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1507 Words
2 Adeline «Dov’è la torta di Natale di Mrs Litton?». Toby mi sfrecciò davanti, diretto verso il retro del negozio. Sorrisi a Mrs Litton. «È in frigorifero. Non si preoccupi». Lei diede una tiratina al guinzaglio del suo cane, che uggiolava, e arricciò il naso. «Sarà meglio. La mia festa è stasera». Non c’era nulla da fare, se non continuare a sorridere. E così feci. «E un’altra cosa. La torta che avete preparato per Betty la settimana scorsa aveva la glassa più deliziosa che avessi mai assaggiato. Di cosa era fatta? Crema di burro e zucchero e un qualche tipo di formaggio dolce spalmabile? Se la mia glassa non sarà altrettanto buona, resterò molto delusa». «È la stessa». Mi lisciai il grembiule rosa e marrone e pregai che Toby si affrettasse. «Ricorda? La settimana scorsa, quando ha chiamato, ha detto: “Voglio la stessa torta di Betty, ma più grande”. Ed è ciò che ho fatto». Si sistemò l’elmetto di capelli grigi con la mano. «Betty non ha idea conto di cosa le si sta per abbattere addosso. Pensava che quest’anno sarebbe stata la regina delle feste». La sua risata fu molto più sinistra che allegra. «Lo vedremo». Il cane uggiolante guaì quando Toby rientrò con la torta in mano. Riuscii a reprimere un sospiro di sollievo e tirai fuori una scatola per la torta, mentre Mrs Litton osservava attentamente la glassa. «Questo è…». Picchiettò le dita sulla sommità della vetrinetta piena di cupcake e biscotti. «Proprio quello che volevo». «Ottimo». La feci scivolare nella confezione, chiudendo attentamente il coperchio, mentre Toby provvedeva al conto. «Spero che la sua festa sia un successo». La donna gli porse la carta di credito. «Lo sarà. Sentitevi liberi di fare un salto, se vi fa piacere». Mi guardò con gli occhi stretti come due fessure; senza dubbio stava considerando i miei capelli biondi raccolti in una coda di cavallo spettinata, le spruzzate di farina che costellavano costantemente le mie guance e il mio amatissimo grembiule. «Ma assicuratevi di essere presentabili». «È molto gentile da parte sua». Non avevo alcuna intenzione di partecipare alla noiosissima festa di Mrs Litton, ma era stata comunque carina a invitarmi. «Suo padre veniva tutti gli anni». Finalmente il suo volto si fece un pelo più dolce. «Sono sicura che deve mancarle terribilmente, soprattutto in questo periodo dell’anno». «Già». Mi sforzai di fare un altro sorriso per scacciare quell’ombra di dolore che aleggiava intorno a me come nevischio. «Ma so che sarebbe fiero del mio negozio. Ha sempre avuto spirito natalizio». Porsi di nuovo la torta a Toby. «Per favore, accompagna Mrs Litton alla macchina». «Certamente». Toby afferrò la scatola e girò intorno al bancone. Il cane uggiolante guaì. Mrs Litton mi diede un buffetto sulla mano. «Buon Natale, cara». «Buon Natale». Un vero sorriso mi riaffiorò sulle labbra. Questo era il periodo dell’anno che preferivo e celebravo il Natale con quanta più gioia possibile. Per papà le festività erano sempre state molto importanti, così io continuavo la tradizione. Mi sembrava un piccolo modo per ricordarlo e una grande opportunità per restituire qualcosa alla città di Brooktown. Ero famosa per le torte di Natale che preparavo ogni anno e che inviavo alle persone che sembravano aver bisogno di tirarsi un po’ su di morale. Toby batté i piedi a terra per scrollarsi la neve dagli stivali. «Ha un bel caratterino». Diedi un’alzata di spalle. «Non è cattiva». Lui alzò gli occhi al cielo. «È una rompipalle e il suo cane è un razzista». Sbuffai. «Razzista?». «Abbaia solo a me». Indicò la sua pelle scura. «E non far finta di non sapere perché». «Sono certa che abbai a tantissime persone», dissi con tutta la leggerezza possibile. Toby mi rivolse uno sguardo che voleva dire: “Ma per favore”. «Cane. Razzista». Strinsi le labbra per trattenere un sorriso. «Okay, forse». Lui scoppiò a ridere. «Finalmente la sento dire qualcosa di negativo su qualcuno, anche se è solo un cane». «Dico cose negative costantemente!». Premetti l’interruttore per accendere le luci a forma di bastoncini di zucchero della finestra. «Non è vero. Non parli mai male di nessuno, nemmeno del cattivissimo Mr Fletcher o di quello stronzo che cerca costantemente di soffiarti il negozio da sotto il naso! Quante volte quel vecchio recluso di Mr Grayson ha mandato il suo avvocato a importunarti?». «Qualcuna». Onestamente, non potevo tenere il conto di quante volte l’avvocato mi aveva fatto visita o chiamato. In alcune occasioni, era perfino passato da casa mia. Ogni volta avevo declinato educatamente la sua offerta, anche quando aveva raggiunto cifre astronomiche. La pasticceria era parte di me, ed era mia intenzione che rimanesse tale finché avessi vissuto a Brooktown. «Qualcuna?». Scosse la testa. «Ti ha dato la caccia per anni, eppure…», disse puntando un dito verso di me, «eppure, so che anche quest’anno hai mandato una torta di Natale al suo capo». Mi spinsi gli occhiali sul naso – avevano l’abitudine di scivolare giù. «Vive in quella vecchia casa enorme tutto da solo. Niente famiglia, niente figli. Non viene nemmeno mai in città. Cosa c’è di male nel mandargli un piccolo presente per rallegrare le sue feste?». Ezra Grayson era sulla mia lista delle torte di Natale da cinque anni. Speravo che un po’ di gentilezza potesse essere utile e che lo facesse desistere dal farmi pressioni per vendere la pasticceria. L’idea non sembrava funzionare, ma continuavo comunque a mandargli le torte. Non avevo mai nemmeno incontrato quell’uomo, anche se molte persone parlavano di lui. Testardo. Scortese. Altezzoso. Tirchio. Nessuno aveva mai una parola gentile da dire su quel pover’uomo. «Non è tuo amico, Addie. Non se sta dietro al tuo negozio in quel modo. Sarà probabilmente un ottantenne brontolone con una bombola di ossigeno e un bastone per colpire i cani. E tu sei qua, a comportarti in modo gentile con lui». Sospirò. «Sei senza speranza». Un campanello suonò dal retro del negozio e Toby si affrettò ad andare a controllare il forno. Passai al vaglio le torte che dovevano ancora esser ritirate entro sera. Solo due. Solitamente chiudevamo alle nove, ma durante le festività tenevo aperto un po’ più a lungo, giusto per lasciare accesa una luce brillante su Main Street e invogliare gli amanti degli spuntini serali a prendere qualche biscotto appena sfornato. Mentre mi piegavo per riordinare i vassoi di pasticcini, la porta si aprì e una raffica di vento freddo entrò nel calore profumato di zucchero del negozio. Un uomo alto in un lungo cappotto grigio scuro fece il suo ingresso, qualche fiocco di neve si sciolse tra i suoi capelli neri appena oltrepassò la soglia. Un paio di occhi verde scuro sbirciarono le vetrinette piene di torte e biscotti, poi si avvicinò. Era di bell’aspetto, e sembrava essere poco più vecchio di me. Qualcosa come trent’anni contro i miei venticinque. «Salve». Mi posizionai dietro al bancone. «Come posso aiutarla?». «Salve». Non si accostò al banco, continuò soltanto a scrutare il negozio con sguardo tagliente. Intrecciai le dita e cercai di non fissarlo. Di solito, quando qualcuno entrava, veniva al bancone o si dirigeva verso le vetrinette. Quest’uomo, invece, sembrava quasi aver paura di avvicinarsi di più. Mi schiarii la voce. «Ho sentito che dobbiamo aspettarci altra neve stanotte». «Sì». Finalmente si avvicinò, ma non stava più guardando gli espositori. Guardava me con una schiettezza tale che mi sentii pervadere collo e guance da un improvviso calore. «È lei Adeline Bishop?». Si fermò a un paio di metri dal banco. Alto, oltre il metro e novanta, e grosso come una specie di atleta. Viveva qui in città? «Io… sì. Ma gli amici mi chiamano Addie». Sostenne il mio sguardo e l’espressione nei suoi occhi sembrava quasi di sfida. «E questo è il suo negozio, Adeline?». Deglutii a fatica. «Sì. Cosa posso servirle?». La mia lingua schizzò fuori a umettare le labbra, una mia abitudine nervosa. I suoi occhi seguirono quel movimento e si fecero più grandi. «Cosa può servirmi?», chiese dolcemente, lo sguardo ancora fermo sulle mie labbra. Qualcosa nel suo modo di guardarmi mi mozzò il respiro in gola. Risposi quasi ansimando. «Sì. Ho biscotti e torte e…». «Torte». La sua attenzione tornò precipitosamente ai miei occhi e le sue labbra s’incresparono. «Mi scusi, non capisco. Vorrebbe una torta? Di che tipo?». Strinsi ancora di più le dita che tenevo intrecciate. «Ho torte di Natale sfornate e decorate proprio stamattina. E ci sono…». Si udì un forte clangore provenire dal retro, il rumore familiare di padelle che entravano in collisione con il pavimento. «Porca miseria!», urlò Toby. «Se vuole scusarmi un istante. Torno subito». Alzai un dito verso l’uomo, poi mi voltai e mi precipitai in cucina. Due teglie rotonde giacevano sul pavimento e da una fuoriusciva la metà di una torta al cioccolato andata in pezzi. Toby si afferrò una mano. «Stai bene?». Corsi verso di lui. «Sì, sono solo uno stupido. Ho preso in mano una teglia bollente come un idiota. Mi ero completamente dimenticato di averla tolta dal forno solo pochi minuti fa». Scosse la testa. Toby era un bravo pasticcere, ma a volte un po’ distratto. Io dicevo sempre che ciò faceva parte del suo fascino. «È capitato a tutti». Mi voltai, aprii l’armadietto sopra al lavandino e tirai fuori l’unguento per le ustioni. «Fammi vedere». Lui tese la mano; il rossore stava già comparendo lungo le dita. «Questo ti farà bene». Gli spalmai l’unguento rinfrescante sulla mano. Sospirò. «Va già meglio». «Devi continuare a metterlo ogni trenta minuti o giù di lì». Gli misi il tubetto nella mano sana. «Mi occupo di questo cliente, poi torno a controllarla». Lui arricciò il naso. «Sto bene. Non è la prima volta che mi brucio. Ma dovrò rifare la torta al cioccolato di Mr Burnham». «Me ne occuperò io. Non preoccuparti». Lo guidai fino alla piccola seggiola che eravamo riusciti a mettere nella zona cottura. «Siediti qui e rilassati per qualche minuto». «Sto bene, davvero…». «Resta lì». Lo indicai con il dito e ritornai sul fronte del negozio. Era vuoto. Il tipo interessante se n’era andato.
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