e ha sul collo la cicatrice d’una ferita di sciabola toccata alla battaglia di Milazzo. Poi c’è il Direttore, alto, calvo, con gli occhiali d’oro, con la barba grigia che gli viene sul petto, tutto vestito di nero e sempre abbottonato fin sotto il mento; così buono coi ragazzi, che quando entrano tutti tremanti in Direzione, chiamati per un rimprovero, non li sgrida, ma li piglia per le mani, e dice tante ragioni, che non dovevano far così, e che bisogna che si pentano e che promettano di essere buoni, e parla con tanta buona maniera e con una voce così dolce, che tutti escono con gli occhi rossi, più confusi che se li avesse puniti. Povero Direttore, egli è sempre il primo al suo posto, la mattina, ad aspettare gli scolari e a dar retta ai parenti, e quando i maestri son già avviati verso casa, gira ancora intorno alla scuola a vedere se i ragazzi non si caccino sotto le carrozze, o non si trattengano per le strade a far querciola, o a empire gli zaini di sabbia o di sassi; e ogni volta che appare a una cantonata, così alto e nero, stormi di ragazzi scappano da tutte le parti, piantando lì il giuoco dei pennini e delle bilie, ed egli li minaccia con l’indice, da lontano, con la sua aria amorevole e triste. - Nessuno lo ha più visto ridere, dice mia madre, dopo che gli è morto il figliuolo, ch’era volontario nell’esercito; - ed egli ha sempre il suo ritratto davanti agli occhi, sul tavolo della Direzione. E se ne voleva andare dopo quella disgrazia; aveva già fatto la sua domanda di riposo al Municipio, e la teneva sempre sul tavolino, aspettando di giorno in giorno a mandarla, perché gli rincresceva di lasciare i fanciulli. Ma l’altro giorno pareva deciso, e mio padre, ch’era con lui nella Direzione, gli diceva: - Che peccato che se ne vada, signor Direttore! - quando entrò un uomo a far iscrivere un ragazzo che passava da un’altra Sezione alla nostra perché aveva cambiato di casa. A vedere quel ragazzo, il Direttore fece un atto di meraviglia; lo guardò un pezzo, guardò il ritratto che tiene sul tavolino, e tornò a guardare il ragazzo, tirandoselo tra le ginocchia e facendogli alzare il viso. Quel ragazzo somigliava tutto al suo figliuolo morto. Il Direttore disse: - Va bene; - fece l’iscrizione, congedò padre e figlio, e restò pensieroso. - Che peccato che se ne vada! - Ripeté mio padre. E allora il Direttore prese la sua domanda di riposo, la fece in due pezzi, e disse: - Rimango.