Volo numero 547, proveniente da Las Americas, Repubblica Dominicana, in arrivo a Torino CaselleAveva un borsalino nero.
La frangia dei capelli che le faceva una virgola sotto.
Guardava dritto verso di lui e sorrideva con gli occhi.
Lidia sì; e quel giorno c’era vento.
Perlomeno c’era una bandiera sullo sfondo, tesa verso l’orizzonte. Forse era il millenovecentonovantacinque. Forse no. Era passato tanto tempo. Quattordici anni. Uno dietro l’altro come anelli di una catena. Una catena ancora salda nonostante le notti e i giorni così disparati e diversi da averli persi nella memoria.
Il commissario Paludi, quarantotto anni il giorno dei Santi, ripose la foto là dove era sempre stata. Sulla scrivania. Quindi tornò in cucina.
Sopra al tavolo un dito di polvere, due piatti, due bicchieri, le impronte del passaggio di un gatto. Trip hop con la cassa in quattro. La voce nera di una donna che scollava dalla ritmica e arrivava fino al bordo della finestra.
– Do you know my dream baby?...
Ma da lì, non riusciva a sentirla. Era troppo lontano. Bastava un passo. Così. E non sentiva più niente.
Allora si dovette sporgere per sentirla ancora.
– ...the dream can I do? Do you know me baby?
Perché voleva sentirla ancora?
Il lampione dalla strada riusciva a illuminare un ventaglio della cucina. Le macchine passavano con un rumore leggero, appena accennato. Torino era nel torpore di una pioggia sterile. Scendeva monocorde, se ne andava sul grigio. Allora pensò che là di fuori ci doveva essere ancora il mondo. Almeno credeva.
È che a volte Giorgio Paludi, commissario, non era sicuro di niente. La canzone però gli piaceva. Aveva un nonsocché di dum dum. Du dum. Un passo in gola che registrava bene le sensazioni. Dum dum. Era intonata con quel momento. Per nulla invadente. Come Lidia. Sua moglie. Non riusciva ancora a chiamarla “ex”. Non “doveva” chiamarla a quel modo. Come poteva diventare una ex la donna che ha messo su la tua pancia. La donna che ha cresciuto nel ventre tuo figlio, quella con cui hai scelto il suo nome: Michele. E Lidia, sua madre. Con le labbra sottili. Le parole sempre a posto. La sua schiena dritta come una madonna d’oricalco.
– Sai qual era il mio sogno da bambina? – le aveva detto un giorno. – Di incontrare un uomo come te. – Poi gli aveva preso la mano e l’aveva portato in camera. Si erano inginocchiati, le aveva percorso le spalle e segnato il collo con dei piccoli baci. Per lui era una preghiera. Scopava e pregava. Pregava che quel loro mondo non finisse mai.
Giorgio Paludi l’aveva seguita come un bambino dietro a un pallone. Senza meta. Solo nella convinzione che quel posto sconosciuto fosse quello giusto dove essere felici. Che lungo quella strada da percorrere in coppia avrebbe preso a pedate inconvenienti e animali ingordi che ne avrebbero potuto intralciare il cammino.
Il commissario era convinto che esistesse un posto dove non potesse mettere le mani la morte, che non avesse chiavi per la porta che custodiva quell’amore. L’unico che aveva avuto in dono in quarantotto anni. Allora si mise a piangere fino a spegnere la sigaretta. Si raggomitolò sul divano e singhiozzò. Un filo di bava che scivolò sul cuscino come quando sognava. Ma stava solo dormendo. Lo capì in quel dormiveglia, lo capì dal leggero ronzio delle turbine e della portanza delle ali che dondolavano leggermente sfidando una bizzarra legge della fisica.
Lo svegliò la hostess per raccomandargli di allacciare la cintura. Stavano atterrando. La realtà entrò negli oblò. L’aereo percorse una lunga curva da sud sopra Torino, tagliando zenitalmente in fronte alle Alpi. La notte era tersa, le luci vibravano come cristalli, un alone di smog dava una mano di giallo alla nebbia poco sopra le case. Era una notte da fotografare e farci qualche concorso.
Dodici giorni. Le vacanze erano finite. Alla fine a Santo Domingo c’era voluto andare: da solo. Una presa di posizione netta contro la sua fidanzata, una dichiarazione d’indipendenza. Anche se non aveva fatto altro che ubriacarsi, dormire in spiaggia, ancora ubriacarsi e pagare i taxi per farsi riportare a casa. Anzi una sera il taxi non l’aveva trovato e si era fatto accompagnare da un locale che l’aveva caricato su una carriola. Lì per lì c’aveva riso su. Ma forse non era stata un’esperienza troppo nobile. E adesso cosa sarebbe cambiato? Eva l’avrebbe lasciato? O peggio avrebbero litigato per una settimana? Una settimana di dispetti, minestre fredde, punture di spilli, battute acide. L’aereo volava ormai vicino ai tetti delle case, Paludi riconobbe la Reggia di Venaria e l’enorme parco della Mandria. Dodici giorni di vacanza. Dodici anni da quel giorno con Lidia. Un giorno per un anno. La vita mischiava le carte, adombrava sospetti. I sogni diventavano poca cosa se ne perdevi di vista la motivazione sotterranea. Quella che ti vibra dentro da giovane e ti spacca le ossa.
Adesso quell’amore, quel sogno, l’aveva turbato: il volto di sua moglie si sovrapponeva alla faccia di Eva, le rughe si sdoppiavano e l’immagine andava miope e fuori fuoco. Per volerle bene, ad Eva gliene voleva. Ma Lidia era stata la sua vita, suo figlio era un menhir, non si spostava, stava ancora lì come i megaliti di Stonehenge e lui ci confrontava le costellazioni, ci faceva l’oroscopo. Come poteva raggiungere una tale intensità... Farne un altro, di figlio, era escluso. Vivere non gli era mai piaciuto. Tranne in quei giorni d’agosto. Quei giorni d’estate con Lidia in Corsica. Quei pomeriggi assolati sull’unghia nera della spiaggia di Nonza, gli accampamenti sul ciglio della strada con un fornello da campeggio al tramonto. Una pasta da riscaldare sugli strapiombi delle calanques di Porto e il futuro ancora tutto davanti.
Finì d’un sorso la vodka che aveva di fronte e chiuse gli occhi mentre la pista si avvicinava sotto di loro. Il pilota planò e la gente applaudì distrattamente; erano tutti stanchi da nove ore di viaggio. Paludi scese e si sgranchì le gambe a terra. Fortunatamente erano vicini agli arrivi e non dovettero prendere il bus. Avanzò pigramente trascinando il trolley e fumando avidamente una Stop. Guardò il circolo marrone di catrame sulla base del filtro. Va bene. Non era il momento di pensare alla sua relazione con Eva. L’ozio della vacanza gli aveva accatastato troppi pensieri in testa. E indietro non si poteva tornare. Ma perché era così difficile vivere nel presente?
Entrò nel terminal di Caselle e appena oltre la porta scorrevole capì che non avrebbe avuto il tempo di pensarci nemmeno se avesse voluto. Né al passato, né al futuro. Gli venne in mente una stupidata di film che gli aveva propinato la fidanzata alcuni mesi prima, Sliding Doors. Pensò a quante cose possono cambiare ogni istante di ogni vita, per un qualsiasi capriccio del caso. Per qualsiasi porta che si apre e che attraversiamo.
Stavolta dietro la porta trovò l’ispettore Pietro Anastasi, pesci ascendente pesci. Era impalato in un impermeabile nero con i polsini lisi da troppi lavaggi a novanta gradi. Aveva il raffreddore e dopo una sfazzolettata provò a mettere in piedi un sorriso. Non gli riuscì. Giorgio Paludi aveva già capito l’allusione. Faceva il poliziotto da troppo tempo. Da tutta la vita.
– Buonasera ispettore. Dov’è il cadavere?
L’ispettore allargò le braccia come a scusarsi. Fece ancora uno starnuto.
Le vacanze erano finite. Dodici giorni e dodici anni. Non c’erano più. Non erano mai esistiti. Il passato non era una terra straniera. Il passato era una nazione senza confini che pretendeva vinti e vincitori su ogni giorno del calendario.