1.-1

2041 Words
1. La foresta era fitta, con il sottobosco così intricato che dovevamo aprirci la via con la spada. Owen era davanti a tutti. Intravedevo i suoi lunghi capelli chiari, intrecciati e ingarbugliati, dopo ore di quell’avanzata massacrante. Dietro di lui, dieci lagarresi, tutti umani, armati fino ai denti. Il loro capitano era una montagna d’uomo, con il viso così pieno di cicatrici che i lineamenti si vedevano a stento. Confesso che mi piaceva. Si chiamava Rodd, il nome proprio non ero ancora riuscita a scoprirlo. In quei giorni facevo fatica a non distrarmi. La natura mi chiamava, debolmente, ma incessantemente. Era la primavera che stava arrivando. Cercai di concentrarmi sul cammino. La foresta, come dicevo, era così fitta che avanzare era difficile. I tronchi degli alberi, scuri nella nebbia della notte, sembravano continuare all’infinito, alti, spessi, tutti uguali. Le felci e i rovi che si contendevano il sottobosco erano un unico intrico incolore. E se io non riuscivo a vedere meglio di così mi chiedevo che cosa riuscissero a scorgere gli umani davanti a me. Poco dopo, in effetti, sentii Rodd parlottare con Owen e ci fermammo. Owen saltò elegantemente fino a me. «I lagarresi non ci vedono» dissi. Lui sospirò e annuì. «In realtà, neanch’io vedo un granché. Forse dovresti essere tu ad aprire la strada». Mi rivolse un sorriso dispettoso. «Se non fossi così deboluccia». Sbuffai. «Io non ho bisogno di aprirmi il passaggio a colpi di spada». In quel momento si avvicinò anche Rodd. Era... sarà stato due metri. Due metri di muscoli, spalle larghe, cicatrici e mascolinità pura. «Davvero?» ridacchiò Owen. «Davvero riusciresti a scivolare attraverso un sottobosco del genere?». Mi strinsi nelle spalle. «Mi farei qualche graffio» ammisi. Guardai verso l’alto, pensierosa. La nebbia ristagnava a qualche metro di altezza. «In ogni caso sono d’accordo. Tanto vale aspettare che sorga la luna. Quelle catapulte non andranno da nessuna parte». Rodd mi guardò con espressione seria. «E gli uomini sono stanchi, madame Elli. Sono allenati, sono forti... ma non hanno la resistenza di un elfo». «Elli e basta» lo interruppi. Sentivo la primavera, certo, ma lui era uno degli esseri umani più succulenti che avessi mai visto. Rodd sorrise. «Elli» ripeté. «Si tratta al massimo di mezz’ora». «Ho già detto che sono d’accordo. L’unico che vorrebbe continuare a oltranza è Owen. Mancheranno cinque o sei miglia. Non abbiamo fretta». Ci accucciammo tra le felci, stanchi e silenziosi. L’umidità era micidiale, anche se per fortuna non era troppo freddo. In lontananza si sentiva il richiamo stridulo di una civetta, ma per il resto il bosco era silenzioso. Potevo percepire a grandi linee che era tutto tranquillo, ma specialmente percepivo i germogli che premevano sulla corteccia per spuntare, la primavera che si avvicinava. Certo, in quel momento, con quella nebbia e quell’umidità, non si sarebbe proprio detto. «Cinque o sei miglia?» disse una voce, a un paio di metri da me, tra le felci. La voce di Rodd. «Più o meno» risposi. Poi scivolai fluidamente tra le foglie, per sedermi accanto a lui. Lui rise sottovoce, un po’ stupito. «Allora è vero». «Che cosa?». «Che riusciresti a sgusciare tra queste maledette piante». Sorrisi. «Le felci sono più comprensive dei rovi». «Averti qua con noi...» iniziò lui, ma fu interrotto da un suono lontano. Owen si alzò di scatto, poco più avanti di noi. «Un corno». Posai la mano sul tronco di un albero. Sentii la foresta come un’eco, ma molto di più sentii l’euforia e l’eccitazione della primavera che stava per arrivare. Annaspai e Rodd mi sostenne per un gomito. «No, no...» gli dissi, dolcemente, svincolandomi. «È il risveglio, capisci? Non toccarmi. Non ora». Lui sembrò confuso e forse anche un po’ offeso, ma in quel momento non avevo tempo di occuparmene. «Non capisco... la foresta è tranquilla. Un cacciatore solitario? Ma che senso ha?». Owen saltò elegantemente su un ramo basso, per poi saltare ancora, fino a scomparire oltre la nebbia. «Oh, questo sì che ci aiuterà» borbottò Rodd, sarcastico. Aveva ragione. Owen non poteva vedere proprio niente, dalla cima di un albero. Solo la foresta e la nebbia che aleggiava a qualche metro da terra. Era un elfo bianco, quello non era il suo ambiente. «Lo so» sospirai. «E prima... perché hai... voglio dire: hai toccato quel tronco e sembrava che stessi per cadere. Che cosa hai fatto?». Gli rivolsi una lunga occhiata. Non sapevo che cosa riuscisse a vedere, in quel buio. Non sapevo se poteva rendersi conto che avevo il respiro accelerato, la fronte leggermente sudata e, sotto alla camicia di lino, i capezzoli eretti. «Ho ascoltato la foresta, ma, sai... è quasi primavera. È una sensazione potente, quella del risveglio». I suoi occhi scivolarono sul mio corpo, segno che, sì, ci vedeva a sufficienza. «Ma stai bene?». «Sto bene» confermai. Owen atterrò con un tonfo tra noi. «Niente. Troppa nebbia» disse, come ci aspettavamo. «Ma tu hai ascoltato il bosco, è vero?». Sospirai. «Per quanto possibile, Owen. È quasi primavera». «Ah» fece lui. «Oh» aggiunse, a voce più bassa, quasi imbarazzato. «Be’, se ci fossero un sacco di uomini in marcia lo sapresti, no? Però non capisco il corno». Neanch’io lo capivo. Di solito si suona il corno per richiamare un gran numero di persone. Oppure, sì, potevano essere dei cacciatori, ma l’orario era sbagliato e con tutti i posti in cui andare a caccia perché venire proprio in quel bosco così intricato? «Forse era il verso di un animale» disse Rodd, poco convinto. «Credo di saper riconoscere il suono di un corno» replicò Owen, piccato. Forse avrebbero iniziato a battibeccare – eravamo tutti con i nervi a fior di pelle – ma non ne ebbero modo. Dalle frasche spuntarono... cose. Decine e decine. Mi servì qualche secondo per capire che erano goblin dei boschi. La loro pelle tra il verde e il grigio si mimetizzava perfettamente ed erano silenziosi. Estrassi la spada, e la affondai in quello più vicino a me. Il loro sangue era nero, la loro pelle spessa. Lo sentii gemere di dolore. Un suono acuto, simile a un guaito. Continuò ad attaccarmi, anche ferito. Attorno a me i lagarresi combattevano con le loro grandi spade d’acciaio. Owen incoccava e scoccava, con la precisione tipica di quelli della sua razza. Lo persi di vista, perché dovevo difendermi. I goblin che mi attaccavano erano diventati tre. Vedevo i loro denti giallastri nell’oscurità e questo era più o meno tutto quello che riuscivo a distinguere. E vedevo le loro asce che guizzavano, i loro stiletti che affondavano. Erano piccoli esseri ributtanti, lo sapevo anche senza vederli, ma erano forti. Non capivo come potessero essermi sfuggiti. Erano goblin dei boschi, è vero, ma avrei dovuto sentirli lo stesso. «Owen, attento!» gridai, quando mi resi conto che lo stavano circondando. Se ne rese conto anche lui e provò a saltare verso l’alto. Lo afferrarono. Cercai di farmi largo tra i miei nemici per andare in suo aiuto, ma quelli mi sbarrarono la strada. Feci ruotare la spada nell’aria con tutte le mie forze. Ne colpii uno, forse due. Era una bolgia senza senso. Non riuscivo nemmeno a capire quanti fossero. Ma erano troppi, alla fine fu chiaro. Vidi la bella testa bionda di Owen infilzata su una picca, sollevata come un trofeo. Mille mani ossute mi strinsero, mi tirarono via, mi immobilizzarono. Ancora una volta i denti giallastri di uno di loro e poi... il buio. +++ Le ore seguenti furono tra le peggiori della mia vita. Non so quantificare con precisione quanto tempo fosse passato, ma quando mi svegliai la notte non era ancora finita e io ero legata e immobilizzata con la magia, su un carro pieno di... cadaveri. Ero stata buttata sopra ai corpi dei lagarresi morti e, dalla mia posizione, ero in grado di vedere l’orrendo squarcio sul collo di Rodd, così profondo che la sua testa era quasi staccata. Non avrei mai più saputo il suo nome proprio. Il carro era trainato da una coppia di cavalli piuttosto nervosi, sia per il carico che trasportavano, sia per i goblin che avevano attorno. La luna era sorta e ora riuscivo a vedere meglio i loro corpi grigiastri. Erano bassi, magri e sgraziati, ma muscolosi, con le teste troppo grandi e le braccia troppo lunghe. Erano esseri disgustosi, ancora più disgustosi dei troll o degli orchi, perché davano l’impressione di essere viscidi. I goblin dei boschi avevano un odore pungente di foglie marce e gli occhi piccoli, tondi, quasi bianchi. La parte più ripugnante, tuttavia, era la bocca, con le fila di denti gialli e rozzi. Continuai a guardarli correre avanti e indietro accanto al carro, gridandosi cose nella loro lingua gutturale. D’altronde, non potevo fare nient’altro. Avevo i polsi e le caviglie legati così stretti da aver perso la sensibilità alle mani e ai piedi. E qualcuno mi aveva gettato addosso un incanto. Sembrava un incanto umano, ma non potevo esserne sicura. Mi resi conto che stavamo andando verso Est. Avrei voluto piangere. Non lo feci. Avrei voluto essere morta, ma non ero stata così fortunata. Non sapevo dove mi stessero portando, ma la direzione in cui ci muovevamo e la loro stessa razza erano indicatori sufficienti. Stavamo andando verso le Terre dell’Est e io sarei stata consegnata agli uomini di Syryt Thygarest, che mi avrebbero interrogata e torturata per farsi dire ciò che sapevo sulla Città della Luce e sul nostro Consiglio. Se fossi stata fortunata (ah!) i goblin che ci avevano attaccati non si sarebbero resi conto di chi fossi e mi avrebbero semplicemente venduta come schiava. L’idea non era certo molto confortante, ma era meglio dell’alternativa. Non ci credevo per prima. A un certo punto persi di nuovo i sensi. Mi risvegliai quando qualcuno mi sollevò rudemente dal materasso di cadaveri su cui ero stesa, per buttarmi dentro un altro carro, questa volta chiuso. La buona notizia era che qua non c’erano cadaveri. Anzi, ero l’unica occupante del carro. La cattiva notizia era che la persona che mi aveva sollevata era un essere umano ed ero quasi sicura che indossasse le insegne nere di Syryt Thygarest. +++ Tutto confermò i miei peggiori timori. Quando mi fecero scendere dalla carrozza coperta, diverse ore più tardi, il sole stava calando dietro a dei torrioni di pietra. Anche se non avevo mai visto quel posto prima, sapevo che era la Cittadella, la sede del potere delle Terre dell’Est. Per quel che ne sapevo, la Cittadella sorgeva al centro di Quay, la capitale. Era cinta da alte mura ed entrarvi era stato considerato impossibile dagli uomini del Consiglio. Certo, a meno di non essere un prigioniero come me. Gli uomini dalle insegne nere mi slegarono i piedi, ma non ebbi realmente bisogno di camminare, dato che due di loro mi afferrarono per i gomiti, uno per parte, e mi trascinarono via. «Se sei fortunata ci vediamo dopo» mi disse uno, alitandomi in faccia. Il suo fiato era paragonabile a quello di un goblin. Mi trascinarono lungo un cortile polveroso, fino a un piccolo ingresso posteriore. Qua fui presa in consegna da ben quattro uomini. Questi erano di un’altra pasta, rispetto a quelli che mi avevano portata fin lì. Dovevano essere guardie di palazzo. Erano uomini alti, dal portamento elegante, vestiti con delle impeccabili uniformi nere e argentate. Non mi parlarono e mi fecero segno di andare con loro. Due si misero ai miei lati, due dietro di me. Attraversammo un lungo atrio di pietra, spuntando in una corte interna. A quel punto mi trovai ai piedi del mastio del castello. Venni fatta entrare da un’altra porticina di servizio e scortata lungo un corridoio spoglio, di certo usato dalla servitù. Sbucammo in un grande salone elegante, che attraversammo. Imboccammo un altro corridoio, coperto di velluto e magnifici arazzi. In fondo al corridoio, davanti a una grande porta chiusa, due guardie in nero e un uomo anziano, dritto, dal viso severo. Quando mi fermai davanti a lui il vecchio si chinò leggermente e mi guardò negli occhi. I suoi erano color del ghiaccio, freddi, inumani. «Madame Elli Nakril. È un vero piacere averla con noi» disse, con vago sarcasmo. «Non ne dubito» risposi io. Cercai di capire chi fosse. Certamente non Syryt Thygarest, ma forse un suo servitore personale. Potevo riuscire a ucciderlo, con le mani legate e circondata da quattro guardie? Be’, no. Rinunciai a qualsiasi tentativo avventato. Mi avevano tenuta in vita fino a quel momento... di certo volevano interrogarmi, ma non potevo escludere che volessero scambiarmi con qualche nostro prigioniero. In quel caso non me la sarei cavata tanto male. «Il nostro signore ha insistito per vederti subito» aggiunse l’uomo, abbandonando la finta cerimoniosità, «cerca di comportarti civilmente». Detto questo, aprì le grandi porte e mi fece segno di entrare. Era un altro salone, lungo e un po’ buio. Il pavimento era di lucido granito scuro, le pareti si perdevano nell’ombra, illuminate dalla luce guizzante di diversi candelabri. Sul fondo, in cima a tre gradini, c’era il trono, di legno di mogano. Sopra il trono, Syryt Thygarest.
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