CAPITOLO I

1802 Words
CAPITOLO I Della condizione e delle operazioni del rinomato idalgo don Chisciotte della Mancia Viveva, non molto lontano, in una terra della Mancia che non voglio ricordare , un idalgo, di quelli che tengono lance nella rastrelliera, targhe antiche, un magro ronzino e un cane da caccia. Egli consumava i tre quarti della sua rendita per mangiare piuttosto bue che castrato, carne con salsa il più delle sere, il sabato minuzzoli di pecore mal capitate, lenticchie il venerdì, con l’aggiunta di qualche piccioncino nelle domeniche. Consumava il resto per ornarsi, nei giorni di festa, con un saio di lana scelta, calzoni di velluto e pantofole pur sempre di velluto; e, nel rimanente della settimana, faceva il grazioso portando un vestito di rascia della più fine. Una serva, d’oltre quarant’anni, ed una nipote che venti non ne compiva convivevano con lui, ed anche un servitore da città e da campagna, che sapeva così bene sellare il cavallo come potare le viti. Toccava egli l’età di cinquant’anni; forte di aspetto, robusto, asciutto di viso; si alzava di buon mattino, ed era amico della caccia. Vogliono alcuni che portasse il soprannome di Chisciada o Chesada, nella qual cosa discordano gli autori che trattarono delle sue imprese; ma per verosimili congetture si può presupporre che fosse denominato Chisciana; il che poco cambia il nostro proposito; e basta soltanto che nella relazione delle sue gesta non ci scostiamo un punto dal vero. Importa, bensì, di sapere che negli intervalli di tempo nei quali era ozioso (ch’erano il più dell’anno), si applicava alla lettura dei libri di cavalleria con una predilezione così dichiarata e così grande compiacenza che obliò quasi interamente l’esercizio della caccia ed anche il governo delle domestiche cose: anzi la curiosità sua, giunta alla mania d’erudirsi compiutamente in tale istituzione, lo indusse a espropriarsi di non pochi dei suoi poderi a fine di comperare e di leggere libri di cavalleria. Di questi ne recò egli a casa sua quanti gli vennero alle mani; ma nessuno gli parve tanto degno d’essere apprezzato quanto quelli composti dal famoso Feliciano de Silva; la nitidezza della sua prosa e le sue artificiose orazioni gli sembravano altrettante perle, soprattutto, poi, quando s’imbatteva in certe svenevolezze amorose, o cartelli di sfida, in molti dei quali trovava scritto: La ragione della nessuna ragione che alla mia ragione vien fatta, rende così debole la mia ragione che con ragione mi dolgo della vostra bellezza. E similmente allorché leggeva: Gli alti cieli che la divinità vostra vanno divinamente fortificando coi loro influssi, vi fanno meritevole del merito che meritatamente attribuito viene alla vostra grandezza. Con questi e simili ragionamenti il povero cavaliere usciva di senno. Più non dormiva per condursi a penetrarne il significato che lo stesso Aristotele non avrebbe mai potuto decifrare, se a tale unico oggetto fosse ritornato tra i vivi. Non gli andavano affatto a sangue le ferite che dava e riceveva don Belianigi, pensando che di buon diritto nella faccia e in tutta la persona avessero ad essergli rimaste impresse e vestigia e cicatrici, per quanto accuratamente foss’egli stato guarito; ma nondimeno lodava altamente l’autore perché chiudeva il suo libro con la promessa di quella interminabile avventura. Fu anche stimolato, le molte volte, dal desiderio di dar di piglio alla penna per compiere quella promessa; e senz’altro l’avrebbe fatto giungendo allo scopo propostosi dal suo modello; se distratto non l’avessero più gravi ed incessanti pensieri. Ebbe a questionar più volte col curato della sua terra (uomo di lettere e addottorato in Siguenza) qual fosse stato miglior cavaliere o Palmerino d’Inghilterra, o Amadigi di Gaula; era peraltro d’avviso mastro Nicolò, barbiere di quel paese, che niuno al mondo contender potesse il primato al cavaliere del Febo, e che se qualcuno poteva competer con lui, questi era solo don Galeorre fratello di Amadigi di Gaula, da che nulla fu mai d’inciampo alle sue ardite imprese; e non era sì permaloso e piagnone come il fratello, a cui poi non cedeva sicuramente in valore. In sostanza quella sua lettura lo portò siffattamente all’entusiasmo da non distinguere più la notte dal dì, il dì dalla notte; di modo che per il troppo leggere e per il poco dormire gli s’indebolì il cervello, e addio buon giudizio. Altro non si presentava alla sua immaginazione che incantamenti, contese, battaglie, disfide, ferite, concetti affettuosi, amori, affanni ed impossibili avvenimenti: e a tal eccesso pervenne lo stravolgimento della fantasia, che nessuna storia del mondo gli pareva più vera di quelle ideate invenzioni che andava leggendo. Sosteneva egli che il Cid Ruy Diaz era stato bensì valente cavaliere, ma che doveva ceder la palma all’altro dall’ardente spada, il quale d’un solo manrovescio aveva tagliati a metà due feroci e smisurati giganti. Più gli piaceva Bernardo del Carpio per aver egli ucciso a Roncisvalle l’incantato Roldano, valendosi dell’astuzia d’Ercole allorché soffocò fra le sue braccia Anteo, figlio della Terra. Celebrava, poi, il gigante Morgante, perché discendendo egli da quella gigantesca genealogia, che non dà che scostumati e superbi, pure egli si porgeva solo affabile e assai ben creato. Dava però a Rinaldo di Montalbano, sopra ad ogni altro, la preferenza, e segnatamente quando lo vedeva uscire dal suo castello, a far man bassa, di quanto gli capitasse tra le mani, ad esempio, derubando in Aglienda quell’idolo di Maometto che era tutto d’oro ( secondo che riferisce la sua storia). Avrebbe egli sacrificata la sua serva, e di vantaggio pur la nipote, alla smania che teneva d’ammaccare a furia di calci il traditor Ganelone. Infine, perduto del tutto il giudizio, si ridusse al più strano ragionamento che si sia giammai dato al mondo. Gli parve conveniente e necessario per l’esaltamento del proprio onore e per il servizio della sua repubblica di farsi cavaliere errante, e con armi proprie e cavallo scorrere tutto il mondo cercando avventure, ed occupandosi negli esercizi tutti dei quali aveva fatto lettura. Il riparare qualunque genere di torti, e l’esporre sé stesso ad ogni maniera di pericoli per condursi a glorioso fine, dovevano eternare fastosamente il suo nome; e figuravasi il pover’uomo d’essere coronato per lo meno imperatore di Trebisonda, in merito del valore del suo braccio. Immerso in tali deliziosi pensieri, e alzato all’estasi dalla straordinaria soddisfazione che vi trovava, si diede la più gran fretta onde porli a esecuzione. Si applicò, prima di tutto, a far lucenti alcune armi di cui si erano valsi i bisavoli suoi, e che coperte di ruggine giacevano dimenticate in un cantone: le ripulì e le pose in assetto il meglio che gli fu possibile; poi s’accorse ch’era in esse una essenziale mancanza, perché, invece della celata con visiera, vi era solo un morione; ma supplì a ciò la sua industria, facendo di cartone una mezza celata, che unita al morione pigliò l’apparenza di celata intera. Egli è vero che per metterne a prova la solidità trasse la spada, e vi diede due colpi, col primo dei quali, in un momento solo, distrusse il lavoro che l’aveva tenuto occupato una settimana; né gli andò allora a grado la facilità con cui la ridusse in pezzi; ma ad oggetto che non si rinnovasse un tale disastro, la rifece, consolidandola interiormente con cerchietti di ferro, e restò così soddisfatto della sua doppiezza che, senza metterla a nuovo cimento rinnovando la prova di prima, la ebbe in conto di celata con visiera di finissima tempra. Si recò, da poi, a visitare il suo ronzino e, benché avesse più quarti assai d’un popone e più malanni che il cavallo del Gonella – che tantum pellis et ossa fuit – gli parve che non gli si eguagliassero né il Babieca el Cid, né il Bucefalo di Alessandro. Impiegò quattro giorni nell’immaginare con qual nome dovesse chiamarlo, e diceva egli a sé stesso che fosse troppo sconveniente che un cavallo di cavaliere sì celebre non portasse un nome famoso; e andava perciò ruminando per trovarne uno che spiegasse ciò che era stato prima di servire a un cavaliere errante, e quello che andava a diventare. Era ben ragionevole che cambiando stato il padrone, mutasse nome anche la bestia, e che gliene andasse applicato uno celebre e sonoro; e quindi dopo aver molto fra sé proposto, cancellato, levato, aggiunto, disfatto e tornato a rifare sempre fantasticando, stabilì finalmente di chiamarlo Ronzinante, nome, a quanto gli parve, elevato e pieno di una sonorità che indicava il passato esser suo ronzino, e ciò ch’era per diventare, vale a dire, il più cospicuo tra tutti i ronzini del mondo. Stabilito con tanta sua soddisfazione il nome al cavallo, s’applicò fervorosamente a determinare il proprio, nel che spese altri otto giorni, a capo dei quali si chiamò don Chisciotte. Da ciò, come fu detto già prima, trassero argomento gli autori di questa verissima storia, che debba essa chiamarsi indubitabilmente Chisciada e non Chesada, come ad altri piacque denominarla. Si risovvenne il nostro futuro eroe che il valoroso Amadigi non si era limitato a chiamarsi Amadigi semplicemente, ma che affibbiato vi aveva il nome del regno e della patria, per sua più grande celebrità, chiamandosi Amadigi di Gaula. Dietro sì autorevole esempio, come buon cavaliere, decise d’accoppiare al proprio nome quello pur della patria, e chiamarsi don Chisciotte della Mancia, con che, a parer suo, spiegava più a vivo il lignaggio e la patria, e le dava onore col prendere da lei il soprannome. Rese di già lucide l’arme sue, fatta del morione una celata, stabilito il nome al ronzino, e confermato il proprio, si persuase che altro a lui non mancasse se non se una dama di cui dichiararsi amoroso. Il cavaliere errante senza innamoramento è come un albero spoglio di fronde e privo di frutta; è come un corpo senz’anima, andava dicendo egli a sé stesso. Se, per castigo de’ miei peccati, o per mia buona ventura, m’avvengo in qualche gigante, come d’ordinario intraviene ai cavalieri erranti, ed io lo fo balzare a primo scontro fuori di sella, o lo taglio per mezzo, o vinto lo costringo ad arrendersi, non sarà egli bene d’avere a cui farne un presente? Laonde, poi, egli entri e, ginocchioni dinanzi alla mia dolce signora, così s’esprima colla voce supplichevole dell’uomo domato: Io, signora, sono il gigante Caraculiambro, dominatore dell’isola Malindrania, vinto in singolar tenzone dal non mai abbastanza celebrato cavaliere don Chisciotte della Mancia, da cui ebbi comando di presentarmi dinanzi alla signoria vostra, affinché la grandezza vostra disponga di me a suo talento. Oh! come si rallegrò il nostro buon cavaliere all’essersi così espresso! Ma, oh, quanto più si compiacque, poi, nell’avere trovato a chi dovesse concedere il nome di sua dama! Soggiornava in un paese, per quanto si crede, vicino al suo, una giovane contadina di bell’aspetto, della quale egli era stato già amante senza ch’ella lo sapesse, né se ne fosse avvista giammai, e si chiamava Aldolza Lorenzo; e questa gli parve opportuno chiamar signora de’ suoi pensieri. Poi cercando un nome che non discordasse gran fatto dal suo, e che potesse in certo modo indicarla principessa e signora, la chiamò Dulcinea del Toboso perché del Toboso appunto era nativa. Questo nome gli sembrò armonioso, peregrino ed espressivo, a somiglianza di quelli che allora aveva posti a sé stesso e alle cose sue.
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