Chapter 2

3317 Words
1.La visione pagana era olistica; gli dei non erano distinti dalla specie umana, in una sfera ontologicamente separata: la divinità non era essenzialmente differente dall'umanità. Per questo non c'era bisogno di una speciale rivelazione degli dei o di una legge divina che discendesse sulla terra dall'alto: gli dei e gli esseri umani erano nelle stesse condizioni, con la sola differenza che gli dei erano più potenti e immortali. Karen Armstrong - Era difficile guardarli senza soggezione. Non solo sembravano lontani e irreali per via del loro aspetto, anche l’aura mitologica che si era creata loro attorno nel corso degli anni accentuava la sensazione. I Timocrati erano sei, e durante quelle sessioni ufficiali vestivano tutti nello stesso modo, con lunghe vesti di velluto blu sulle quali le rifiniture si allungavano come nervi d’argento. I colletti alti e rigidi conferivano ai loro volti color gesso un’alterità persino eccessiva. Erano circonfusi di dignità, pensò Julie. Le sembravano simili a statue viventi, con la stessa antica compostezza e quasi la medesima immobilità. I tre che sedevano sulla destra avevano la vetrata alle spalle e così non poteva vederne bene i lineamenti. Scorgeva solo i profili nobili delle loro teste e le mani candide appoggiate sui braccioli. Julie non poteva fare a meno di pensare che quelle stesse mani, ogni giorno, firmavano e convalidavano la maggior parte dei progetti di legge, dei piani per le opere pubbliche e per le sovvenzioni del Paese. Se i tre Timocrati sulla destra la inquietavano perché non riusciva a scorgerne il volto, i tre sulla sinistra lo facevano per il motivo opposto. Le iridi rosso scuro, immobili, sembravano attraversarla da parte a parte. I visi color gesso, solcati da rughe che di conseguenza apparivano grigie, erano troppo immobili. I capelli di uno strano colore tra il blu e il grigio avevano troppi riflessi, come se fossero parrucche. «Sa perché è stata convocata, dottoressa Julie?» chiese una voce autoritaria, dalla sua destra. Le sembrava che avesse parlato il Timocrate di mezzo, quello che sembrava di genere femminile. Ma nella sua voce non c’erano stati toni che potessero far pensare a un sesso o all’altro. Era stato un suono neutro, vagamente rimbombante, privo di sbavature. «Mi hanno riferito che volevate interrogarmi sulle mie ricerche, Timocrate» rispose lei, in tono nervoso, guardando verso destra senza rivolgersi a nessuno dei tre in particolare. Poi fece scorrere lo sguardo su tutti e sei, seguendo il semicerchio che formavano da destra a sinistra. Il terzo sulla sinistra si era mosso appena sulla sedia, come a mettersi più comodo. Julie era quasi sicura che fosse quello che chiamavano Apollo e che sovrintendeva alla sanità pubblica. Doveva essere di statura media, era leggermente pingue e, nello strano modo dei Timocrati, dimostrava circa una sessantina d’anni. La sommità del suo cranio era calva e il resto dei capelli formava una rada aureola bluastra al di sopra delle orecchie. Julie credeva anche che la domanda alla quale aveva appena risposto le fosse stata rivolta da quella che chiamavano Minerva. Visto che i Timocrati apparentemente di genere femminile erano due, Minerva e Giunone, e che Giunone sedeva a fianco di Apollo, l’altra doveva essere per forza Minerva, sovrintendente alla cultura. «Sì, sulle tue ricerche…» disse, piano, il Timocrate più vicino a lei, sulla sinistra. Julie sapeva molto bene di chi si trattava, visto che negli ultimi anni era stato sulle pagine dei giornali anche troppo spesso. Era Marte, della difesa. Alto e snello, dimostrava una quarantina d’anni. Aveva il naso aquilino e i capelli bluastri gli scendevano per un bel pezzo giù per la schiena, lisci. «Abbiamo letto i suoi articoli, il dibattito… abbiamo preso visione dei suoi dati e fatto esaminare i suoi risultati…» disse una voce soffice, alla sua destra. Poteva trattarsi di Eolo o di Mercurio, ma Julie propendeva per quest’ultimo. Si occupava di economia. «È per me un grande onore aver attratto il vostro interesse…» cominciò Julie, in tono ossequioso. «Se i tuoi risultati non fossero stati interessanti non saresti mai arrivata qua» tagliò corto Marte, attraversandola con il suo sguardo severo. Julie fece un piccolo inchino nella sua direzione. «Nostro fratello ha dimostrato l’interesse più grande» aggiunse Giunone, in tono pacato. Assomigliava a una donna minuta, cicciottella e sulla quarantina, con i corti capelli bluastri un po’ in disordine e l’aspetto meno minaccioso dei sei. Ma c’era una nota autoritaria nella sua voce, che sembrava suggerire di non sottovalutarla. Il suo campo era il welfare. «Non si tratta di interesse in senso stretto. Si tratta di prevenire i problemi prima che si verifichino, Giunone» rispose Marte in tono aspro. Poi tornò a guardare Julie. «La Timocrazia ha stabilito di sospendere ogni finanziamento e di mettere termine al tuo progetto». Julie si sentì come se le avessero tolto l’aria. Aveva lavorato duramente, per sette anni, lottando per i fondi e le autorizzazioni, derisa da quanti pensavano che stesse inseguendo un sogno velleitario, e adesso che arrivavano i primi risultati… «Ma… ma perché…» tartagliò, cercando di non mettersi a gridare. Marte continuò a fissarla freddamente. «Perché così è stato deciso». +++ Julie guardava fuori dal finestrino della macchina con aria spersa. La pioggia rendeva il paesaggio di case e palazzi confuso e velato, ma in ogni caso Julie non era certo dell’umore giusto per interessarsi all’architettura di Bruxelles. Lasciava che l’auto la conducesse lentamente tra il traffico, avvolgendola nel suo bozzolo insonorizzato. Era finita. Rovinata. Distrutta. Il suo progetto non esisteva più, e questo era solo l’inizio. Era stato bocciato dai Timocrati. Se conosceva le politiche universitarie non le avrebbero più approvato alcun tipo di ricerca. Oh, con motivazioni perfettamente logiche, certo… con grande rammarico… Sarebbe stata messa da parte. Ignorata finché non se ne fosse andata da sola. Per loro sarebbe diventata il parente brutto da nascondere in soffitta. Avrebbe lottato, certo. Ma alla fine sarebbe stata costretta ad andarsene, e allora… Nessuno le avrebbe più dato lavoro, semplicemente. L’unica cosa che poteva fare era… I suoi pensieri lugubri furono interrotti da un suono proveniente dal computer di bordo. Oh, no… pensò Julie, non dirmi che si è rotta anche la guida automatica… Ma no. Invece no. C’era una comunicazione in attesa. Mittente sconosciuto. Protezione Alfa 1. Julie sbatté le palpebre. Protezione Alfa 1? Neanche quando l’avevano convocata davanti ai Timocrati avevano usato un’Alfa 1. Una voce robotica iniziò a uscire dall’altoparlante: «Il suo veicolo sta per essere dirottato verso una nuova destinazione per motivi di sicurezza. Prego mantenere la calma». Julie si voltò spaventata verso il finestrino. Il vetro era diventato opaco. Motivi di sicurezza? Mantenere la calma? Mantenere la calma, sì… tutto sommato non sembrava una cattiva idea. Julie provò a respirare profondamente e a far rallentare il martellio del suo cuore. Forse si trattava davvero di un motivo di sicurezza. Forse gli Afroasiatici avevano messo una bomba sulla strada. Forse a Bruxelles era comune. Forse anche tutte le altre macchine, in quel momento, venivano deviate dalla loro rotta. Julie chiuse gli occhi. Non era così, e lei lo sapeva. Il codice Alfa 1 poteva significare solo una cosa: un ordine diretto da parte di un Timocrate. Era appena uscita da un incontro con loro. Non un buon incontro, doveva aggiungere. Probabilmente non avrebbe più dovuto preoccuparsi di restare senza lavoro. Probabilmente avrebbe fatto meglio a iniziare a preoccuparsi degli inviti al suo funerale. +++ L’auto si fermò e i finestrini riacquistarono la loro trasparenza. Le porte si aprirono. A prima vista si trattava di un parcheggio sotterraneo. Le pareti di plastica grigio-verde e il pavimento di gomma erano quelli, così come le luci smorte e la segnaletica orizzontale per terra. Scese lentamente dalla vettura, tenendo la borsa tra le mani con forza. La porta di un ascensore si aprì dolcemente, proiettando un rettangolo di luce gialla. Che cosa doveva fare? Era chiaro che volevano che salisse, che andasse incontro al suo destino come un manzo al macello. Ma a che cosa le sarebbe servito non salire? Certo, si trovava in un parcheggio, il che significava che la macchina da qualche parte era entrata, ma chi le diceva che poteva ancora servirsi di quell’uscita? Ovviamente l’avevano chiusa dentro. Tutte le pareti a parte quella dell’ascensore sembravano identiche e prive di aperture. Le prese dell’aria, magari? L’ascensore si trovava fermo al suo piano, le porte spalancate ad augurarle un orrendo benvenuto. Julie si spostò contro una parete. Probabilmente la stavano guardando. Forse stavano ridendo di lei. Be’, che ridessero pure. Non sarebbe andata a morire calma e tranquilla. Avrebbero dovuto andarla a prendere. E lei avrebbe lottato, maledizione. «Dottoressa Julie, credo che tu sia vittima di un malinteso» le giunse, improvvisamente, una voce alle spalle. Aveva delle risonanze quasi sovrannaturali. Julie si voltò lentamente. Accanto alla sua macchina, tranquillo come se ci fosse stato da sempre, stazionava il Timocrate Marte. Le rivolse il più impercettibile dei sorrisi. «Non ho alcuna intenzione di ucciderti» aggiunse. Julie, senza parole, si limitò ad aprire la bocca. Rispetto a due ore prima si era cambiato di abito. Non indossava più la lunga veste di velluto blu, ma una sorta di pastrano rosso cupo, che gli si avvolgeva mollemente intorno al collo e si raggruppava per terra attorno ai suoi piedi. «E adesso… ti dispiacerebbe seguirmi in ascensore?» disse, sollevando appena una delle lunghe mani bianche e sottili. Julie gli trotterellò dietro fino all’ascensore. Per essere uno che sembrava non muovere i piedi camminava dannatamente veloce. Scesi che furono, quindi, la guidò a velocità warp lungo una serie di corridoi di plastica color crema, illuminati fiocamente da delle luci nascoste. Il silenzio era totale, a parte il suono delle scarpe di lei sul linoleum. Le scarpe di lui (ma le aveva?) non provocavano alcun rumore. «La seduta privata a cui sei stata convocata sarà già nelle mani dell’intelligence, lo sapevi?» chiese Marte, aprendo una porta. Julie deglutì. Non sapeva che cosa dire. «Più cerchi di tenere qualcosa in sordina più tutti cercano di scoprire di che cosa si tratta. Sono decenni che le sedute private della Timocrazia vengono spiate». «Ma… perché?». Il Timocrate si voltò lentamente verso di lei, trapassandola con gli occhi vermigli. «Intendevo dire… perché la mia udienza, Timocrate?». Lui sorrise appena. Poi entrò nella stanza. L’aria era fredda, e ne aveva motivo, visto che si trattava di un obitorio. O quasi. Sulla sinistra le maniglie si allineavano sulla grande cassettiera per i corpi, ognuna siglata con un numero. Sulla destra c’erano due grandi tavoli autoptici automatizzati, con gli elevatori fermi e i bracci meccanici in posizione di riposo. Ma Marte non sembrava intenzionato a soffermarsi su quegli oggetti. Si mosse velocemente verso l’arco davanti a loro e la guidò in un’altra stanza. Questa era molto più ampia della precedente, con lunghe file di elaboratori a destra e a sinistra, dietro ai quali si scorgevano scaffali pieni di storte e di reagenti. Neanche questa stanza, però, si meritò una pausa da parte di Marte, che continuò la sua corsa oltre un secondo arco. Le apparecchiature contenute nella terza stanza strapparono a Julie un’esclamazione di incredulità. Molti dei macchinari erano gli stessi che lei aveva nel proprio laboratorio, compreso il grande estrapolatore, che assomigliava al suo come un fratello gemello. Marte si fermò davanti a quello. «Ci siamo permessi alcune piccole migliorie rispetto al modello originale» commentò, appoggiando la mano candida sulla sommità dell’oggetto. Julie – stava diventando quasi un’abitudine – lo guardò senza parlare. Marte scivolò via senza altri commenti, precedendola verso una porta chiusa. Appoggiò una mano sopra alla superficie di plastica, e la porta scivolò silenziosamente di lato. Si trovavano in uno studio privato. C’era una grande scrivania di vetro e il pavimento era coperto da un folto tappeto orientale. Una parete alloggiava delle lunghe mensole di legno vuote, mentre contro l’altra era addossato un divano coperto di velluto verde riccamente ricamato. Davanti alla scrivania stavano due seggiole di pelle scura; dietro una vera e propria poltroncina dalla linea sottile e un po’ antiquata. «Spero che mi perdonerai per aver fatto arredare questo posto secondo i miei gusti» disse Marte «ma non conosco i tuoi». Julie richiuse la bocca, che aveva spalancato. «È bellissimo» mormorò. Le sembrava di essere caduta nel pozzo di Alice. Marte le rivolse un veloce sorriso e le indicò l’ennesima porta. «Dovresti appoggiare la mano lì sopra» disse, semplicemente. Perché questa volta devo farlo io? Pensò Julie, mentre eseguiva. Fino a quel momento lo aveva sempre fatto lui. La porta scivolò dolcemente davanti a lei, rivelandole un ingresso rivestito di seta color salvia. Oltre a quello si vedeva un ampio salotto munito di un divano bianco e di un tappeto orientale sui toni del verde. Non aveva mai visto niente del genere. «Qui mi fermo» udì la voce soprannaturale di Marte, dietro alle proprie spalle. «Oggi pomeriggio alle tre ti vorrei incontrare nel tuo studio per darti tutte le spiegazioni del caso. Sono certo che ora preferisci rinfrescarti». Sollevò appena una mano una mano in segno di saluto e fece un paio di passi indietro. Il pezzo di pavimento sotto ai suoi piedi si sollevò e lo innalzò velocemente verso il soffitto, oltre il quale scomparve. +++ Julie era entrata in quello che sembrava un appartamento (il suo appartamento?) con cautela quasi reverenziale. Dal salotto, che era una vasta stanza quadrata e dotata di ogni comfort, si accedeva alla cucina, a un bagno e a un breve corridoio che portava all’ennesima porta chiusa. Julie vi appoggiò una mano e questa si aprì. Si trovò a sbattere le palpebre per la luce improvvisa. Cinque o sei metri di fronte a lei, infatti, una grande finestra le mostrava… Bruxelles. Si vedeva l’intera città dall’alto, e la luce del sole inondava l’ambiente. Julie capì all’improvviso che si trovava in uno degli altissimi grattacieli della Timocrazia, quelli che catturavano l’occhio del visitatore fin da quando il suo volo atterrava. Si distolse a malincuore dalla finestra per osservare la stanza. Su un lato c’era un alto armadio di legno chiaro, sull’altro un vasto letto ricoperto di velluto color salvia. In un angolo si apriva anche la porta di un bagno privato, che risultò grandissimo e dotato di ogni comodità. Julie decise di approfittarne subito e di fare una doccia. Non solo si sentiva stanchissima e confusa, ma provava anche una strana sensazione di spaesamento misto a meraviglia. In che situazione si trovava? Che cos’era quel laboratorio così simile al suo, ma ancora più avanzato, palesemente superiore? Che cosa voleva Marte da lei? Julie era intimorita dal Timocrate fin quasi alla paura. Di sicuro non era un essere con cui scherzare. Tutto, nei Timocrati in generale e in Marte in particolare, la metteva in soggezione. Non era solo la loro manifesta alienità, ma anche il modo in cui ti guardavano, in cui si muovevano (o meglio, non si muovevano!) e, infine, l’aura di mistero che avevano attorno. C’era chi diceva che provenissero da un altro sistema solare, chi che un tempo fossero stati umani. La maggioranza credeva che fossero il frutto di una bizzarra mutazione, ma qualcuno credeva che fossero davvero le antiche divinità di cui portavano il nome. Certo, la loro somiglianza agli esseri umani era solo apparente. Se li guardavi da vicino ti rendevi conto di quanto fossero... alieni. La vera storia si era persa nel tempo. Tutto quello che si sapeva era che occupavano i loro posti di Timocrati da centinaia di anni e che apparentemente non morivano. Ma chi poteva dirlo? Magari una volta ogni decennio producevano un uovo da cui usciva un loro clone perfettamente formato, per quel che ne poteva sapere lei. Julie uscì dalla doccia e si avvolse nella vestaglia tiepida. Seguendo un’intuizione del momento aprì il grande armadio della camera da letto. Come sospettava c’era un vestito appeso a una gruccia. Il braccio meccanico scattò a mostrarglielo con un gesto elegante. Era una semplice casacca grigia simile a quella che aveva portato quella mattina, che copriva una lunga veste bianca, ben più lunga delle sue gambe. Julie si avvicinò per osservare meglio. La tessitura della casacca era molto più elaborata di quel che si poteva ipotizzare a prima vista. Le cuciture erano vere cuciture e non semplici simulazioni sopra un pezzo di stoffa unica. Anche le linee del vestito, che era di un materiale molto sottile ma elastico e coprente, sembrava più elegante di quelli che indossava abitualmente. Quando lo provò si accorse che era come se la stoffa la fasciasse mezzo millimetro sopra alla pelle, scaldandola senza toccarla veramente. Il morphing con cui l’abito si adattò alle sue misure, inoltre, era molto più sofisticato del solito. In fondo all’armadio c’erano delle scarpe con la suola di feltro, che dovevano essere la ragione della grande silenziosità di Marte. Julie finì di vestirsi e uscì dall’appartamento. Attraversò lo studio e si fermò in contemplazione davanti al grande estrapolatore. Era davvero un modello più evoluto rispetto al suo. Julie si chiedeva in che modo avessero messo le mani sui progetti. La maggior parte degli schemi primari era stata progettata da lei in persona. Durante gli anni era persino arrivata a intervenire fisicamente sulla macchina per apportare dei cambiamenti con il micro-laser. Di queste modifiche non c’era traccia nei progetti, eppure erano lì. Migliorate, persino. Julie accantonò momentaneamente il problema e rientrò nello studio. Sembrava che tutte le porte reagissero alla sua impronta genetica. Marte era in piedi davanti alla scrivania, immobile e con le mani intrecciate dietro alla schiena. Julie sobbalzò. L’appuntamento! Era in ritardo? «Solo di pochi secondi» rispose Marte, come leggendole nel pensiero. «Siediti, prego…» aggiunse, indicando la poltrona dietro alla scrivania. Julie pensò che era piuttosto strano parlargli da quella posizione, come se lei fosse il boss e lui quello che chiedeva udienza. Marte si accomodò su una delle poltrone rivestite di pelle e accavallò le lunghe gambe. Dalla veste spuntava appena una scarpe simile a una pantofola di broccato. Si intrecciò le mani in grembo e la guardò con calmo sguardo vermiglio. «Non farò un torto alla tua intelligenza spiegandoti il perché di tutto questo» cominciò, in tono quieto. «Ma lascia che ti rassicuri sulla competenza dell’equipe che guiderai. Ovviamente hai la facoltà di sostituire i componenti che non dovessero rivelarsi all’altezza delle tue aspettative, ma credo che questo non avverrà». Un breve sorriso. «Sempre che tu accetti, beninteso» aggiunse, inarcando appena un sottile sopracciglio bluastro. Julie si fissò le mani. Vide che le tremavano e provò a nasconderle sotto alla scrivania. Purtroppo si distinguevano nitidamente attraverso il vetro. Marte inclinò appena la testa da un lato. «Non dovresti avere paura. Ti ho già detto che la tua vita non è in pericolo. Se può servire, lasciami aggiungere che non siamo noi quelli che uccidono». L’espressione perplessa sulla faccia di Julie dovette essere più esaustiva di qualunque domanda diretta, perché Marte mosse appena una mano nell’aria e spiegò: «I servizi segreti, il governo, l’esercito… a volte credono erroneamente che i problemi possano essere eliminati in questo modo, ma noi siamo sempre stati di un’idea diversa. Non commettere anche tu l’errore di crederci onnipotenti». Julie lo guardò con aria smarrita. «Voi siete…» si strinse nelle spalle. «Magari non onnipotenti, però…» «E perché? Perché non moriamo?» domandò dolcemente Marte. Le lunghe rughe che gli circondavano la bocca sottile e pallida sembrarono fremere leggermente. «Oh, sì» disse, inarcando le sopracciglia. «Vedo la tua espressione. Noi non moriamo. O, almeno, per il momento non siamo morti, non siamo invecchiati e non ci siamo ammalati. Ma questo, naturalmente, non fa di noi esseri onnipotenti». Sorrise appena. «Abbiamo la stessa forza che avevamo al momento della trasformazione, possiamo essere feriti e, ovviamente, possiamo morire di morte violenta. Quello che noi chiamavano il Numero Sette se ne è andato in questo modo, più di cent’anni fa». Julie, involontariamente, si coprì la bocca con una mano. «Sei stupita del fatto che te ne stia parlando?» chiese Marte. Poi aggrottò appena la fronte. «Forse preferiresti che non lo facessi. Forse preferisci pensare a noi come alle divinità di cui ci hanno dato il nome». «Oh, no! No!» esclamò Julie, senza riflettere. Voleva sapere. Marte sorrise della sua veemenza. «Vedi, non è un segreto. Non è mai stato un segreto. È il vostro governo che lo rende tale, creando attorno a noi il mistero. Pensa che questo rafforzi il suo potere». «Be’, è quello che fa» si arrischiò a dire, Julie. Marte sembrò meditare sulla cosa. «Lo pensi davvero? Noi crediamo il contrario, ma, certo, possiamo sbagliarci. In ogni caso, tempo fa abbiamo promesso di appoggiare qualsiasi vostro governo democraticamente in carica, quindi suppongo che continueremo a farlo, anche se questo significa farsi chiamare Marte e recitare la parte dell’alieno». A Julie sembrò che ci fosse ben più di una traccia di ironia nelle sue parole. «Il suo nome non è Marte, Timocrate?» chiese, nel tono più educato che trovava. L’altro rise. «Ovviamente no! Mia madre avrebbe dovuto essere un po’ strana per darmi un nome del genere!». «Sua…». «Mia madre. È ovvio. Tutti abbiamo avuto una madre, non crede? La mia mi aveva chiamato Dimitri. Il mio cognome era Kauriskalis. Sai che cos’è un cognome, Julie?».
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD